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Razzista sarà lei

di Francesco Lamendola - 17/09/2013



 

Chi è razzista, che cosa è il razzismo, come si diventa razzisti?

Senza scomodare de Gobineau o qualche altro teorico del razzismo “classico”, limitiamo la nostra riflessione all’aspetto pratico e domandiamoci: gli Europei sono naturalmente inclini al razzismo, per il fatto di avere un passato coloniale?

Il razzismo è una “malattia” dell’Occidente, o lo è di tutti i popoli, di tutte le culture, allorché si verifichi la concomitanza di alcuni fattori potenzialmente “esplosivi”, per esempio una serie di ondate migratorie pressoché incontrollate, che sovvertono bruscamente l’equilibrio, materiale e spirituale, di una determinata società, e quando non esistono elementi capaci di fare da tampone, da intercapedine, da filtro; quando, cioè, non vi è il tempo, né, forse, la volontà, di fare in modo che si realizzi un incontro di culture e non già uno scontro, in cui finirà per vincere non necessariamente il più forte, ma, forse, solo il più numeroso, con il peso delle sue masse umane?

Quando si parla di razzismo, generalmente vi si pensa secondo categorie concettuali piuttosto datate; che potevano andar bene, e sia pure in via approssimata, fino a qualche decennio fa; ma che ora, davanti alla brusca, drammatica accelerazione storica cui hanno assistito, e stanno tuttora assistendo, le ultime generazioni, rischiano di essere tremendamente inadeguate per comprendere il fenomeno, per analizzarlo, per descriverlo e per proporre eventuali soluzioni.

Prendiamo la posizione “classica” attualmente vigente nel salotto buono della cultura antropologica, quello del politicamente corretto; per esempio, la definizione di ciò che è “razzismo” fatta dall’antropologo ebreo-tunisino Albert Memmi, già docente all’Università di Parigi X e direttore dell’Unité d’Einsegnement et de Recherches des Sciences sociales (da: A. Memmi, «Il razzismo. Paura dell’altro e diritti della differenza»; titolo originale: «Le racisme», Paris, Editions Gallimard, 1982; traduzione dal francese di Cristina Spano, Genova, Edizioni Costa e Nolan, 1989, pp. 29-31):

 

«[…] il razzismo degli arabi, degli ebrei o dei maltesi non era consustanzialmente legato alla relazione coloniale; derivava da altre cause […], mentre il colonizzatore IN QUANTO TALE è quasi sempre razzista. […] Confermo […] che non esiste non esiste quasi relazione coloniale  da cui il razzismo sia completamente assente e a cui esso non sia intimamente legato.  Mi pare ancora legittimo concludere IL RAZZISMO ILLUSTRA, RIASSUME E SIMBOLEGGIA LA RELAZIONE COLONIALE […] Il razzismo consiste in una MESSA IN RISALTO DI DIFFERENZE; in una VALORIZZAZIONE di queste differenze; in un uso di tale valorizzazione A VANTAGGIO DELL’ACCUSATORE. Tuttavia […] nessuno di questi punti, preso da solo, è sufficiente a costituire il razzismo. […]

Insistere su una differenza, biologica o di altro tipo, non è razzismo, anche se questa è dubbia. Evidenziare una differenza, qualora essa non esista, non è un delitto; è un errore o una sciocchezza. Mettere in luce una differenza, qualora essa esista, è ancora meno reprensibile. Si ha persino il diritto di pensare che sia legittimo; dopo tutto, la curiosità è l’anticamera del sapere. L’esame delle differenze tra gli uomini è proprio l’oggetto della scienza antropologica. Questa disciplina si divide in antropologia biologica e antropologia sociale; vi si ritrova netta la distinzione tra differenze biologiche e culturali. La psicologia e la sociologia progrediscono sia con lo studio delle somiglianze che con quello delle differenze. Occorre per questo sospettare di razzismo tutti i ricercatori di scienze umane? Insomma, LA CONSTATAZIONE DI UNA DIFFERENZA NON È RAZZISMO, È SOLO UNA CONSTATAZIONE. Ma essa può essere utilizzata per un’aggressione razzista. Il tratto differenziale non può giustificare da solo un’accusa; assume un significato spudorato solo se ricollocato, al contrario, in un’argomentazione razzista.

VALORIZZARE UNA DIFFERENZA A NOSTRO VANTAGGIO NON È ANCORA LA PROVA SUFFICIENTE DI UNA MENTALITÀ RAZZISTA. Riconosciamo del resto che è una tendenza molto comune, seppure spesso ingiustificata e ridicolmente vana.  Il nostro stupore deriva dal fatto che consideriamo queste differenze al di fuori del loro contesto, il che aumenta il nostro stupore e il nostro disagio e ci porta a preferire i tratti e le abitudini a noi propri.[…]

NON SI DIVENTA ESATTAMENTE RAZZISTI, INFINE, SE NON PER IL TERZO PUNTO: L’UTILIZZAZIZONE DELLA DIFFERENZA CONTRO GLI ALTRI, al fine di trarre profitto da questa stigmatizzazione. Affermare, a torto o a ragione, che quel popolo colonizzato è tecnologicamente inferiore ad un altro non è ancora razzismo. Questo si discute e deve essere dimostrato o invalidato. Ma i colonizzatori non si sono accontentati di questa constatazione o di questo errore; essi ne hanno concluso che potevano, e dovevano, dominare il colonizzato, e così hanno fatto. Hanno spiegato, legittimato la loro presenza nella colonia con le carenze del colonizzato. Ancora un po’ e bisognava ringraziarli di essersi disturbati e votati alla salvezza dei fratelli inferiori. Se non ci fosse stato questo uso interessato, la colonizzazione sarebbe stata, forse, un’impresa filantropica: invece essa fui principalmente un sistema di rapina.»

 

È significativo il fatto che l’Autore non si accorga nemmeno di adoperare lo stesso concetto, quello dell’accusa, in due maniera diametralmente opposte: lo considera azione illegittima quando l’accusatore è il “razzista” (questi due termini li adopera come sinonimi, nella prima parte del suo ragionamento, tanto che la parola “accusatore” salta fuori di punto in bianco, senza alcun preambolo o giustificazione), mentre diviene non solo legittima, ma doverosa, allorché si tratta di avanzare un’accusa nei confronti del razzista. E, in questo secondo caso, ha anche la magnanimità di dire - come farebbe il membro zelante, ma umano, di un tribunale rivoluzionario - che il fatto di parlare delle differenze umane non basta, da solo, a sostenere un’accusa di razzismo nei confronti di qualcuno. Come dire: non basta parlare del re per essere accusati di sentimenti o magari di complotti antigiacobini: bisogna vedere come se ne parla, se per benedirlo o per maledirlo.

Quindi, da bravo inquisitore, procede a spiegare come si debba articolare correttamente una accusa di razzismo nei confronti di qualcuno: solo se sussistono tutte e tre le condizioni che egli ha formulato. Ma è un inquisitore molto comprensivo e rassicurante: dice che, se di mestiere facciamo gli antropologi, non dobbiamo sentirci in colpa ad occuparci delle differenze tra i popoli, sia biologiche che culturali, perché ciò rientra nel nostro ambito di ricerca; press’a poco come un prete d’altri tempi spiegava agli studenti di storia dell’arte che non devono sentirsi in imbarazzo a occuparsi di nudi, perché l’arte sublima ogni cosa e non c’è malizia nello sguardo del vero artista, così come in quella dell’autentico studioso.

Del resto, questa riserva mentale, questa ambiguità di fondo, traspaiono chiaramente da un esempio che l’Autore stesso presenta per spiegare meglio quel che intende per razzismo (op. cit., p. 93):

 

«…nel metrò, un gruppo di giovani nord-africani fa irruzione nel vagone . Si muovono di continuano, sogghignano, cercano gli sguardi sino al limite della provocazione. Il mio compagno di viaggio, un universitario benevolo e anti-razzista, mormora tuttavia con fastidio: “Non dovrebbero, PROPRIO LORO…”. Gli suggerisco di spiegarsi meglio. Mi dice che voleva, in qualche modo, proteggere i giovani da un’opinione già mal disposta. Come nord-africani sono già sospetti. Ma riconosce, suo malgrado,  partecipa un po’ al sentimento generale: sono dei nord-africani in Francia, LORO non dovrebbero… Tutta la faccenda si regge sulla loro qualità di stranieri.  Ora, è chiaro che non si tratta di un comportamento specificamente nord-africano, o non solo, ma tipico di giovani, pervasi  da un eccesso di forza vitale, maldestri nel corpo,  che non hanno ancora trovato il loro posto nella società, e che cercano di dissipare il loro disagio nel piacere malsano di far paura agli altri, adulti, ricchi, doversi; pronti alla violenza, in effetti, se qualche incidente ne desse loro l’occasione… Non abbiamo forse qui il comportamento di un teppista qualsiasi?»

 

Dunque, nemmeno un amico degli immigrati ha il diritto di deplorare che quei ragazzi stranieri si comportino in maniera aggressiva e incivile; o meglio, non dovrebbe rimarcare che loro, come stranieri, sono tenuti a rispettare il Paese che li ospita… Ma perché? Ovvio: per non essere razzista. E allora silenzio, facciamo finta che vada tutto bene, cioè che quei ragazzi nord-africani non siano nord-africani, facciamo finta che siano francesi (o tedeschi, o italiani) e tutto torna a posto: si tratta solo di un “normale” caso di teppismo adolescenziale…

Ebbene, noi non siano d’accordo. Noi pensiamo che un individuo, quando va a vivere in un Paese che non è il suo, ha degli speciali obblighi e un particolare debito di riconoscenza; che sia tenuto a comportarsi bene due volte, una volta perché tutti lo devono fare, e una volta perché lui, straniero, è stato accolto, ospitato, sfamato, alloggiato. Tutto questo non significa niente? I nostri nonni ci sono passati: erano emigranti e dovevano attenersi scrupolosamente alle leggi e alle consuetudini del Paese ospitante. In Svizzera, per esempio - senza andare tanto lontano, come potremmo, fino in Brasile o in Australia – risultavano, per così dire, cittadini “in prova”: se sgarravano, se si comportavano in maniera inadeguata, se mostravano poca voglia di lavorare o se disturbavano la pace altrui, rischiavano il rimpatrio immediato – e non sarebbero più stato graditi una seconda volta. Ma questo, in effetti, succedeva assai raramente: perché essi erano pieni di dignità, poveri ma dignitosi; non emigravano per “farla vedere” a nessuno, ma per necessità: erano laboriosi, frugali, rispettosi della legge, consapevoli di aver ricevuto una opportunità. Non se ne andavano a spasso nelle ore lavorative, con aria di sfida, in attesa di spacciare droga o per organizzare il racket della prostituzione. Se questo accadeva, come nel caso di certi delinquenti siciliani che trasferivano le loro abitudini mafiose negli Stati Uniti, ciò ritornava a disdoro dell’intera comunità; e, di fatto, ha contribuito a incrinare il buon nome degli Italiani nel mondo, anche se le male marce erano poche, in confronto alla massa enorme degli emigranti.

Del resto, Albert Memmi formula la tesi che il razzismo non sia una forma di pensiero, ma una proiezione mitica di un malessere sociale dovuto alla paura del diverso; e spinge il suo “politicamente corretto” fino ad accostarlo all’antisemitismo, al pregiudizio sessista contro le donne e ad ogni altra forma di discriminazione nei confronti del “diverso” (handicappato, omosessuale, eccetera). Questo è in contraddizione con la sua tesi fondamentale, che il razzismo sia una manifestazione cultuale del colonialismo; tesi peraltro più che discutibile, che lo porta a negare, in linea di principio, che Ebrei o Arabi siano suscettibili di “vero” razzismo, perché il colonialismo, loro, l’hanno subito e non imposto ad altri popoli… E anche quest’ultima affermazione è alquanto dubbia, se si considera le guerre condotte da Israele e l’occupazione dei territori arabi palestinesi, e il modo in cui tuttora vengono trattate quelle popolazioni.

C’è poi un’altra cosa degna di nota: Albert Memmi pensa, scrive e ragiona come un perfetto francese che ha studiato i classici; cita continuamente i grandi autori della letteratura francese; mostra di aver assimilato, lui tunisino, una cultura prettamente europea, in cui c’è poco o niente di arabo e meno ancora di africano… però non lo dice, non lo ammette. Rivolge i suoi strali contro il razzismo dei Francesi, presso i quali si è stabilito ed ai quali insegna, da una università parigina, quanto essi siano inclini al  razzismo (il che, intendiamoci, non è affatto un argomento campato per aria) e denuncia il colonialismo dei Francesi, che hanno mascherato la loro sete di dominio dietro il paravento della superiorità e della “missione civilizzatrice”… però non ha l’onestà intellettuale di riconoscere quel debito, di ammettere che sì, dopo tutto lui è un tunisino che pensa, parla e scrive in francese; e che, senza la Francia, non sarebbe arrivato né a chiarire le proprie idee, né, tanto meno, ad occupare una cattedra da cui propagarle.

Oppure pensa che un Francese, un Tedesco, un Italiano, potrebbero andare in una università africana o asiatica e accusare di razzismo il popolo che li ospita, o fare il processo alla loro storia recente, insistendo sulla loro discutibile condotta nei confronti di altri popoli o di altre minoranze? Pensa che un Europeo, in Arabia Saudita, potrebbe parlare della tratta degli schiavi neri da parte degli Arabi sulla costa orientale africana, continuata fino al XX secolo, e ciò da una cattedra universitaria o dalle pagine di un libro o di una rivista, così come sarebbe lasciato libero di parlare della tratta organizzata dai bianchi sulla costa occidentale? Oppure pensa che un Europeo potrebbe parlare, nella Repubblica Sudafricana, di come i Bantu massacrarono e sterminarono Boscimani e Ottentotti e come si macchiarono di non poche atrocità verso i Boeri, i quali non erano dei conquistatori venuti da fuori, ma dei migranti che giunsero in quelle terre prima, e non dopo, i Bantu che scendevano dal Nord, dalla regione dei Grandi Laghi?

C’è un sottinteso falso, nella concezione di Albert Memmi, anche se egli, a parole, ripudia il mito del “buon selvaggio” di Rousseau: che i popoli colonizzati abbiano subito solo crimini e sfruttamento da parte dei colonizzatori, e che, prima dell’arrivo di questi ultimi, le loro società fossero pacifiche, tolleranti, conviviali. Che i re del Buganda provassero le armi da fuoco sparando a bruciapelo sui loro sudditi, o che i Thugs dell’India assassinassero decine di migliaia di pellegrini e di mercanti per truce fanatismo religioso, questo non ha importanza: i colonizzatori sono sempre e solo i cattivi, e i colonizzati sono sempre e solo i buoni, le vittime innocenti.

Ma ammettiamo che sia così: dopotutto, i popoli africani ed asiatici erano a casa loro, e gli Europei erano gli invasori. Per quanti vantaggi questi ultimi possano aver portato, erano pur sempre gli invasori, e ciò basterebbe a rendere la loro presenza moralmente discutibile; non parliamo, poi, se si abbandonavano anche a comportamenti brutali, come i Belgi nel Congo, i quali tagliavano le mani ai lavoratori africani considerati pigri; o se impostavano tutto il sistema economico su un sistematico sfruttamento delle risorse locali e sull’imposizione dei loro manufatti al mercato indigeno, come i Britannici in India. Ma il punto è un altro.

Il punto è questo: il fatto che il colonialismo sia stato un fenomeno storico nel quale gli Europei hanno acquisito una serie di vantaggi illegittimi e immorali su altri popoli, tecnicamente meno evoluti e incapaci di resistere (almeno fino a un certo punto: si pensi ad Adua o a Tsushima), ci autorizza a qualificare i colonizzatori come intrinsecamente razzisti e il razzismo, sic et simpliciter, come una manifestazione della mentalità coloniale? E ad escludere che altre forme di razzismo, non legate alle dinamiche coloniali, siano perfettamente possibili, anzi, che siano state più volte messe in atto nel corso della storia, e che lo siano tuttora?

Per fare un esempio concreto: erano razzisti i contadini veneti o calabresi che emigrarono in Libia durante il fascismo; che coltivarono il deserto e lo trasformarono in un giardino; per poi venir cacciati come delinquenti da Gheddafi, nel 1970, senza poter portare via con sé nemmeno le briciole del loro lavoro e dei loro sacrifici? Viceversa, non sono razzisti i terroristi di Boko Haram che assaltano le chiese cristiane della Nigeria e ammazzano tutti i fedeli che vi sono raccolti, magari bruciandoli vivi, per la sola colpa di essere cristiani? Il razzismo si sviluppa solo su base etnica e non anche su base religiosa? Una religione esclusivista, che disprezza tutti gli “infedeli” e considera lecito agire verso di essi in base a una morale diversa da quella praticata tra i “credenti”, non è anche, perciò stesso, una religione razzista, e nel peggior senso del termine?

Intendiamoci: il razzismo esiste, eccome. Il razzismo ha prodotto molto male nella storia e continua a produrne: molta incomprensione, molta sofferenza, molta ingiustizia. Ed è anche vero che, spesso – ma non sempre – i colonizzatori se ne sono serviti come di un paravento ideologico per giustificare le loro spoliazioni e anche - in questo ha ragione Memmi – come di uno strumento per esorcizzare il loro senso di colpa, l’intima consapevolezza di essere dalla parte dell’ingiustizia. Perciò, non stiamo affatto sostenendo che il razzismo non esiste, bensì che si tratta di un fenomeno molto, ma molto più complesso di come la cultura del politicamente corretto vorrebbe presentarlo e ha sempre cercato di presentarlo, sino ad imporre i suoi dogmi con la forza del ricatto morale: se non li condividi, sei fuori della civiltà, sei nella barbarie – sei un razzista!

Specialmente oggi, quando l’Europa è sommersa da un flusso migratorio inarrestabile, che ci viene presentato come una specie di fatalità storica, mentre è probabile che sia pianificato e pilotato dall’alto per dei fini inconfessabili, si sta delineando un razzismo alla rovescia, per cui gli Europei devono accettare e subire in silenzio qualunque cosa, qualunque decisione passi sulle loro teste e qualunque convivenza con immigrati che, in certi quartieri e in certi paesi, tendono a farli sentire come degli estranei, come la minoranza dei “diversi”; mentre gli stranieri, forti del numero e dell’inefficienza delle pubbliche autorità, tendono, in casi non rari, a discriminare proprio i cittadini del Paese ospitante, di cui non accettano usi e tradizioni, che anzi criticano e disprezzano apertamente, ma in cui vorrebbero imporre i loro, che una parte di essi giudica i soli meritevoli di rispetto.

E questo, non è razzismo? Strano che i nostri intellettuali non se ne siano ancora accorti: la loro mentalità è così sorpassata, così ottocentesca, così intellettualmente pigra, che pensano ancora di dover combattere la buona battaglia per i diritti dei più deboli; e non si accorgono che i più deboli, spesso, sono i nostri cittadini, i nostri pensionati, i nostri abitanti dei quartieri poveri, costretti a chiudersi in casa alle nove di sera e a non mettere la testa fuori della porta, per paura di quel che potrebbe capitare nelle loro strade, nelle loro piazze, nei loro rioni, dominati ormai da una piccola (e non solo piccola) criminalità, che trova nell’immigrazione massiccia, invasiva, e spesso clandestina, il terreno ideale per prosperare e per diffondersi; anche se, ovviamente non tutti gli immigrati meritano di essere considerati come responsabili di tale situazione e se uno Stato più serio, più autorevole, più capace d’imporre il rispetto delle regole, riuscirebbe a fare di loro dei lavoratori-ospiti - come si dice in Germania -, se non proprio perfettamente integrati, almeno rispettosi delle leggi e delle consuetudini locali, e capaci di convivere civilmente con tutti gli altri gruppi di immigrati e con i cittadini residenti da sempre.

In conclusione: esiste il razzismo, ma esiste anche il razzismo alla rovescia. Il pericolo è che le nostre popolazioni, da sempre accoglienti, ospitali, generose verso gli stranieri – e si pensi a quante migliaia e migliaia di vite sono state salvate dalle onde del mare, grazie alla solidarietà e all’altruismo dei nostri pescatori, dei nostri concittadini che abitano lungo le coste o nelle isole, degli equipaggi delle navi militari che hanno soccorso innumerevoli carrette del mare, senza chiedere il passaporto e i documenti a gente che era in pericolo di vita – possano diventare vittime di un razzismo alla rovescia da parte dei nuovi venuti; e, inoltre, che possano diventare esse stesse razziste, non per altra ragione che per un legittimo istinto di difesa, laddove amministratori e politici brillano per la loro assenza, per la loro insipienza, per la loro cialtroneria, davanti ad un problema così grave, che meriterebbe di essere affrontato con ben altro piglio, con ben altri presupposti e con ben altra competenza, non diciamo per essere risolto, ma almeno per essere gestito con un minimo di ordine e di responsabilità.