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Come rileggere la questione dell'immigrazione

di Gian Maria Bavestrello - 19/01/2014

Fonte: Heimat

Parliamo di immigrazione. La motivazione è tratta dal “Dizionario dei simboli” di Jean Chevalier e Alain Gheerbrant, che alla voce straniero individuano sia l’espressione simbolica della situazione dell’uomo sia “la parte di se stessi ancora erratica e non assimilata, sulla via dell’identificazione personale”.

Lo straniero simboleggia quanto in noi non è ancora vinto, irrigidito nelle convenzioni ma in cerca di un destino da compiere attraverso il cambiamento, l’evoluzione e il rinnovamento personale;  richiama  la dimensione post-edenica – riportando alla memoria la condizione mortale e pellegrina dell’uomo -  e la necessità di attingere a quanto nell’anima è ancora diveniente, vivo, mobilitabile e disponibile alla trasformazione.

Ho riflettuto con piacere sulla natura di questo simbolo e di questa visione del “forestiero”, di colui che viene da fuori, varca i nostri confini, ci sorprende, ci scuote e risveglia in noi il bisogno di un’altra e più completa verità, di colui che sul piano simbolico si fa portatore del cambiamento e del rinnovamento, sia a livello individuale che sociale.

Se questa è l’essenza dell’essere straniero all’interno della nostra civiltà, credo necessario muovere alcune considerazioni generali sul tema:

1) Lo straniero è una componente ineliminabile e necessaria di ogni società, che attraverso il “diverso” si preserva dal rischio di una chiusura ermetica  e di un mortale soffocamento della “parte di sé ancora erratica”.

2) La politica può finalmente trovare una chiave di lettura del fenomeno migratorio, al di là del tradizionale schema assimilazionistico di matrice francese, lasciando che lo “straniero” rimanga “straniero”, portatore di un’identità altra da quella nativa e fattore di evoluzione e rinnovamento storico di quella stessa identità, che deve essere costantemente salvata dal rischio di consunzione e svuotamento interno.

3) La politica, in questo scenario, ha altresì il compito di tutelare lo straniero nella sua dimensione simbolica, che ne permette l’inclusione sociale prim’ancora che l’integrazione. Lo straniero deve, se lo desidera, rimanere “altro” dall’autoctono e suscitarne finanche lo scandalo per risvegliarne la coscienza sopita dalla “norma”.

4) Per assolvere la sua missione lo straniero deve, al contempo, essere tutelato dal rischio sempre presente della sua nemesi in “invasore” od “occupante” agli occhi di coloro che lo accolgono come straniero. Che è, invece, quanto sta accadendo.

La domanda è: a che condizioni lo straniero cessa di essere portatore di rinnovamento e diventa, nella percezione che l’opinione pubblica o gran parte di essa ne ha, “invasore” od “occupante”?

Vi possono essere diversi ordini di risposta a questa domanda. La più immediata sembra virare verso una questione di numeri, di densità, di “metabolismo”. Di misura e di proporzioni. Se mi si concede il termine, di estetica nel senso etimologico della parola, che deriva dal greco “aesthesis”, percezione.

Può la politica sottovolatutare la percezione sociale del problema, stigmatizzandola come “razzista”, “retrograda”, “inadeguata”? Può considerare il fenomeno chiamato “xenofobia” come una mera malattia ideologica da prevenire attraverso campagne di promozione sociale, educazione coatta, o da reprimere come un crimine tra gli altri?

La xenofobia appare piuttosto un fenomeno di rigetto degli elementi estranei all’organismo sociale che ha molti punti di contatto con analoghi fenomeni biologici. E’ da questo punto di vista una reazione naturale e auto-protettiva dell’organismo. Esisterebbe quindi una soglia numerica, segnalata da un aumento dei livelli di xenofobia,  oltre la quale lo straniero non riesce più a essere metabolizzato dalla società ospitante, proprio come un farmaco (dal greco pharmacon, sia medicina che veleno) assunto in quantità massiccia o letale. Una soglia oltre la quale verrebbe quindi vissuto come fattore mortale, dis-identificativo, annichilente e distruttivo.

Non ci stiamo muovendo – sia chiaro – su quel piano razionale e vetero-illumunistico così caro a larghe schiere dell’intellighentia italiana. Per questo nulla di quanto sopra ha a che vedere col razzismo in qualsivoglia sua formulazione ideologica e consapevole. Ci stiamo invece muovendo sul viscido e indecifrabile terreno del sub-conscio collettivo da cui spesso promana – nuda e cruda – la nostra visione della realtà, discutibile o meno che possa essere.

Stando così le cose, il problema dell’immigrazione non è un problema di “assimilazione” a noi del diverso o o di adattamento forzoso allo stile di vita occidentale.  E’ un problema, innanzitutto, di numeri e di quantità. Un problema matematico, forse numerologico.

E la xenofobia non è il nemico da abbattere schierando sul tappeto eserciti di pedagoghi, psicologi, guru, opinion leader, missionari, show men, scrittori, intellettuali, filosofi, storici, astrofisici. La xenofobia è l’ indice che lo Stato dovrebbe tenere monitorato per capire la portata dell’eccesso verso il quale sta spingendo il Paese o particolari aree del Paese più interessate dal fenomeno.

Rimediare lucidamente agli errori è necessario, perché non è in gioco l’illusoria e inesistente purezza etnica di una nazione di per sé fittizia come quella italiana, ma il destino di migliaia di migranti, la pace sociale, la possibilità stessa, per la nostra società, di cambiare e di rinnovarsi spiritualmente, alla luce del contatto col “diverso”, in continuità con sé stessa