Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Finisce totalmente distrutta nel deserto l’armata anglo-egiziana di Hicks Pascià (1883)

Finisce totalmente distrutta nel deserto l’armata anglo-egiziana di Hicks Pascià (1883)

di Francesco Lamendola - 26/02/2014


 File:The army of Hicks Pasha on the march.jpg

 


 

Chi ha visto il celebre film di Basil Dearden «Khartoum» - un kolossal del 1966 interpretato da Charlton Heston e Laurence Olivier - certamente ricorderà il preambolo della drammatica vicenda che portò al lungo assedio del generale inglese C. G. Gordon nella capitale del Sudan da parte dei Mahdisti e, infine, alla sua morte leggendaria, al momento della caduta.

Una colonna egiziana di 10.000 uomini avanza nel cuore del Kordofan, una regione semidesertica dell’immenso Sudan, con l’obiettivo di agganciare e distruggere le forze ribelli di un certo Mohammed Ahmed, un predicatore religioso di neppure quarant’anni, divenuto per i suoi ardenti seguaci il Mahdi, ossia «il ben guidato da Dio», che ha innalzato la bandiera del Profeta incitando alla riscossa contro gli Egiziani e contro gli “infedeli”, ossia i cristiani. Alla testa della colonna c’è un ufficiale inglese, il generale William Hicks, che aveva prestato servizio nelle campagne britanniche del 1857 India e del 1867-68 in Etiopia ed era poi andato in pensione, per passare infine alle dipendenze del Khedivé d’Egitto, all’età di cinquantatre anni. Formata da truppe indisciplinate e male addestrate, stremata dalla sete e dal clima torrido, la colonna si era inoltrata lentamente nel deserto, disseminando la strada di cadaveri, finché era caduta in una imboscata dei Mahdisti ed era stata totalmente distrutta, prima di aver potuto organizzare qualsiasi efficace difesa. Lo stesso Hicks era caduto sul campo, trafitto dalla lancia del califfo Mohammed Sherif; i dromedari, i fucili, i cannoni e le munizioni erano caduti nelle mani dei vincitori, aumentandone considerevolmente il potenziale bellico. Quando la notizia era giunta al Cairo, e di lì in Europa, aveva gettato nel panico sia il governo egiziano, sia quello britannico, che proprio l’anno prima aveva occupato l’Egitto, sconfiggendo il moto nazionalista del generale Arabi Pascià.

Lo sterminio della colonna di Hicks, passato alla storia come la battaglia di El Obeid, ebbe luogo il 5 novembre 1883: si salvarono appena 300 uomini. Prima della fine dell’anno la Gran Bretagna, coinvolta suo malgrado nella vicenda, perché il Sudan era, teoricamente, un possedimento turco-egiziano, decise l’evacuazione dell’immenso territorio a sud di Wadi Halfa e, nel gennaio 1884, inviò al Cairo il generale Charles George Gordon, già governatore del Sudan al tempo di Ismail Pascià, con il compito di organizzare lo sgombero di Khartoum, ove egli giunse in il 18 febbraio. Però, arrivato sul posto, Gordon si rese conto della impossibilità di realizzare il progetto: oltre alla colonia europea, vi erano a Khartoum alcune migliaia di ufficiali, soldati e funzionari egiziani con le loro famiglie, e sarebbe stato impossibile trasferire al sicuro tutta quella gente, con la città ormai isolata e bloccata da ogni lato. Perciò egli prese la fatale decisione di rimanere sul posto, contando, probabilmente, sulla pressione che l’opinione pubblica inglese avrebbe esercitato sul primo ministro Gladstone affinché la città non venisse abbandonata al suo destino con tutti gli abitanti. Ma Gladstone aveva altre idee riguardo al Sudan: da buon liberale, egli non aveva niente contro i Sudanesi e pensava, anzi, che la loro rivolta contro il pesante dominio egiziano fosse giustificata, sia politicamente che moralmente. Al Parlamento di Londra, egli ebbe a dire testualmente: «Sì, il popolo sudanese sta lottando per la propria libertà – e ha il diritto di farlo!»

L’assedio di Khartoun durò dieci mesi: alla fine, con la bassa marea, i Mahdisti passarono il Nilo e conquistarono di slancio la città, stremata dalla fame e dalle epidemie; Gordon morì ucciso all’ingresso del suo palazzo (26 gennaio 1885). Appena due giorni dopo giunse la colonna di soccorso del generale Wolseley, proveniente dal basso Nilo, la quale, constatato il fallimento della propria missione, ritornò indietro lungo il fiume sino al confine egiziano. A quel punto il Sudan venne definitivamente abbandonato; solo nel 1898, sotto la guida del generale Kitchener, i Britannici sarebbero tornati ad avanzare e avrebbero sconfitto i Mahdisti, soprattutto per bloccare un tentativo francese di avanzare dall’Africa Equatoriale verso il Nilo, all’altezza di Fashoda. Il Mahdi, frattanto, era morto di tifo sin dal 22 giugno 1885, pochi mesi dopo la presa di Khartoum: Kitchener ne fece profanare la tomba e gettare i suoi  resti nel Nilo.

Ecco come rievoca questa vicenda Vladimir Borisovic Lutsky, massimo esperto di storia araba nell’ex Unione Sovietica (da: B: Lutsky, «Storia moderna dei Paesi arabi», traduzione dal russo di Massimo Massara, Milano, Teti Editore, 1975, pp. 269-71):

 

«Nell’agosto 1881, durante il Ramadan,  Mohammed Ahmed si proclamò Mahdi, Messia, e invitò il popolo sudanese a ribellarsi. La situazione era matura per una ribellione: in Egitto si stava preparando una crisi politica, le potenze europee e l’Egitto stesso ne erano preoccupati e c’era la reale possibilità per un’azione decisiva in Sudan.

Così testimoni e contemporanei descrivono lo scoppio dell’insurrezione: nell’agosto del 1881 un funzionario del governo egiziano, proveniente da Khartum, arrivò ad Abba. Si presentò a Mohammed Ahmed e disse che il Mahdi era accusato di cospirazione contro il governo, per cui doveva andare a Kartum a giustificarsi presso il governatore del Paese. Mohammed Ahmed rispose che per grazia di Dio e del Profeta era lui stesso il governatore del Paese, e che non sarebbe andato mai a Kartum per scusarsi con chicchessia. Il funzionario partì per Kartum ma, poco dopo la sua partenza,  arrivò ad Abba una spedizione punitiva, forte di due compagnie e armata di un cannone. Gli effettivi della spedizione dicevano da soli che  il movimento di Mohammed Ahmed non era preso troppo sul serio. I Mahdist distrussero completamente la spedizione.

Dopo la sconfitta della spedizione, Mohammed Ahmed decise di muoversi attraverso il Kordofan, insieme ai suoi seguaci. Nel Kordofan i suoi distaccamenti  si ingrossarono con numerosi nuovi sostenitori: così si formò un esercito ribelle forte di alcune migliaia di uomini.

Chi erano i seguaci del Mahdi? Quali erano le forze guida dell’insurrezione mahdista?  La maggior parte dei suoi seguaci erano contadini, nomadi, schiavi e artigiani. Il braccio destro del Mahdi, Abdullah, riferisce che mentre i poveri accorrevano  in massa nelle loro file, loro incontravano l’opposizione dei ricchi: la preoccupazione per le loro proprietà, l’attaccamento ai beni terreni  impediva loro di godere e condividere la vera beatitudine celeste.

Il Mahdi incitava i suoi seguaci alla guerra santa. Come il profeta  Maometto, li chiamava Ansar (aiutanti) e prometteva la felicità eterna per quanti cadevano in battaglia  e i quattro quinti del bottino conquistato per i sopravvissuti.

Slatin Pascià, che lasciò un dettagliato resoconto dell’insurrezione, scriveva che per più di sessant’anni il Sudan era appartenuto ai Turchi e agli Egiziani: ebbene, in tutto questo tempo c’erano sì stati casi in cui alcune tribù si erano rifiutate di pagare io tributo, motivo per cui erano poi state punite, ma nessuno aveva mai osato ribellarsi contro le autorità del Paese o dichiarare  contro di loro una vera e propria guerra. Ma ora un mendicante, uno sconosciuto “fakir” [povero eremita] era comparso, con un pugno di sostenitori affamati, e  miseramente armati, e andava riportando una vittoria dopo l’altra.

Quando il Mahdi fissò il suo campo nelle montagne del Kordofan, i poveri presero ad accorrervi da ogni parte del Sudan, portando con loro mogli e figli. Qui costituirono distaccamenti di guerriglieri, scelsero i loro capi e cominciarono a tendere imboscate ai posti governativi, agli esattori delle tasse e alle pattuglie armate che li accompagnavano.  Slatin Pasciàò scriveva che i poveri speravano di migliorare le loro condizioni con la rivolta. Così, in tutto il Paese, esattori, funzionari governativi e distaccamenti dell’esercito venivano attaccati e distrutti o messi in fuga.

Nell’insurrezione del Mahdi un ruolo importante era svolto dall’elemento nazionale. A questo proposito, scrive sempre Slatin Pascià, la loro vanità si compiaceva del fatto che un sudanese era diventato Mahdi e che di conseguenza il Sudan sarebbe stato governato da uno dei loro e non dagli stranieri.

Feudatari sudanesi e mercanti di schiavi  erano, per la maggior parte, ostili all’insurrezione. Una predicazione favorevole a un’equa ripartizione delle proprietà  e delle terre era profondamente in contrasto con i loro interessi. Spesso, però, essi erano costretti a fare i conti con le forze degli insorti: non c’era molta coerenza nel loro appoggio al Mahdi, ma alcuni si piegarono a compromessi o cercarono di conquistarsene il favore per scongiurare una redistribuzione  dei loro beni o per strumentalizzare il Mahdi ai loro propri fini.

Ben presto l’intero Kordofan passò dalla parte del Mahdi e numerose spedizioni punitive, egiziane ed europee, ne furono respinte.

Nell’autunno del 1881, Gigler, che a quell’epoca era governatore del Kordofan, inviò contro il Mahdi una spedizione al comando di Shaid Mohammed Pascià: questa spedizione fallì il suo scopo e il comandante, tenendo una sconfitta, si ritirò.

Nel dicembre 1881 il governatore di Fascioda, Rashid Bey, inviò una nuova spedizione al comando del tedesco Bergchoff: anche questa aveva lo scopo di combattere il Mahdi nel Kordofan e venne completamente sconfitta.

Nel marzo del 1882 venne inviato nel Kordofan un corpo di spedizione forte di 6.000 uomini, proveniente da Kartum: lo comandava Yusef Pascià Shelalì. Nel giugno questo corpo di spedizione era ormai completamente distrutto.

Nel settembre del 1882 i Mahdisti assediarono El Obeid, capitale del Kordofan: la città cadde il 18 febbraio del 1883, completando così la conquista del Kordofan.  Da questa regione l’insurrezione prese a diffondersi a tutte le altre del Sudan. 

Il 1883 fu un anno di decisive vittorie per i Mahdisti. Nella primavera dello stesso anno arrivò nel Kordofan un’ingente forza anglo-egiziana sotto il comando del generale inglese Hicks. Dopo otto mesi di operazioni nella zona, ne uscì definitivamente sconfitta. Contro Hicks gli insorti si valsero della tattica della terra bruciata: portato via i bestiame, bruciavano le case e ostruivano i pozzi.  In una battaglia a nord di El Obeid, il 5 novembre 1883,  l’esercito di Hicks, esausto, venne alla fine sconfitto: lo stesso generale Hicks morì in battaglia. Alcuni dei suoi uomini passarono nelle file degli insorti.  Va detto che l’esercito di Hicks comprendeva molti soldati egiziani che solo un anno prima (1882) avevano combattuto nell’esercito di Arabi contro gli Inglesi. Nel Sudan erano stati mandati per punizione. Dal punto di vista politico, queste forze  non erano le più adatte per operazioni punitive e Cromer stesso  descrive questi soldati che in battaglia esclamavano: “Oh Effendi Arabi! Se solo sapessi dove Tewfik ci ha mandati!” e gettavano le armi.

Nell’agosto del 1883 la rivolta raggiunse le province del Mar Rosso, dove i Mahdisti inflissero una serie di sconfitte alle truppe anglo egiziane  del generale Baker. Alla fine del 1883 tutte le province  del Sudan erano nelle mani degli insorti.  Nel dicembre 1883 Slatin Pascià, governatore di Darfur, mise fine a ogni ulteriore resistenza; agli inizi del 1884 si arrese Lupton, governatore di Bahr el Ghazal. Così, l’intero Paese, sulla riva destra e su quella sinistra del Nilo, era controllato dal Mahdi, a eccezione di una stretta striscia di terra nella valle del Nilo, che restava sotto dominio anglo-egiziano.»

 

Se la ricostruzione militare delle vicende che culminarono nella tragica disfatta di Hicks Pascià è sostanzialmente esatta, quella degli aspetti politico-sociali del movimento mahdista fatta da Lutsky è più che discutibile, ispirata com’è al modello della cosiddetta storiografa sovietica (una versione del marxismo-leninismo particolarmente “dura e pura”, tanto che i suoi esponenti citavano sovente qualche discorso di Stalin a questo o quel congresso del P.C.U.S., nel bel mezzo di un’opera, poniamo, di storia romana, come quella di Segej Kovaliov) e, pertanto, subordinata a una serie di rigidi preconcetti ideologici, che prevalgono sempre sui fatti, quando questi ultimi presentano l’inconveniente di non accordarsi con quelli.

Lutsky descrive il movimento mahdista come una forma di “lotta di classe” (p. 268) e cerca di presentarlo come una sintesi di nazionalismo e di istanze sociali in veste religiosa; il che è già molto opinabile, perché sarebbe più giusto dire che il movimento mahdista coincise con una rinascita dello schiavismo in grande stile – quello schiavismo che uomini come Gordon Pascià e come Romolo Gessi, lottando duramente, avevano in gran parte sradicato negli anni precedenti, inimicandosi mortalmente i grandi proprietari di schiavi. Quanto all’elemento nazionalista, Lutsky tace pudicamente due circostanze decisive che metterebbero in una luce meno simpatica l’insurrezione mahdista: primo, che un “nazionalismo sudanese” non esisteva, né poteva esistere, trattandosi non di un popolo, ma di un coacervo di tribù, di etnie e di clan familiari, in cui una sola cosa era certa: l’atavico senso di superiorità, anzi, il radicale disprezzo e l’inveterato razzismo degli Arabi verso le popolazioni negre delle regioni sudanesi meridionali; secondo, se pure il Mahdi era favorevole a una certa “redistribuzione” – come dice lo storico russo – dei beni, vale a dire della carne umana, da parte dei grandi proprietari, ciò non si estendeva certo alla massa degli schiavi negri, oltretutto pagani (o, magari, convertiti all’aborrito cristianesimo), per cui è del tutto fuorviante presentare quest’ultimo come una specie di fautore della lotta di classe. Tanto varrebbe parlare di lotta di classe, allora, per qualunque insurrezione popolare, ad esempio per il movimento di fra Dolcino, o per quello del Cosacchi di Pugaciov, o, magari, per la rivolta degli schiavi guidata da Spartaco, nell’antica Roma: ma si tratterebbe, evidentemente, di una forzatura storiografica, mirante a far rientrare nelle categorie marxiste, pensate per la situazione della classe operaia del XIX secolo, fenomeni storici che alla lotta di classe non possono richiamarsi, dal momento che manca ad essi proprio il carattere che le è essenziale: la coscienza di classe – anche per l’inesistenza di “classi” nelle società pre-moderne.

Notiamo “en passant” che Lutsky, come tutti gli storici marxisti ortodossi che si sono occupati di storia africana (un altro è l’ungherese Endre Sìk, autore di una monumentale «Storia dell’Africa Nera»; ma è giusto metterci dentro anche il nostro africanista Angelo Del Boca, la cui faziosità è pari solo al pregiudizio ideologico che lo porta a leggere la storia africana moderna in bianco e nero, con tutto il bene da una parte e tutto il male dall’altra, ossia dalla parte degli “avidi” colonialisti europei, senza distinzioni né sfumature), passa qui sotto silenzio sia il giudizio totalmente negativo che Marx, Lenin e Stalin danno del fenomeno religioso, equiparato, sempre e comunque, a “oppio dei popoli”, sia quello, ancor più recisamente negativo – se possibile – che essi esprimono sul conto del nazionalismo, qualificato come una ideologia tipicamente borghese e capitalista. Qui però, pur di tirare acqua al mulino delle intrepide e gloriose lotte anticoloniali dei popoli arabi, Lutsky sorvola su questi aspetti imbarazzanti e presenta il movimento mahdista, cioè un movimento fanaticamente religioso e “nazionalista” nel senso di razzista e xenofobo (ma egli, astutamente, adopera invece l’aggettivo “nazionale”, a dispetto del fatto che, come dicemmo, non esisteva alcun nazionalismo “sudanese”, ma sempre e solo un nazionalismo “arabo” e “islamico”), come una specie di mazzinianesimo in versione nordafricana, con l’aggiunta di una opportuna iniezione di lotta di classe.

Per quanto riguarda la supposta missione di Gordon a Khartom, consistente nel liquidare la sovranità egiziana e sostituirla con una specie di condominio fra la Gran Bretagna e i Mahdisti, è un altro aspetto a dir poco controverso: Lutsky presenta come certezza assoluta quella che è, al massimo, una interpretazione personale, peraltro piuttosto improbabile, dei fatti. Anche se a Londra avevano sottovalutato, come del resto al Cairo, il fenomeno mahdista, nel 1884 ne sapevano ormai abbastanza per capire l’assurdità di un tentativo di accordo con Mohammed Ahmed. Il destino della colonna di Hicks, che oltretutto era un ufficiale britannico, ammoniva anche i più ottimisti, o i più temerari, che una strada del genere era assolutamente impraticabile e che, se anche il governo britannico avesse voluto tentare di percorrerla, non vi erano margini per addivenire a un accordo con un personaggio come il Mahdi, allora più che mai convinto di essere stato mandato da Dio per ripristinare la vera fede islamica non solo in tutto il Sudan, ma fino al Cairo e magari fino a Costantinopoli, oltre che per spazzare via i cristiani, specialmente se europei.

Né si obiettivi che anche gli stessi Italiani, per un certo periodo, praticarono una politica di mutuo accordo con i Senussi della Cirenaica, dopo la guerra del 1911-12, perché in Sudan, nel 1883-84, la situazione era molto diversa: il movimento mahdista era in piena espansione e non si sarebbe mai adattato a un compromesso con i colonialisti britannici. Opinare diversamente, come fa Lutsky con perfetto candore, sarebbe più o meno come immaginare che l’ayatollah Khomeini, una volta cacciato la Scià di Persia, nel 1979, avrebbe potuto stringere un accordo di compromesso con gli Stati Uniti, che di Reza Pahlevi erano stati i principali sostenitori: gli Inglesi, infatti, dopo la fallita rivolta di Arabi Pascià, avevano ereditato direttamente dall’Egitto la posizione dominante anche nel Sudan, per cui non potevano non apparire ai popoli sudanesi come i nuovi oppressori, oltretutto “infedeli”.

Tali sono le incongruenze alle quali conduce la storiografia, quando è praticata alla maniera di Vladimir Lutsky, il quale, invece di cercar di capire come e perché si siano verificati determinati eventi, ha una propria tesi da portare avanti in qualunque circostanza e si serve dei fatti per corroborarla, capovolgendo il giusto rapporto che deve esistere fra questi ultimi e la ricostruzione che è chiamato a farne lo storico professionista.