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L’uomo, pensando il reale, cerca la verità e riconnette all’essere la sua esistenza

di Francesco Lamendola - 18/09/2013


 

Realtà e verità sono due concetti che, spesso, tendiamo a confondere, e sempre a causa dello stesso errore antropocentrico.

La realtà è l’insieme delle cose che esistono, fuori di noi e dentro di noi; la verità è il giudizio che noi esprimiamo su di esse, allorché lo esprimiamo correttamente, ossia commisurato al loro essere; mentre l’errore è il giudizio che esprimiamo in maniera arbitraria e incoerente.

La realtà esiste in se stessa, la verità esiste per noi: questa sembrerebbe la distinzione fondamentale. Però, a ben guardare, le cose si presentano meno semplici di come potevano apparire ad uno sguardo superficiale.

Tanto per cominciare, noi non possiamo dire niente sulle cose in se stesse, se non per convenzione o per deduzione: per convenzione, cioè adottando il punto di vista del “buon senso”, che è essenzialmente “realistico”; per deduzione, cioè provando a dedurre la loro essenza a partire dalla loro apparenza.

Entrambi, però, sono criteri più che opinabili. Il punto di vista realistico è ingenuo e inadeguato: in base ad esso, tanto per fare un esempio, la terra è piatta (almeno finché non osserviamo una nave avvicinarsi alla costa, mostrando prima le parti superiori e solo da ultimo lo scafo) ed è immobile (perché vediamo il sole e le stelle ruotare nel cielo, ma non percepiamo alcun movimento del nostro pianeta): eppure sappiamo, in base alle dimostrazioni scientifiche, che le cose stanno ben altrimenti di come sembrano. Il procedimento deduttivo è, a sua volta, puramente ipotetico: se, aprendo una mela, dieci mele, cento mele, sempre troviamo i semi al centro della polpa, ci spingiamo ad affermare che sarà così in ogni caso, anche senza farne, ogni volta, la verifica: ma non esiste una legge assoluta che stabilisca la giustezza di questo criterio. Per le ragioni più varie, di fatto la centounesima mela potrebbe anche non contenere i semi e la nostra deduzione potrebbe, così, rivelarsi erronea.

Dunque, quello che sono le cose in se stesse, noi, in realtà, non lo sappiamo; sappiamo soltanto ciò che esse sono per noi, ossia cio che a noi appaiono: il che è ben diverso. Per il daltonico, il rosso non è rosso e il verde non è verde; per il sordo, non vi è differenza tra un concerto di Mozart e un martello pneumatico in azione; per il folle, una stessa e medesima cosa può essere due, o tre, o quattro cose diverse, o nessuna.

Quest’ultimo esempio ci avvicina al nucleo del nostro ragionamento, che verte appunto sul nesso fra realtà e verità. Per il folle, abbiamo detto, una cosa può essere vera e falsa contemporaneamente: perché la verità di una cosa è il giudizio che noi diamo su di essa; e affermiamo che è vera, quando corrisponde all’idea che ce ne siamo fatta, che è falsa, quando non corrisponde. Per esempio, diciamo che è vera l’informazione che, per andare in Via Bianchi, bisogna svoltare a sinistra quando si è giunti in Piazza Rossi; falsa, quella che bisogna svoltare a destra. Tuttavia, di solito le cose non sono così semplici: perché, mentre io posso aver già verificato dove si trova Via Bianchi e, quindi, decidere se sia giusta o errata l’informazione di chi mi indirizza verso di essa, molto spesso io non possiedo in partenza l’informazione che mi serve, e sono quindi costretto a procedere a tentoni.

Nel campo dei giudizi morali, poi, le cose sono ancora più delicate. Se la conoscenza delle cose, o gnoseologia, è difficile e dubbia, la conoscenza e il giudizio riguardo ai valori, o etica, è questione ancor più intricata e spinosa: perché qui il giudizio non è solo sul vero o sul falso, ma anche, e direttamente, sul bene o sul male – così come, nell’estetica, il giudizio verte sul bello e sul brutto: altra questione disperatamente controversa.

D’altra parte, se ci siamo permessi di ipotizzare che le cose esistano in se stesse (cosa che nulla, né i nostri sensi, né la nostra ragione, ci autorizza, a rigor di termini, ad affermare), possiamo anche spingere la nostra audacia fino a ipotizzare che anche la verità esista in se stessa e non solo relativamente a noi. Perché è vero che la verità corrisponde a un giudizio; ma abbiamo anche visto che, se tale giudizio è conforme alla realtà delle cose, allora lo si può dire “vero” senz’altro; e, se una cosa è vera in assoluto, allora è vera in se stessa e non solo relativamente a colui che le si pone davanti e cerca di comprenderla.

In altri termini: una cosa è vera se corrisponde al giudizio che noi ne avevamo dato; ma se tale giudizio si accorda con la cosa, allora vi sono forti probabilità che la cosa stessa sia vera a priori, indipendentemente dal nostro giudizio: che sia vera in se stessa. Noi, per esempio, possiamo affermare come “vero” che la Terra sia un pianeta dalla forma sferica; ma, una volta verificato che tutti i pianeti hanno una forma sferica, allora questa verità di fatto diventa una verità di principio, come lo sono le proposizioni della matematica: e tali verità non dipendono da chi le formula, non sono un mero giudizio soggettivo di colui che le formula, ma sono tali in se stesse, sia che vengano riconosciute come tali, sia che ciò non accada.

Anche questo, però, è un problema molto arduo da definire. Una cosa è vera anche se nessuno la formula, anche se nessuno la pone? Due più due farebbero sempre quattro, e tale proposizione sarebbe sempre vera, anche se non esistesse alcuna mente capace di porre la domanda? Il fatto è che non lo sappiamo: per noi, pensare la realtà significa pensare qualcuno che la pensi; e, a maggior ragione, pensare la verità, significa pensare qualcuno che la cerchi.

La verità esisterebbe anche se nessuno la cercasse? Se nessuno si domandasse se una data proposizione è vera, la verità esisterebbe comunque? Per quel che ne sappiamo e per quel che possiamo ipotizzare, la risposta dovrebbe essere no: se la verità è la corrispondenza di un giudizio a un fatto, allora, venendo meno un soggetto che esprima il giudizio, dovrebbe venir meno anche il concetto stesso di verità. Vale a dire che le cose, in se stesse, non dovrebbero essere né vere né false, ma semplicemente esistere o non esistere.

Abbiamo usato il condizionale, perché si tratta di questioni che tendono a eccedere, e di molto, le nostre possibilità concettuali. La verità, infatti, è il giudizio che noi diamo riguardo alla realtà; ma se la realtà è, a sua volta, una mera ipotesi (perché noi, come abbiamo visto, non conosciamo le cose in se stesse, ma procediamo per convenzione e per deduzione), allora dovremmo essere estremamente cauti nel formulare giudizi circa la verità in se stessa, ma anche circa la sua impossibilità logica.

A noi, infatti, sembra logico che, se non vi è nessuno a formulare un giudizio, non si può parlare di verità o di errore; ma potrebbe anche darsi che la verità, in una forma a noi inaccessibile, esista anche indipendentemente dalla nostra percezione, dai nostri ragionamenti e dai nostri sforzi per spingerci fino ad essa. Se poi, dall’ambito delle cose, ci spingiamo fino alla sfera dell’essere; se, cioè, ci spingiamo dall’ambito dell’esistenza a quello della essenza, allora la possibilità che la verità esista in se stessa, che sia una categoria assoluta, aumenta, perché la verità è il contrario dell’errore, e l’errore è la discordanza fra le cose e il giudizio.

Ora, il giudizio può essere di due tipi: degli enti e dell’essere. Il giudizio degli enti è soggettivo e fallace; il giudizio dell’essere non può che essere vero in se stesso, perché, nell’essere, essenza ed esistenza coincidono (non avrebbe senso un essere che non esistesse, né una esistenza che non partecipasse dell’essere). E dunque, se il giudizio degli enti, come lo sono gli uomini, può essere vero o falso, il giudizio dell’essere è sempre e comunque vero: il che equivale a dire che la verità esiste in se stessa, dopotutto, e non solo relativamente a noi, che la pensiamo e la cerchiamo.

Dobbiamo perciò distinguere due livelli di realtà (diciamo due, per semplificare il nostro ragionamento; ma, per quel che ne sappiamo, potrebbero essere innumerevoli e, forse, addirittura infiniti); a ciascuno di essi corrisponde un determinato livello di giudizio e, dunque, un determinato livello di verità.

Noi diciamo vero l’essere che è conforme a se stesso, veri gli enti che si conformano all’essere, vero il giudizio che coglie la corrispondenza fra gli enti e l’essere; falso, il giudizio che ignora o distorce tale corrispondenza.

Dunque, non si dà retta gnoseologia, se non si dà retta impostazione del problema ontologico: l’uomo, allorché formula giudizi, non può prescindere dal proprio legame strutturale, originario con l’essere, di cui è parte e verso cui si protende.

Pure, molte filosofie, specialmente moderne, pretendono di stabilire i criteri del “vero” e del “falso” a partire da una antropologia errata, che, a sua volta, è il risultato di una ontologia parziale e mutilata: ne deriva, fatalmente, una gnoseologia viziata in origine, che porta l’uomo a “trovare” solo quel che ha già deciso di trovare, e che lo fa ignorare quel che ha deciso di ignorare.

Sono meritevoli di riflessione, a questo proposito, le conclusioni svolte da Vincenzo De Ruvo a proposito del rapporto in cui si pone l’uomo rispetto al reale, nella sua ricerca della verità (da: V. De Ruvo, «L’essere e l’esistenza» (Bologna, Leonardi Editore, 1974, pp. 321-22):

 

«La realtà, che è oggetto della metafisica, non l’uomo la crea, ma è l’uomo, che la pensa. Se l’uomo non la pensasse, essa non esisterebbe come verità. Sicché, a base della verità della metafisica è l’uomo. Da ciò consegue che tale verità è in rapporto con l’uomo, anche se è vero che il fondamento oggettivo, onde l’uomo stesso attinge, con la sua ricerca critica, la nozione, costituisce una perenne remora alla stessa libertà dell’indagine. L’uomo è l’autore della verità, come è anche autore dell’errore. La preoccupazione della verità impegna tutto l’uomo con le sue forze volitive, intellettive e morali, le quali, impegnate a conoscere il vero, funzionano come ATTIVITÀ conoscitive.

Nasce, così, il bisogno di sapere esplicitamente in che modo e fin dove questo uomo possa dirsi autore della verità; qual parte e qual valore abbia l’oggettività nella costituzione del vero; in che il vero si differenzi dal falso; e in che consistano quelle ATTIVITÀ conoscitive, onde scaturiscono tutte le verità e quelle metafisiche in particolare, giacché queste costituiscono il fondamento di ogni verità e di ogni sapere.

Ma errore grave sarebbe, se, invece di considerare l’uomo nella pienezza del suo esistere, ci si affannasse a cercare e ipostatizzare in lui le facoltà propriamente conoscitive, giacché in tal modo si verrebbe a creare una scissione nel suo interiore, che non solo non è realisticamente possibile, ma è dannosa anche ai fini della stessa verità. L’uomo è essenzialmente esistenza. Come tale, è esso stesso oggetto d’indagine metafisica, la quale, procedendo dai Principi, e rivelandone la costituzione dinamica ed esistenziale, non può per esso procedere con altro criterio e con altro sistema senza condannarsi a uccidere l’uomo, per giungere, dopo averlo fatto a pezzi, alla pretesa di intenderne la costituzione unitaria e la vita. Senza dire che, volendo intendere di ciascuna parte la funzione, è procedimento sbagliato quello di esaminare non già la parte come tale nell’ambito di un tutto vivente, ma la parte per sé, come del resto è accaduto e tuttora accade ad opera di quei filosofi, che fanno nascere la filosofia, ossia il sistema delle verità relative alla costituzione essenziale dell’Esistenza, dal problema del conoscere, ossia dal’esame di una delle tante attitudini costitutive dell’uomo.»

In questa pagina filosofica, si vede come il problema della conoscenza, così come quello della verità, sia condizionato da una antropologia limitata a priori da una idea parziale di ciò che l’uomo è o deve essere. Se si definisce l’uomo «essenzialmente come esistenza» e come un «divenire reale», uno fra i tanti, come fa l’Autore, senza specificare che tale divenire si origina dall’essere e all’essere tende a fare ritorno, si perde di vista, ci sembra, il significato essenziale del rapporto fra l’esistenza e l’essere, cioè, nel caso specifico, fra l’uomo e l’assoluto.

Non c’è esistenza che venga da se stessa; laddove esiste qualcosa, esiste anche l’essere: l’esistenza senza l’essere è peggio che una astrazione, è una impossibilità pratica. L’esistenza è limitata nel tempo, l’essere no; per l’esistenza vi sono un prima e un dopo, un  inizio e una fine; per l’essere, no. L’essere è l’assoluto, e l’assoluto è vero in se stesso; così come vera è l’esistenza che lo riconosce...