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Napoleone e Hitler come “risposta” imperiale agli imperialismi inglese e russo

di Francesco Lamendola - 28/07/2014

Fonte: Arianna editrice


 

 


File:Gros, Napoleon at Eylau.jpg

 

Si è soliti rappresentare il periodo delle guerre napoleoniche come l’esito dell’ambizione di potere e della sete imperialista di un unico uomo, Napoleone, e di un unico Stato, la Francia; al massimo, si evidenzia la linea di continuità che collega le guerre della Francia rivoluzionaria, a partire dal 1792, intraprese per volontà dei Girondini contro il resto dell’Europa, e quelle di Napoleone stesso, desideroso di imporre un sistema di potere imperiale continentale che facesse perno, e al tempo stesso legittimasse, la dinastia da lui fondata come simbolo degli “homines novi” contro la vecchia aristocrazia e le antiche dinastie dell’Ancien régime.

Analogamente, quando si parla dello scoppio della seconda guerra mondiale, la persona di media cultura pensa subito alla questione di Danzica e del “corridoio polacco” e all’aggressione di Hitler contro la Polonia; la ricollega, perché così ha studiato sui libri di scuola, con la precedente politica di annessioni hitleriana verso i Sudeti, l’Austria e Memel; e, al massimo, la pone in relazione con il patto di non-aggressione tedesco-sovietico, che precedette di pochissimo l’invasione tedesca, ma anche sovietica, della Polonia stessa. Gran Bretagna e Francia entrano in questo quadro quasi controvoglia: essendo alleate della Polonia, non potevano non intervenire; ma, se fosse stato per loro, ne avrebbero fatto volentieri a meno, perché non chiedevano altro che di poter vivere in pace, in un’Europa e in un mondo pacifici.

La Vulgata storiografica oggi imperante si astiene dal precisare che l’Inghilterra, trascinandosi al rimorchio la Francia, aveva dato recentemente alla Polonia quella garanzia inaudita, che la impegnava a correre in sua difesa contro chiunque, e che certo ebbe un peso notevole nello spingere i dirigenti polacchi verso l’intransigenza, allorché erano ancora in corso le trattative riguardo a Danzica e al “corridoio”. Meno ancora essa ricorda volentieri che gli armamenti navali tedeschi, proprio come era avvenuto trent’anni prima con la politica di Tirpitz, avevano creato in Gran Bretagna un partito favorevole alla guerra “preventiva” in tempo brevi: prima, cioè, che la flotta tedesca potesse diventare realmente pericolosa e prima che la rimonta industriale della Germania potesse vanificare i vantaggi del Trattato di Versailles; che quel partito era capeggiato da Winston Churchill, il quale, dopo l’occupazione tedesca di Praga, che di fatto annullava le decisioni della Conferenza di Monaco, faceva apparire Chamberlain come un leader ingenuo e inadeguato, che si era fatto giocare in astuzia da Hitler; e che tutto quello di cui Londra aveva bisogno, per mettersi traverso alla rinascita economica, politica e militare tedesca, era, come il Belgio nel 1914, un nobile pretesto quale la difesa di uno Stato neutrale attaccato senza ragione dai Tedeschi brutali. La posta in gioco per la Gran Bretagna, allora come nel 1914, come nel 1793, come nel 1756, non era una questione locale, ma il dominio del mondo e la conservazione del suo immenso impero coloniale e delle ricchezze che esso le  assicurava.

Si tratta, però, di un falso evidente. Senza volere in alcun modo tacere o minimizzare le responsabilità tedesche nel 1939, o quelle francesi nel 1792-93, è certo che le responsabilità della Gran Bretagna, così come della Russia, non furono minori, anche se possono apparire meno evidenti: nel caso della Gran Bretagna, perché (sia nel 1793 che nel 1939) si trattava, per essa, di conservare quanto già possedeva, e magari anche di ingrandirlo, ma al di fuori dell’Europa, passando, così, per l’unica potenza interessata al mantenimento della “pace” nel Vecchio continente; nel caso della Russia (sia nel 1812 che nel 1941) perché essa venne aggredita, rispettivamente da Napoleone e da Hitler, e ciò l’ha fatta passare automaticamente, nell’immaginario collettivo, come una nazione che viveva in pace e non desiderava altro che di poter rimanere fuori dalle guerre degli altri Stati europei.

La verità è che, sia nel caso delle guerre napoleoniche, sia in quello della seconda guerra mondiale, tanto la Gran Bretagna che la Russia (e l’Unione Sovietica) non erano affatto potenze “pacifiche” e tutte rivolte ai propri affari interni, ma potenza sfrenatamente imperialiste, i cui appetiti smisurati passavano un po’ inosservati, perché rivolti principalmente al di fuori dell’Europa: verso l’India la prima, verso l’Asia centrale e il Vicino oriente la seconda. Entrambe erano potenze solo parzialmente europee: la Gran Bretagna stava spostando l’epicentro del proprio impero sui mari del mondo intero e, mediante il Canada, il Sud Africa, l’Australia e la Nuova Zelanda, si apprestava a diventare una potenza globale nel senso letterale del termine; la Russia, dopo aver conquistato la Siberia ed essersi spinta fino in Alaska, si apprestava a dilagare oltre il Caucaso e il Turkestan e a sferrare il colpo di grazia al cadente Impero Ottomano, con obiettivo finale Costantinopoli, dopo aver già mostrato la sua formidabile voracità a spese della Polonia (con la cooperazione dell’Austria e della Prussia).

Quando si pensa alla campagna napoleonica contro la Russia, nel 1812, si adduce sempre come causa fondamentale di essa la politica francese del Blocco continentale e la divergenza di interessi riguardo all’assetto dell’Europa centrale; ma non si evidenzia quasi mai il fatto che lo zar Alessandro coltivava grandi sogni di espansione verso l’Europa (come si era già visto nella guerra della Terza coalizione, culminata nella battaglia di Austerlitz) e che, anche senza la questione del Blocco continentale, che danneggiava effettivamente l’economia russa mentre non era sufficiente per indebolire in modo decisivo quella inglese, lo scontro tra la Russia e la Francia era solo questione di tempo. L’alleanza temporanea fra i due imperatori non era che un espediente per guadagnare tempo, per l’uno e per l’altro; così come l’alleanza fra Hitler e Stalin lo fu nell’agosto de 1939. Anche in quest’ultimo caso, uno storico spassionato avrà pochi dubbi che, se le armate tedesche non avessero invaso l’Unione Sovietica nel giugno del 1941, quasi certamente sarebbero stati i Sovietici ad attaccare la Germania, non appena questa si fosse trovata nuovamente impegnata sul fronte occidentale, così come era accaduto nella prima guerra mondiale. Stalin aspettava l’occasione buona per colpire l’”amico” dittatore tedesco, così come Alessandro I spiava il momento favorevole per colpire l’”alleato” imperatore francese. L’andamento disastroso, per la Francia napoleonica, della guerra di Spagna, in cui gli Inglesi mostrarono di saper sconfiggere le armate francesi quando lo stesso Napoleone era al culmine della propria potenza, era stato un segnale rivelatore. A partire da quel momento, Napoleone sapeva che doveva attaccare la Russia, prima che la Russia attaccasse lui: era il solo modo per spezzare la “spada continentale” della Gran Bretagna, l’ultima che fosse rimasta a quest’ultima, dopo che sia la Prussia, sia l’Austria, erano state messe fuori gioco.

Ha osservato lo storico Dominic Lieven nel suo pregevole studio «La tragedia di Napoleone in Russia» (ma il  titolo originale è molto più esplicito: «Russia against Napoleon»; traduzione dall’inglese di L. A. Dalla Fontana, Milano, Mondadori, 2010, pp. 104-05):

 

«I principali rivali di Napoleone, Russia e Gran Bretagna, non erano pacifici Stati democratici desiderosi di starsene a casa a coltivare il proprio orticello, erano anch’essi imperi espansionistici e rapaci. Molte delle critiche rivolte alla Francia di Napoleone potevano valere anche per il modo in cui la Gran Bretagna si imponeva sull’India in quello stesso periodo. Si potrebbero citare per esempio il fato che i governatori britannici del subcontinente asiatico riportavano in patria le ricchezze indiane e le ripercussioni per l’industria locale dall’inglobamento dell’India nell’impero britannico  alle condizioni dettate da Londra. Inoltre, tra il 1793 e il 1815 l’espansione territoriale britannica in India aveva come principale elemento trainante un esercito plasmato sui modelli europei, formidabile ma molto oneroso, che doveva conquistare nuovi territori per giustificare la propria esistenza e pagarsi le spese, e che per finanziarsi si dedicava al saccheggio. Soprattutto sotto Richard Wellesley, l’espansione territoriale britannica fu perseguita con una determinazione degna di Napoleone, e giustificata anche con la necessità di proteggere la posizione britannica in India contro la minaccia francese.

Però il punto fondamentale è che risultava assai più difficile creare un impero in Europa anziché oltremare, anche per motivi ideologici. Infatti all’interno dell’Europa la rivoluzione francese aveva esaltato concetti come nazione e sovranità popolare, che in linea di principio erano l’antitesi dell’impero. L’esperienza politica e militare delle guerre napoleoniche non valse certo a legittimare tra gli europei l’idea di un impero in Europa. Nel frattempo, invece, in generale l’opinione pubblica europea era diventata più incline di prima ad accettare l’idea della missione civilizzatrice dell’Europa e della sua intrinseca superiorità culturale rispetto al resto del mondo. I francesi, con buone ragioni, si consideravano i campioni della civiltà europea e ritenevano la periferia orientale del continente particolarmente “semiasiatica”, ma certo non avrebbero applicato agli europei la concezione di un alto funzionario britannico riguardo alla “perversità e depravazione dei nativi dell’India in generale”. E se lo avessero fatto, sarebbero riusciti a convincere ben pochi europei.

Più importante nell’immediato era che i britannici fossero gli eredi dei Moghul. L’impero non era certo una novità in India, e i regimi rovesciati dagli inglesi spesso non erano molto antichi o radicati nei loro territori. Nonostante quanto affermato in seguito dai creatori di miti nazionalistici, nemmeno in Europa Napoleone di solito si trovava di fronte nazioni nel pieno senso moderno del termine, ma molti regimi che affrontò erano profondamente radicati nelle loro comunità. I governanti erano legati ai governati dalla storia e dai miti antichi, dalla religione comune e dalla cultura locale.

Ma soprattutto, la geopolitica dell’Europa era diversa. I commenti del generale Levin von Benningsen vanno al nocciolo dell’invulnerabilità geopolitica degli inglesi in India. Un futuro imperatore europeo doveva affrontare un compito molto più difficile, poiché chi avesse tentato di dominare il continente si sarebbe ritrovato contro una coalizione di grandi potenze con l’obiettivo comune di salvaguardare la propria indipendenza e con macchine militari perfezionate da secoli di guerre, all’avanguardia in materia di tecnologia e di organizzazione. Anche se, come accaduto con Napoleone, il futuro imperatore fosse riuscito a conquistare i territori centrali del continente, avrebbe dovuto ancora affrontare due formidabili potenze periferiche, la Gran Bretagna e la Russia. E non è tutto: per conquistare queste periferie, bisognava mobilitare nello stesso tempo due diversi tipi di potere: nel caso britannico la potenza marittima, nel caso russo una potenza logistico-militare sufficiente a penetrare fino agli Urali e ad approvvigionare l’esercito fino a quando non fosse giunto a destinazione. Questa impresa, in seguito affrontata dai tedeschi nel Novecento, era difficilissima.»

 

Riassumendo.

Nell’Europa al principio del XIX secolo (ma la situazione rimarrà inalterata fino al 1945) esistevano due potenze periferiche pressoché inattaccabili:la Gran Bretagna e la Russia; l’una protetta dalla sua posizione insulare e da un potere navale che non temeva rivali, l’altra protetta dai suoi immensi spazi, dal clima e dalla disponibilità quasi inesauribile di uomini e di tempo (il che le consentiva una strategia militare di logoramento, mentre un suo eventuale aggressore doveva cercare di batterla in tempi assai brevi, anche per non dover affrontare l’inverno). In altre parole, la Gran Bretagna e la Russia non avevano bisogno di invadere il cuore del continente, o, almeno, non erano costrette a basare tutta la loro strategia militare su di una tale operazione: alla prima bastava imporre il blocco marittimo e strangolarne i commerci; alla seconda, bastava attendere e spiare l’occasione propizia per avanzare, allorché il suo diretto antagonista si fosse trovato impegnato a fondo contro la Gran Bretagna (per esempio in Spagna, come accadde con la Campagna peninsulare di Wellington contro i francesi). Sia la Gran Bretagna che la Russia, inoltre, potevano attingere a sempre nuove risorse, umane e materiali, dai loro rispettivi imperi extra-europei: dal suo impero coloniale, e particolarmente dall’India, la Gran Bretagna; dalla Siberia, dall’Asia centrale e dal Caucaso, la Russia. La potenza egemone nel centro dell’Europa non sarebbe mai stata in grado di colpire questi centri strategici, a causa della loro vastità, della loro distanza e della mancanza di una flotta adeguata; la spedizione di Napoleone in Egitto e in Siria lo aveva dimostrato “ad abundantiam”.

La Francia, nel dal 1792 al 1815, si trovò a svolgere il ruolo di potenza imperiale, o di aspirante potenza imperiale, nel centro del continente; lo stesso ruolo tenterà di svolgerlo la Germania fra il 1870 e il 1945 (con la tregua del 1919-1939). Ma costruire un impero continentale, capace di reggere il confronto con l’impero britannico e con l’impero russo, presentava problemi enormi, molto più ardui di quelli che la Gran Bretagna e la Russia avevano dovuto affrontare per costruire i propri. La Gran Bretagna, fuori d’Europa, aveva dovuto affrontare popolazioni inermi (come gli aborigeni australiani), oppure bellicose, ma tecnologicamente arretrate e poco numerose (come i nativi nordamericani), oppure ancora dei potentati orientali dalla scarsa efficienza amministrativa, economica e militare (come gli staterelli del subcontinente indiano, eredi dell’impero Moghul). La Russia non aveva dovuto fare altro che puntare sempre più avanti, al di là degli Urali: dalla distruzione del khanato di Siberia, fino alle coste dell’Oceano Pacifico, praticamente non aveva incontrato alcun ostacolo serio, tanto da poter imporre al lontanissimo impero cinese, con il trattato di Nercinsk, una frontiera comune che arrivava al fiume Ussuri e che inglobava la zona del Bajkal nella sfera del proprio dominio.

Tanto la Francia di Napoleone, dunque, come la Germania di Hitler, si trovavano “costrette” (ci si passi l’espressione, assolutamente impropria, ma coerente con la logica imperiale allora dominante non solo in quei due Paesi, ma in tutta Europa e anche fuori di essa) a creare un impero europeo che le proteggesse dallo strapotere britannico e dalla sempre incombente minaccia russa; che non dovesse, cioè, soggiacere né alla finanza e all’industria inglesi, subendone le imposizioni e i ricatti, né al timore di una aggressione russa, che avrebbe potuto verificarsi in qualunque momento si fossero trovate impegnate a difendere le proprie frontiere occidentali. Ma costruire un impero europeo, cosa mai più tentata dai lontani tempi di Carlo V (e già all’epoca di Carlo V la cosa era apparsa un evidente anacronismo), significava suscitare la diffidenza o l’aperta ostilità di tutte le potenze europee e specialmente quelle medie, gelose della propria indipendenza. Anche presso gli altri popoli, compresi quelli che non possedevano un proprio stato nazionale, sarebbe stata cosa estremamente difficile convincerli a collaborare ad un progetto imperiale europeo, perché, a partire dalla rivoluzione francese, il sentimento nazionale era ormai divenuto parte integrante della cultura e della psicologia dei popoli dell’Europa (con l’eccezione, agli inizi del XIX secolo, dei “popoli senza storia”, come lo sloveno o il ruteno) e qualsiasi tentativo egemonico di una potenza europea sarebbe apparso come un intollerabile tentativo di sottometterli e di piegarli alla logica di interessi economici e politici ad essi estranei.

Ne consegue che, mentre la Gran Bretagna e la Russia potevano tranquillamente perseguire una politica imperialista sempre più spinta, senza suscitare le proteste o le resistenze degli altri Stati europei (con la parziale eccezione dei piccoli Stati posti al confine occidentale della Russia), e anzi presentandosi come i campioni della pace e della tranquillità dell’Europa (specialmente la Gran Bretagna, che non vi aveva specifici interessi territoriali), una potenza continentale come la Francia – nel XIX secolo – o la Germania – nel XX – non poteva non manifestarsi apertamente come nemica della pace e della sicurezza europea e, al massimo, poteva contare sulla benevola neutralità, o sulla tiepida amicizia, di quei popoli e di quegli Stati dell’Europa centro-orientale che si fossero sentiti minacciati dalla Russia. Ecco perché la responsabilità delle guerre napoleoniche viene addebitata, generalmente, quasi solo alla Francia, mentre la responsabilità della seconda guerra mondiale viene addossata alla sola Germania. Ma si tratta di un giudizio molto superficiale, di carattere emotivo più che storico: alo sguardo attento dello storico, infatti, non sfugge il fatto che lo scatenamento di una guerra nasce non solo dalle ambizioni imperiali di una potenza continentale che imperiale non lo è per “natura”, ma anche dalla volontà di conservare il proprio potere imperiale da parte di quelle nazioni che hanno già raggiunto, favorite dalla loro posizione geografica o da altri fattori strategici, una posizione di assoluta preminenza a livello mondiale e che, per mantenerlo, non esitano a presentarsi agli altri popoli come unicamente interessate a difendere la sicurezza e la pace del mondo. Questo ruolo, nella prima e nella seconda guerra mondiale, è stato svolto anche, e in misura decisiva, dagli Stati Uniti d’America: una potenza imperiale europea trapiantata oltre Atlantico, nata da una costola dell’immenso, tentacolare impero britannico.

Napoleone, nel 1812, non mirava affatto a conquistare la Russia, ma solo a costringerla a riconoscere il suo potere imperiale nel centro dell’Europa e a dividerla definitivamente dalla Gran Bretagna. Hitler, nel 1941, adottò una diversa strategia: cercò effettivamente di conquistare la Russia (fino agli Urali), allo scopo di creare un impero europeo che non dovesse mai più guardarsi dalla minaccia russa e potesse fronteggiare quello britannico, pur senza disporre di una flotta capace di colpire quest’ultimo nei suoi centri vitali. Ecco perché Hitler voleva la scomparsa della Russia come potenza organizzata, mentre era dispostissimo ad un accomodamento con la Gran Bretagna, sulla base del riconoscimento dei rispettivi imperi.

Ma, a parte una serie di errori militari e anche politici (fra questi ultimi, l’incapacità, anzi, la non volontà di fare leva sui sentimenti antisovietici del popolo russo, di quello ucraino e delle altre nazionalità minori dell’U.R.S.S.), Hitler non comprese che la padronanza dei mari, da parte della Gran Bretagna, non poteva essere in alcun modo “compensata” dalla costruzione un grande impero continentale europeo, perché, in una guerra mondiale, vince alla fine chi ha il dominio dei mari, non chi ha occupato il centro dell’Europa (e lo si era già visto nel 1914-18). Inoltre gettò letteralmente l’Unione Sovietica nelle braccia della Gran Bretagna, e, per soprammercato, dichiarò guerra agli Stati Uniti, quando questi erano stati attaccati dal solo Giappone e nulla lo obbligava a schierarsi al fianco di quest’ultimo. La saldatura dei tre imperi, il britannico, il sovietico e l’americano, contro il Tripartito, segnò l’esito inevitabile della seconda guerra mondiale.

Che i popoli dell’Europa, ancora oggi, continuino a salutare l’anniversario dello sbarco alleato in Normandia come la “liberazione” del continente, mentre non fu che il passaggio a una diversa soggezione imperiale (nella forma del condominio anglo-americano-sovietico), è altra questione: che richiederebbe un minimo di riflessione critica. Perché chi non ha  capito nulla né delle guerre napoleoniche, né delle due guerre mondiali, difficilmente potrà capire quale sia la giusta politica verso cui l’Europa dovrebbe indirizzare i suoi sforzi nel tempo presente, davanti alle sfide della globalizzazione.