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Il disastro americano: un frutto della modernità universale

di Francesco Marotta - 02/10/2013

Fonte: destra

I rigori dell’autunno percuotono coperte che fino allo scorso parevano resistenti. Solide ma sempre più corte, come in un gioco di specchi ricorrente sin dal lontano 1995, al governo federale degli Stati Uniti d’America, oggi, mancano inaspettatamente persino i tessuti americani per il cucito creativo. Al governo federale è stata addirittura negata la legge di copertura minima per la spesa pubblica. Neppure i cosmonauti interstellari della Nasa, potranno festeggiare il loro 55esimo anniversario della fondazione dell’agenzia spaziale. Intenti come sono a concentrarsi su di un filo per rammendo che equivale alla sussistenza, cioè alla sopravvivenza, il 97% dei lavoratori resterà senza stipendio. E’ finita la saga fortunata dell’autore di fumetti italo americano Don Rosa: la Saga di Paperon dè Paperoni, alla fine, vuoi per bizzarria, vuoi per la stessa corrispondenza e legame di parentela che intercorre fra i disegni (ma guarda un po’) nella stessa camera di specchi e riproposti diversamente ritoccati, ha perso il significato incerto dell’origine del “Sogno Americano”.

 

Fine dello spettacolo, la Statua della libertà, il monumento simbolo dell’Aquila di Mare, cala il sipario. Resterà chiusa per mancanza di fondi come il Parco nazionale di Yellowstone, come il Museo Smithsonian e il National Zoo di Washington, compresi tutti i memoriali delle personalità e dei simboli di una nazione, troppe volte vista come il rimedio universale dei mali d’Occidente. Eppure le avvisaglie di un disastro, annunciato da tempo, sia per la stampa nazionale quanto per la stampa internazionale, non valevano un buco da oltre 19 miliardi di dollari della capitale dei motori Detroit. Una malizia e una data, il 19 luglio 2013, da riportare sul taccuino delle notizie meno importanti senza mai approfondirla fino in fondo, con il conta gocce.

 

Un disincanto tutto occidentale e la paralisi della chiusura di tutti i servizi pubblici a fronte di una giorno fatidico, il 17 ottobre, a rischio default. L’aspetto rovesciato e poco realistico del consueto discorso del sabato; lo scorso 7 settembre il Presidente Obama, ponendo il suo fievole ma deciso “accento di Chicago” sulla questione siriana, precisò: “E’ in gioco la sicurezza nazionale”. E’ anche in gioco il costo di una mobilitazione militare che richiederebbe una spesa per le casse federali statunitensi, nel corso dei pesanti tagli alla spesa pubblica poco digeriti dalla stragrande maggioranza degli americani, pari a 500 milioni di dollari l’anno. Poca importa se tale cifra debba essere destinata a salire per l’impiego in caso di attacco dei missili a lungo raggio da dirigere verso gli obbiettivi sensibili di Damasco?

L’ascendente da mantenere e il braccio di ferro con i paesi del BRICS, ( Russia, Cina, Brasile, India, Sudafrica) non può essere compresso. Costi quel che costi: decine e decine di aerei e navi dell’ipotetico dislocamento, consumati come neve al sole e quella pazza voglia di essere agli occhi delle potenze emergenti, l’ago della bilancia. Al momento, la storia della libertà che illumina il mondo è una toga della giustizia, svanita con stupore perfino ai suoi cittadini.

 

Alla luce degli ultimi eventi non sappiamo se la guerra in Siria possa rappresentare l’ancora di salvezza dei mali d’oltre Atlantico. Di certo, però, secondo la famosa tendenza dell’ultimo secolo, fatta “calvinista”, del guardare prima la pagliuzza nell’occhio del vicino nascondendo l’asse portante della «modernità liquida»: dell’individualismo variabile nell’odierno sistema globale, dove, non solo gli oggetti e le merci sono in movimento ma bensì, anche la percezione della realtà e della verità. Come in questo caso e come osserviamo anche in Italia, riducibile ad un dualismo di comodo tra “democratici e repubblicani” a discapito dell’oggettività dei fatti. Dal frutto si riesce sempre a conosce l’albero ?