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Il teorema dei quattro colori pone un arduo quesito sul rapporto fra matematica e tecnologia

di Francesco Lamendola - 15/12/2013

 

Chi di noi non si è domandato, da bambino, mentre disegnava e colorava una carta geografica politica, quale sia il numero massimo di colori di cui c’è bisogno per far sì che nessuno Stato si trovi ad avere un colore identico a quello di un altro Stato, con esso confinante, in modo che i confini risultino sempre sufficientemente chiari e non si verifichi mai una fastidiosa identità di colori fra due superfici di cui si vorrebbe evidenziare bene la distinzione?

Era un problema pratico, legato al fatto che non sapevamo se le matite colorate o i pennarelli contenuti nell’astuccio (tenuto conto anche delle matite spuntate e dei pennarelli consumati) sarebbero stati sufficienti anche per colorare una cartina complessa, con numerosi Stati che si incrociano in ogni angolazione possibile, ad esempio quella degli Stati Uniti d’America, quarantotto dei quali (senza tener conto dell’Alaska e delle Hawaii, che si trovano in posizione discontinua) formano una massa compatta, dai confini estremamente complessi e frastagliati.

Ma era anche, perché negarlo, una curiosità di tipo logico, che nasceva dal desiderio di sapere se esiste una maniera per conoscere in anticipo, a scanso di imprevisti, quanti colori siano necessari per colorare non solo una certa carta geografica, ma qualunque carta geografica: anche quella che avremmo dovuto colorare domani o fra un mese o fra un anno, anche quella caratterizzata dal maggior numero possibile di Stati e di rispettivi confini. Non avevamo coscienza del fatto che si trattava di un problema di logica matematica, non sapevamo nemmeno cosa fosse la parola “logica” e meno ancora  la parola “filosofia”: ma intuivamo che, per raggiungere un senso di intima sicurezza, avremmo dovuto sapere come risolvere la questione dei colori una volta per tutte, indipendentemente dal tipo di carta geografica e da quanto fosse ben fornito di matite colorate o di pennarelli il nostro astuccio.

Del resto, i bambini sfiorano molto più spesso di quanto non si creda problemi di logica, anche se non li affrontano con un procedimento rigoroso come farebbe, al loro posto, una persona adulta. Guardando un pavimento di piastrelle multicolori disposte a formare delle forme geometriche, si chiedono quante piastrelle ci vogliono per realizzare quel determinato disegno; percorrendo un viale illuminato da lampioni, dei quali solo uno su tre è illuminato per risparmiare energia elettrica, il bambino si domanda quanto si risparmierebbe tenendone acceso, invece, uno ogni due, o magari uno ogni quattro; e così via. I bambini riflettono più di quanto non ci s’immagini: mentre stanno in ozio, mentre attendono nella sala d’aspetto del dentista, mentre salgono le scale di un condominio e contano i gradini, mentre fantasticano guardando una scacchiera.

Tornando al problema dei colori per le carte geografiche, si tratta di una questione matematica che, nel corso dell’Ottocento, era divenuta piuttosto famosa, proprio perché, nata quasi per scherzo, aveva impegnato, uno dopo l’altro, i migliori matematici del tempo, senza che nessuno riuscisse a dare una dimostrazione chiara di quanto molti sospettavano da un pezzo, in base all’esperienza concreta: che i colori necessari, cioè, fossero almeno quattro, ma forse non più di quattro. Era possibile dimostrare, allora, che un quinto colore non è necessario, mai, in nessun caso, e chiudere la faccenda una volta per tutte?

Posto il quesito nel 1852, bisognerà aspettare niente di meno che il 1976 per veder giungere la risposta: e, per sommo scorno dei teorici puri e degli amanti della logica, ci si arriverà con il contributo determinate del computer, stante l’estrema difficoltà di vagliare manualmente, caso per caso, centinaia e centinaia, se non migliaia, di possibili carte geografiche con i confini più diversi.

Ha scritto Marcus du Sautoy nel libro «L’enigma dei numeri primi» (titolo originale: «The Music of the Primes», 2003; traduzione dall’inglese di C. Capararo, Milano, Rizzoli, 2004, pp. 387-91):

 

«Il primo caso di dimostrazione di un teorema ottenuta utilizzando un computer si è avuto con una questione nota come “problema dei quattro colori”, che nacque come una semplice curiosità matematica.  Il problema si riferisce a un fatto in cui probabilmente tutti noi ci siamo imbattuti da bambini: se si vuole dipingere una carta geografica in modo che due Paesi confinanti non abbiano mai colori uguali, è sempre possibile farlo usando quattro colori soltanto. Per quanto ci si impegni a ridisegnare nella maniera più creativa possibile i confini nazionali, sembra impossibile ottenere una mappa politica dell’Europa che necessiti di un numero di colori superiore a quattro. Le attuali frontiere di Francia, Germania, Belgio e Lussemburgo, d’altra parte, dimostrano che i colori necessari sono almeno quattro. Ma è possibile dimostrare che quattro colori sono sufficienti per qualsiasi mappa? La questione fu posta pubblicamente per la prima volta nel 1852, quando uno studente di legge, Francis Guthrie, scrisse a suo fratello, un matematico dello University College di Londra, domandandogli se qualcuno aveva dimostrato che quattro colori sarebbero sempre stati sufficienti. In verità all’epoca erano ben pochi a pensare che quella questione fosse importante. Un certo numero di matematici di secondo piano vi si cimentarono nel tentativo di fornire una dimostrazione a Guthrie. Ma, dato che la dimostrazione continuava a eluderli, poco alla volta il problema si fece strada verso il vertice della scala delle abilità matematiche. Persino Hermann Minkowski, il miglior amico di Hillbert a Gottinga, vi si bruciò le dita. La questione del problema dei quattro colori fu sollevata durante un corso universitario tenuto da Minkowski. “Questo teorema non è stato ancora dimostrato solo perché se ne sono occupati matematici di terzo rango” annunciò il professore. “Io ritengo di poterlo dimostrare”. Per varie lezioni litigò con le proprie idee alla lavagna. Una mattina, mentre entrava nell’aula dove si teneva il corso, si udì un fortissimo tuono. “Il cielo è adirato a causa della mia arroganza” ammise. “La mia dimostrazione non regge.”

Quante più persone tentavano e fallivano, tanto più il prestigio del problema cresceva, soprattutto a causa dell’estrema semplicità del suo enunciato. Resistette a tutti i tentativi di dimostrazione fino al 1976, oltre un secolo dopo la lettera spedita da Francis Guthrie al fratello. Due matematici dell’università dell’Illinois, Kenneth Appel e Wolfgang Haken, mostrarono che invece di affrontare il computo impossibile di colorare tutte le infinite mappe  immaginabili, il problema poteva essere ricondotto all’analisi di 1.500 differenti mappe fondamentali. Fu un passo avanti decisivo. Era come la scoperta di una tavola periodica cartografica contenente le mappe elementari che permettevano di costruire tutte le altre. Ma se Appel e Haken avessero voluto verificare a mano ciascuna di queste mappe “atomiche”m, anche cominciando nel 1976, oggi sarebbero ancora impegnati a colorarle. Così, per la prima volta, si ricorse all’aiuto di un computer. Ci vollero 1.200 ore di tempo macchina, ma alla fine la risposta arrivò: ogni mappa poteva essere colorata usando quattro colori. Combinata alla forza bruta del computer, la genialità umana con cui si era dimostrato che bastava considerare quelle 1.500 mappe di base per comprendere tutte le altre mappe confermò ciò che Guthrie aveva ipotizzato nel 1852: per qualsiasi mappa i colori necessari non erano mai più di quattro.

Sapere che il teorema dei quattro colori è vero non ha alcuna utilità pratica. I cartografi non emisero un sospiro collettivo di sollievo nel ricevere la notizia che non sarebbero dovuti uscire a comprare un quinto vasetto di colore. I matematici non erano in attesa spasmodica della conferma di quel risultato per poter proseguire nella loro esplorazione: al di là non riuscivano a scorgere niente che valesse particolarmente la pena di studiare. Quella non era l’ipotesi di Riemann, dalla cui dimostrazione dipendevano migliaia di risultati. Il problema dei quattro colori  era significativo solo perché la nostra incapacità di risolverlo indicava che non avevamo ancora una comprensione sufficiente dello spazio bidimensionale per poterlo fare. Finché rimase irrisolto, il problema spronò  i matematici a cercare una comprensione più profonda dello spazio attorno a noi. È per questo che la dimostrazione di Appel e di Haken lasciò molti insoddisfatti. Il computer ci aveva dato una risposta ma non aveva contribuito ad approfondire le nostre conoscenze. Il fatto che la soluzione del problema dei quattro colori ottenuta da Appel e Haken con l’ausilio del computer catturi il vero spirito “dimostrazione” oppure no, è stato oggetto di un acceso dibattito. Il ruolo avuto dal computer provocò in molti una sensazione di disagio, anche se quasi tutti sapevano che la dimostrazione aveva maggiori probabilità di essere corretta di quante non ne avessero molte dimostrazioni ottenute dall’uomo. Ma una dimostrazione non dovrebbe produrre comprensione? Come amava dire Hardy, “una dimostrazione matematica dovrebbe assomigliare a una costellazione semplice e dai contorni netti, non a una Via Lattea dispersa. La dimostrazione al computer del problema dei quattro colori faceva ricorso a una laboriosa ricostruzione del caos dei cieli invece di offrire una comprensione più profonda del perché i cieli sono così come ci appaiono.

La dimostrazione assistita dal computer evidenziava un fatto: il piacere della matematica non si ritrae soltanto dal risultato finale. Noi non leggiamo storie di misteri matematici solo per scoprire chi è il colpevole. Il piacere è dato dal vedere come le tortuosità della trama si dipanano man mano che ci si avvicina al momento della rielezione. La dimostrazione del problema dei quattro colori  da parte di Appel e Haken ci ha privato di quel senso di improvvisa illuminazione (di quel: “Ecco! Adesso capisco!”) a cui aneliamo quando ci immergiamo in una lettura matematica. Ciò che amiamo è condividere il momento dell’inattesa rivelazione provata la prima volta da colui che ha creato la dimostrazione. Dell’eventualità che un giorno i computer potranno provare emozioni si dibatterà per decenni, ma di certo la dimostrazione del problema dei quattro colori non ci ha offerto l’opportunità di condividere l’eventuale sensazione d’euforia che il computer potrebbe aver provato. A dispetto delle sensibilità estetiche ferite, tuttavia, il computer ha continuato a servire la comunità matematica nella dimostrazione di teoremi…»

 

A quanto pare, Marcus du Sautoy è convinto, con Deng Xiapong (ci si perdoni l’accostamento fra un matematico di Oxford e un leader politico della Cina moderna) che «non ha importanza se il gatto è rosso o nero, basta che sappia acchiappare i topi»; ovvero, per dirla in termini più vicini alla filosofia dell’utilitarismo, che quel che conta è il risultato, non il modo in cui ci si è arrivati. È una concezione come un’altra, in sé perfettamente legittima e non meno dignitosa di tante altre.

Eppure, ci sia permesso di non aderirvi. Per noi, la bellezza della matematica consiste proprio nella sua natura non utilitaristica, riconosciuta, del resto, proprio dal du Sautoy, là dove afferma che il sapere la verità del teorema dei quattro colori non ha alcuna utilità pratica. Tuttavia poi fa l’elogio del computer come strumento per la risoluzione dei problemi matematici, pur riconoscendo che una dimostrazione fatta mediante il computer non fornisce, di per sé, una maggiore comprensione del problema stesso, perché si limita a metterci davanti a una soluzione strappata con la “forza bruta” del calcolatore elettronico. A dispetto di quanto mostra di ritenere du Sautoy, non è solo in ballo una questione di “sensibilità estetica”: la risoluzione di teoremi matematici mediante il computer pone in gioco una posta molto più alta, la natura qualitativa del ragionamento logico e la sua assoluta gratuità, la sua assoluta libertà da qualunque fattore materiale. Il computer, invece, se diventa necessario per risolvere un teorema, assurge ad un rango diverso dal suo statuto epistemologico, anzi mette in discussione la natura stessa della logica matematica. Questa finisce di essere una costruzione della mente umana, che procede per ragionamenti e per dimostrazioni logiche, e diventa un campo di battaglia per macchine elettroniche, che riescono a sbaragliare il “nemico” in virtù della loro gigantesca complessità e potenza tecnologica. In un certo senso, è un ritorno alla logica militare di Napoleone, secondo la quale Dio sta dalla parte dei battaglioni più grossi. Una logica quantitativa, basata sui rapporti di forza e non sull’evidenza logica. Quando un matematico riesce a dimostrare un teorema, quel che prova non è soltanto una sensazione estetica, o una forma di benessere psicologico; è molto di più: qualche cosa di simile a un legame mistico con l’assoluto. Il matematico puro è un cercatore dell’assoluto; quindi, a suo modo, un cercatore di Dio. Ma se Dio sta dalla parte dei battaglioni più grossi, allora sta anche dalla parte del computer e non dell’uomo, dell’intelligenza artificiale e non di quella umana. Ora, l’intelligenza artificiale può vincere, ma non convince. E, fra parentesi, non vince mai del tutto: se uno Stato comprende una enclave in territorio straniero, come la russa Kaliningrad, incuneata fra Polonia e Lituania, allora quattro colori potrebbero non bastare più, per costruire quella determinata carta geografica…