Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Fino a che punto la verità può essere oggetto d’insegnamento?

Fino a che punto la verità può essere oggetto d’insegnamento?

di Francesco Lamendola - 20/11/2013

 

 

 

Si può insegnare la verità?

Anche se la società contemporanea, tutta presa nella spirale incessante e compulsiva del fare, dell’agire, del manipolare le cose, sembra aver smesso di porsi questa domanda, essa, nondimeno, resta la prima domanda filosofica che abbia senso porsi, avanti di qualunque altra: dalla risposta che ad essa diamo, o che non siamo capaci di dare, dipende tutto il resto.

Naturalmente, a monte di essa ce ne sarebbe un’altra, che a torto si dà per scontata, e che suona così: è accessibile agli uomini, la verità? Perché è chiaro che, per poterla insegnare, bisogna prima possederla: si tratta dunque di vedere se la verità sia cosa che gli uomini possano raggiungere, o alla quale possano, perlomeno, avvicinarsi; oppure se sia cosa che resta loro irrevocabilmente interdetta, come lo sono le porte del Paradiso terrestre dopo il peccato.

In verità, la mentalità contemporanea ha smesso di porsi tale quesito preliminare non tanto per distrazione, quanto perché ritiene che ad esso sia stato già sufficientemente risposto, e in modo incontrovertibilmente negativo. No, la verità non può essere appresa: verità è una parola troppo grossa, troppo impegnativa, troppo ambiziosa: solo i fanatici del passato, solo i crociati e gli inquisitori la maneggiavano impunemente, gonfi di rozza superbia; ma i filosofi e i teologi moderni, smaliziati quanto basta dai “maestri del sospetto”, dalla psicanalisi, dal marxismo, da una patina mal digerita di nietzschianesimo, non ardiscono più esporsi ad un simile grado di presunzione e di ridicolo. Sono ormai quasi tutti, esplicitamente o implicitamente, seguaci del “pensiero debole”: debole come la loro visione del mondo, come la loro etica e la loro estetica.

Non fa meraviglia, pertanto, che così pochi osino ancora porsi la domanda se la verità sia suscettibile di trasmissione mediante l’insegnamento: se la verità, in quanto tale, non è cosa alla portata dell’uomo, allora è chiaro che non ha senso pensare ad alcun progetto educativo: e, infatti, è da un pezzo che la nostra società, pur così colta e informata, così scolarizzata e computerizzata, ha rinunciato a elaborare anche l’ombra di un progetto educativo. Si insegnano le discipline scolastiche, si potenziano quelle tecniche e informatiche, si moltiplicano i viaggi d’istruzione all’estero, gli scambi culturali e le vacanze-studio per imparare le lingue: e questo è tutto. Siamo contenti quando un bambino di sei anni sa scrivere una lettera in inglese, quando conosce il nome delle ere geologiche e comprende l’applicazione del teorema di Pitagora; non ci passa nemmeno per la mente che questo, forse, non sia tutto, che rimanga fuori qualche cosa d’importante, per non dire l’essenziale. Neo-illuministi attardati ma estremamente compiaciuti di noi stessi, ci lusinghiamo di poter offrire ai nostri giovani un’istruzione assai migliore di quella che ricevettero i loro nonni, i nostri genitori: non viviamo forse nell’epoca più illuminata che mai si sia vista nell’intero corso della storia umana?

Fortunati, dunque, i cittadini della megalopoli moderna, più vicini alla verità di quanto mai lo siano state le generazioni precedenti; anche se la verità, in quanto tale, non è accessibile. Ma a noi basta conoscere ciò che è utile, non ciò che è vero: ci basta poter dare un nome a tutte le cose, porre una etichetta su ogni fenomeno; non importa se, in realtà, non abbiamo spiegato nulla: l’importante è che i nostri schedari non rimangano con delle pagine bianche, con dei cartellini con la scritta imbarazzante: «non identificato». Così, per esempio, non importa se non sappiamo come avvengano le grandi migrazioni degli uccelli: diciamo che li guida l’istinto, e così, con una parolina magica, abbiamo messo a tacere il nostro disagio di fronte all’ignoto. Allo stesso modo, non importa se non sappiamo come avvenga che uomini come Sant’Antonio da Padova fossero visti in due luoghi diversi, contemporaneamente, da numerosi testimoni degni di fede: pronunciamo un’altra parolina magica, “corpo astrale”, e tutto diventa chiaro - o, almeno, tutto prende un aspetto più o meno rassicurante. Se c’è il nome della cosa, allora vuol dire che, da qualche parte, ci sarà anche la spiegazione. Gli scienziati sicuramente la sanno; e, posto che non la sappiano oggi, la troveranno domani. Nelle meraviglie della modernità non c’è più spazio per il mistero; c’è spazio solo per i problemi, e i problemi - si sa – presto o tardi vengono risolti, perché arriva qualche tecnico in grado di comprenderli e scioglierli, così come si scioglie un rebus o un indovinello.

Del resto, se siamo in grado di scindere l’atomo, di inviare missioni scientifiche sui pianeti lontani, di manipolare il codice genetico e di clonare le creature viventi, a che cosa ci servirebbe l’eventuale possesso di una non meglio precisata “verità”? A che cosa servirebbe, quale utilità produrrebbe, il possesso della “verità”? Servirebbe a mandare razzi sulla Luna? No. Servirebbe a manipolare il codice genetico? No. Servirebbe ad aumentare gli utili, a moltiplicare le cose, a creare benessere? No. E allora, via, siamo seri: deve trattarsi certamente, come direbbe il buon vecchio Hume, di fisime e fantasticherie, d’inganni e ciarlatanerie, dei quali possiamo benissimo fare a meno. La società utilitarista non sa che farsene della verità, dunque non le interessa il problema se essa sia trasmissibile.

A qualcuno, però – a qualche inguaribile spirito romantico, a qualche Bastian contrario per partito preso, gente sempre scontenta e sempre pronta a cercare il pelo nell’uovo – la verità potrebbe ancora interessare, dopotutto. E dunque, per riguardo a questi pochi incontentabili, a questi ultimi soldati giapponesi asserragliati nella giungla della metafisica e della Philosphia perennis, proviamo a domandarci, come ai vecchi tempi: è trasmissibile, la verità?

Socrate, il primo grande filosofo dell’Occidente, pensava di sì; e lo pensava perché era convinto che la verità abiti nell’uomo, e che, a determinate condizioni, ciascun essere umano potrebbe riconoscerla e trarla fuori da se stesso.

Così, dunque, scrive Kierkegaard all’inizio di «Briciole di filosofia» (in: Kierkegaard, «Opere», a cura di Cornelio Fabro, Milano, Gruppo Editoriale Fabbri & C., 1993, pp. 204-05):

 

«Fimo a che punto la verità può essere oggetto d’insegnamento? È una questione socratica o ch’è divenuta tale grazie alla questione posta da Socrate: può la virtù essere oggetto d’insegnamento? Perché la virtù a sua volta è determinata come conoscenza (“Protagora”, “Gorgia”, “Menone”, “Eutidemo”). Fin quando la verità è oggetto d’insegnamento professorale, si deve presupporre ch’essa non esiste; quindi quando la si deve imparare, la si deve cercare. Qui s’incontra la difficoltà che Socrate, nel “Menone” (§ 80, conclusione) indica come una “proposizione bellicosa”, cioè ch’è impossibile all’uomo di cercare quel ch’egli sa ed è insieme impossibile di cercare quel ch’egli non sa: perché quel ch’egli sa non lo può cercare perché lo sa, e quel ch’egli non sa non lo può cercare perché per l’appunto non sa quel che deve cercare. Socrate ha esaminato a fondo la difficoltà in quanto per lui ogni insegnare e cercare  è soltanto un ricordare, in modo che l’ignorante non ha bisogno che di ricordare per riflettere con se stesso a ciò che sa. La verità così non è introdotta in lui, ma c’era in lui. Questo pensiero è ulteriormente sviluppato da Socrate, e in esso in fondo si concentra il pathos greco, poiché esso diventa la prova per l’immortalità dell’anima, una prova beninteso regressiva, ovvero una prova per la preesistenza dell’anima.

Al lune di quest’0idea si vede con quale mirabile coerenza Socrate rimase fedele a se stesso realizzando in forma artistica quel ch’egli aveva compreso. Egli era e rimasse un “ostetrico”; non perché “non aveva il positivo”, ma perché intravide che quel rapporto era il più alto che un uomo possa intraprendere con un altro. E in questo egli continuerà ad aver ragione per tutta l’eternità; perché anche se ci fosse un punto di partenza divino, fra uomo e uomo ci sarà il rapporto vero quando si rifletterà all’assoluto e non ci si baloccherà col contingente, ma dal fondo del cuore si rinuncerà a comprendere quella realtà a metà che sembra essere il piacere degli uomini e il segreto del sistema. Socrate invece era un ostetrico patentato da Dio stesso; l’opera ch’egli compiva era una missione divina (cfr. l’”Apologia” di Platone). Anche se per gli uomini egli dava l’impressione di essere un originale (ατοπώτατος, “Theaet.”, § 149); ed era questa l’intenzione divina, ciò che anche Socrate aveva compreso, che Dio gli aveva proibito di generare […]: fra uomo e uomo il μαιεύεσϑαι è il compito più alto, perché il generar appartiene a Dio.

Dal punto di vista socratico,ogni punto di partenza nel tempo è “eo ipso” qualcosa di accidentale, di dileguantesi, una occasione; il maestro non lo è di più, e s’egli intende presentare se stesso e la propria dottrina in un altro modo, allora non vi dà nulla ma piuttosto ne toglie, poiché non è affatto l’amico degli altri e tanto meno il maestro. Questa è la profondità del pensiero di Socrate, questa nobile umanità ch’egli ha espresso con tanta penetrazione che disdegna la falsa e vana compagnia delle teste forti,  ma che si sente egualmente a proprio agio con un pellicciaio; perché egli si è ben presto accertato “che la fisica  non è affare dell’uomo e per questo cominciò a filosofare su argomenti di etica nelle botteghe e nelle piazze” (Diogene Laerzio, II, 5, 21), ma filosofando sempre in modo assoluto, chiunque fosse colui con cui parlava. Con mezzi pensieri, con il fare e il mercanteggiare, col tira e molla, come se il singolo avesse qualche dovere “fino a un certo punto” non l’avesse, con un diluvio di parole che spiegano tutto, meno che questo: qual è questo “certo punto”… - con simili espedienti non si va certamente al di là di Socrate, non si ottiene affatto il concetto di rivelazione ma si finisce nelle chiacchiere. Secondo la concezione socratica ogni uomo ha il suo centro in se stesso e tutto il mondo non fa che concentrarsi in lui, perché la sua conoscenza di sé è conoscenza di Dio. Così Socrate comprese se stesso, e così ogni uomo, secondo la sua concezione, deve comprendere se stesso, e in forza di ciò egli deve comprendere il suo rapporto al singolo, con umiltà sempre pari alla fierezza. »

 

La posizione di Socrate è nobile e generosa, ma pecca, forse, di eccessivo ottimismo e, sicuramente, di ingenuo razionalismo: Socrate è convinto che si possa insegnare la verità, perché si tratta solo di risvegliare il ricordo della verità che giace in noi, residuo delle vite precedenti; e che, una volta appresa la verità, gli uomini non possano fare a meno di osservarla e metterla in pratica, perché, secondo lui, è solo l’ignoranza a spingerli verso l’errore, che è la non-verità.

Ma siamo proprio sicuri che basti ricordare? Anche ammettendo l’ipotesi reincarnazionista, sta di fatto che la verità esiste per me nel momento in cui essa è un mio atto, non un semplice ricordo; di più: un atto che si accorda con la garanzia del trascendente. Meglio ancora: è vero, per me, quello che scorgo dell’Essere, fondamento di ogni cosa e dunque di ogni verità; ma se non ricevessi l’aiuto dell’Essere, io, da me stesso, non sarei capace di scorgere un bel nulla. Potrei passare cento volte davanti alla verità, senza per questo riconoscerla come tale e senza degnarla d’uno sguardo. Infatti o la verità si fonda sull’Essere, cioè sul soprannaturale, oppure hanno ragione i seguaci di ogni sorta di pensiero debole, sostenendo che non si dà alcuna verità assoluta, ma solo tante piccole verità contingenti e relative, che devono essere continuamente riviste ed aggiornate.

Come tutti i Greci, Socrate nutriva una immensa, sconfinata fiducia nella perfettibilità dell’uomo; ma una fiducia tutta umana, orgogliosamente umana. Parlava, sì, con ogni sorta di persone semplici, anche – come dice Kierkegaard – col pellicciaio, e con la stessa serietà con cui parlava ai dotti e alle teste fine; però sbagliava pensando che chiunque possa vedere e mettere in pratica la verità, non appena l’abbia riconosciuta; e sbagliava ancor di più se immaginava che chiunque possa vederla e riconoscerla in se stesso.

Se l’uomo fosse tutt’uno con la verità, sarebbe tutt’uno con Dio: e questo è l’esito della filosofia socratica, questo deriva necessariamente dalle sue premesse: né più né meno che la deificazione, o meglio, l’auto-deificazione dell’uomo. Esattamente il contrario di quanto sostiene il cristianesimo, la cui essenza consiste nell’incarnazione di Dio e nella fede degli uomini in tale incarnazione: «e il Verbo si fece carne e abitò tra noi».

La verità, dunque, esiste, ma viene dall’alto, e non si mostra agli orgogliosi e ai superbi, ma ai miti e agli umili di cuore. La verità, inoltre, si può trasmettere, ma a condizione che essa non si presenti come un atto volontario (e magari venale) del maestro, ma come una trasmissione del messaggio dell’unico Maestro che va scritto con la lettera maiuscola. I maestri non la creano, la trasmettono; e i discepoli non se ne impossessano, semplicemente si aprono ad essa e se ne lasciano trasformare…