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Globalizzazione: come i monopoli

di Redazione - 27/09/2006



La globalizzazione avanza: il grande sacco continua. Un recente rapporto dell’Executive Intelligence Review mette in luce come i settori sempre più grandi dell’agricoltura, dell’industria, dell’energia e delle materie prime, come anche capitoli essenziali della sovranità nazionale come la difesa, la sanità e i trasporti continuano a essere “fagocitati dai monopoli privati”.
La globalizzazione, a suon di liberalizzazioni e privatizzazioni condite da megafusioni, procede dunque a tutta forza, “sottraendo agli Stati nazionali la loro base produttiva”. Le dimensioni del controllo sono immense e comprendono i settori più importanti: “acciaio, auto, rame, cereali e alimentari, acqua, le infrastrutture e i servizi del governo che cadono sotto la privatizzazione”.
L’effetto è sentito dalla popolazione nell’inflazione dei prezzi, a cominciare da quelli petroliferi. A giugno le cinque principali imprese petrolifere - BP Plc, Chevron Corp., ConocoPhillips, ExxonMobil Corp., e Royal Dutch Shell Plc - hanno annunciato che i loro profitti cumulativi ammontano a 34,6 miliardi di dollari per il solo secondo semestre del 2006, con un aumento del 36% rispetto allo stesso periodo del 2005.
Lo studio dell’Executive Intelligence Review punta la lenti d’ingrandimento sul settore siderurgico: al vertice del cartello dell’acciaio c'è Lakshmi Mittal della Mittal Steel, finanziato dalla Goldman Sachs. Eh sì, la solita banca d’affari della quale è (stato?) consulente Romano Prodi. Come è noto, a fine giugno Mittal ha raggiunto un accordo preliminare per l’acquisto della lussemburghese Arcelor, la più grande impresa siderurgica europea. Nel 2005 la Mittal ha prodotto 63 milioni di tonnellate di acciaio e la Arcelor 46,7. Di conseguenza, ormai ottenuto il via libera alla fusione dalla commissione europea, la Arcelor-Mittal supererà ampiamente la soglia dei 100 milioni di tonnellate, cioè circa un decimo della produzione siderurgica mondiale.
Come riporta ancora l’Eir, lo scorso 3 agosto il Wall Street Journal ha pubblicato un commento, intitolato “Big Steel”, in cui lo stesso Lakshmi Mittal dà gli ordini di marcia sul come procedere alla cartellizzazione chiamata “consolidamento”. L’acquisizione di Arcelor da parte di Mittal, dice, indica “i benefici del consolidamento e della globalizzazione”. Ricorda di aver lanciato il primo appello al consolidamento nel 1998, quando l'industria siderurgica era composta da industrie più piccole “ed era ancora altamente nazionalizzata”. Ma negli ultimi otto anni “E’ avvenuto un consolidamento notevole, soprattutto in Europa, negli USA e in Giappone. Sono state create diverse multinazionali”. Così Mittal ha previsto che in meno di dieci anni il settore sarà composto da giganti che producono ciascuno dai 150 ai 200 milioni di tonnellate l’anno, con il chiaro risultato che le imprese medie e piccole, che compongono l’ossatura dell’industria nazionale, saranno o fagocitate o schiacciate.
Questo conduce - afferma l’Eir - all’essenza del problema. La siderurgia mondiale si può considerare ripartita in due grandi sfere. La prima, che è in crescita, è quella di Cina ed India. La Cina ha prodotto 349 milioni di tonnellate d’acciaio nel 2005, tre volte di più degli USA. Nella seconda sfera ci sono le industrie delle nazioni ex industriali, e qualcuna del settore in via di sviluppo. Tra il 1990 e il 2005 la produzione mondiale è complessivamente aumentata da 733 a 1.106 milioni di tonnellate.
L’aumento di 374 milioni di tonnellate è per i quattro quinti dovuto a Cina e India. Senza questi due, e senza alcuni altri paesi in via di sviluppo anch’essi principalmente asiatici, la produzione dell’acciaio negli ultimi quindici anni sarebbe in effetti diminuita.
Le fusioni e le scalate hanno interessato soprattutto i paesi ex industriali, dove la produzione è in fase di contrazione, e in alcune nazioni in via di sviluppo. Per avere un quadro più accurato del processo di cartellizzazione conviene escludere dai conti la Cina. Nel 1995 le principali 15 imprese mondiali producevano il 29% dell'acciaio grezzo (produzione cinese esclusa); nel 2005 le principali 15 imprese del settore hanno prodotto il 47,5%. Nel giro di dieci anni la loro fetta è passata da meno di un terzo a quasi la metà del totale mondiale (Cina esclusa).
I tre cartelli principali sono la MittalArcelor, la Corus (nata dalla fusione delle maggiori imprese anglo-olandesi nel 1999) e la US Steel.
Intanto questi pirati puntano i loro occhi famelici sulla Cina, dove il mercato dell’acciaio è in espansione. I cinesi si preoccupano: la branca di New York del gruppo Lazard Frères, impegnata nelle fusioni del settore, ha aperto un ufficio in Cina per prepararsi a gestire le scalate alle imprese del settore.
Il processo di fusioni e scalate ostili cominciò negli anni Ottanta guadagnando sempre più vigore dal 1992.
Ad esempio: tra il 2001 ed il 2005, il banchiere Wilbur Ross della Rothschild, senza disporre di alcuna esperienza nel settore siderurgico, ha costruito l'International Steel Group (ISG), che oggi vanta una capacità di 16 milioni di tonnellate. L’impero, nato dal nulla, è cresciuto rilevando imprese fallite come la Bethlehem Steel. Ross è inoltre impegnato a devastare l’industria dell’auto.
Anche Mittal ha costruito il suo impero partendo da una produzione inferiore a 2,5 milioni di tonnellate, nel 1992, per arrivare a produrne oggi 67 milioni grazie alle imprese rilevate.
Per quel che concerne il settore auto, lo studio mette in rilievo che nel 2005 sono stati prodotti 65,319 milioni di veicoli a motore. Di questi, 40,531 milioni sono stati prodotti da General Motors, Toyota, Ford, RenaultNissan, Volkswagen, e DaimlerChrysler su un totale di circa 40 imprese in tutto il mondo. In passato le imprese erano più numerose ed erano considerate parte del capitale nazionale (in alcuni casi erano anche di proprietà pubblica).
Negli ultimi 10-15 anni le prime sei hanno seguito freneticamente la strada delle scalate, sbarazzandosi via via di maestranze specializzate, impianti e capacità produttive. Una gran parte delle industrie svedesi, ceche, inglesi e australiane sono state fagocitate dalle sei grandi, com'è anche accaduto in misura minore anche ad imprese in Giappone, Corea del Sud, Spagna, Germania e Stati Uniti.
L’impresa Proton della Malaysia, sempre protetta dal governo come capitale nazionale, adesso è minacciata dai globalizzatori, che possono importare nel paese duty-free.
Su questo processo di cartellizzazione, aleggia la Lazard Frères, nel ruolo di advisor e consulente. Francois de Combret, direttore dell’ufficio parigino di Lazard, gestì nel 1995 le manovre che condussero alla privatizzazione della Renault. Nel 1999 la Lazard spinse la Renault a diventare azionista di maggioranza relativa della Nissan, prima con una quota del 37% e poi del 44%.
Recentemente due delle sei grandi - General Motors (con il 14% è al primo posto della produzione mondiale) e RenaultNissan (al quarto con il 9,5%) - hanno intavolato le trattative di una fusione, per dare vita ad una mega-impresa. A combinare il matrimonio è sempre Lazard. Nel 2005 Felix Rohatyn e la sua banca Lazard furono consulenti di Delphi, la costola di GM che produce i componenti, costretta ad un feroce ridimensionamento dopo la bancarotta dell’ottobre 2005. A luglio Delphi ha ingaggiato la Rothschild Inc. - in cui Rohatyn figura tra i direttori - per avere consiglio su come liquidare i suoi 23 impianti dell'auto negli USA.
Altro settore dello studio è quello delle materie prime, come il rame:
L’industria dell’estrazione e raffinazione del rame va incontro ad una probabile mega-fusione, un cartello che controllerebbe il 25% della produzione mondiale. Da circa un decennio si susseguono fusioni e rialzo dei prezzi e da tale processo sono emersi cinque grandi produttori che controllano il 56% del mercato mondiale: Codelco (Cile), Grupo Mexico, Phelps Dodge (Arizona), BHP Billiton (con centro in Australia e vicina alla Corona inglese; insieme alla gemella Rio Tinto controlla anche la metà dei minerali di ferro) e Broken Hill Mining (Australia).
Nell’ultimo decennio l’industria del rame è stata interessata da almeno una fusione l’anno e da qualche mese al centro del parapiglia delle fusioni spicca la Phelps Dodge, impresa con una forte presenza inglese: 8,8% della Barclays Bank e 6,1% di Atticus Partner del barone Nathan Rothschld. In Canada la Inco ha iniziato a marzo la sua scalata alla Falconbridge, che aveva appena acquisito la Noranda.
La Phelps Dodge si preparava ad inglobare l'intero settore canadese che ne risultava. A luglio sembrava che il principale gruppo di azionisti di Noranda/Falconbridge fosse intenzionato a vendere alla svizzera Xstrate Minerals Corp. e lasciare la Phelps Dodge per dare la scalata alla Inco. A quest’ultima era comunque interessata anche la Tiek-Cominco. Alla fine di luglio però la Grupo Mexico ha ingaggiato advisors americani per dare la scalata a Phelps Dodge: la numero tre cerca di acquisire la numero due. Ad agosto si è poi prospettata un’entrata in scena della Rio Tinto e della CVRD brasiliana che potrebbe segnare una fase decisiva della cartellizzazione.
Ne dovrebbe emergere un mostro di dimensioni emisferiche forse capace di controllare un quarto o più dell’estrazione mineraria del rame e di creare una situazione in cui quattro gruppi controllerebbero il 60% del mercato mondiale.
Il processo è dominato da tre caratteristiche: la produzione del rame si è concentrata soprattutto in Cile, dall'inizio dell'era Pinochet; dallo scorso decennio la produzione mondiale è stagnante; i prezzi sono stati spinti alle stelle come conseguenza dei costi finanziari di fusioni e scalate.
Il Cile copre ormai il 37% della produzione mondiale, poiché la globalizzazione punta tutto sui bassi salari. Pur tenendo conto delle differenze di specializzazione, un minatore cileno con regolare contratto sindacale guadagna meno della metà del suo collega in Arizona, ma le miniere cilene sono piene di cottimanti che guadagnano meno della metà dei regolari. Per Pinochet la cessione delle miniere di rame ai monopoli rappresentò il modo di risovere il problema del debito, nella strategia allora caldeggiata da Henry Kissinger di “cessione di materie prime per ridurre i debiti”. I primi cinque produttori mondiali controllano attualmente il 90% della produzione cilena.
L’aumento della produzione di rame è sceso al 2,2% negli anni novanta e al 2% in questo decennio. Nel 2005 si è verificata una diminuzione dell'estrazione e nel 2006 si torna ai livelli del 2004. Dal 2000 il prezzo del rame è aumentato di oltre 4 volte, passando da 1.800 dollari a 7.500 dollari la tonnellata. Fino al 2010 gli esperti non prevedono nessuna espansione della produzione, che negli USA è stagnante ormai da trent'anni. Stando allo studio dell’Eir, gli effetti della concentrazione delle imprese comportano rallentamenti della produzione e una maggiore suscettibilità alla speculazione sui futures. Un esempio: le misure che passano sotto il nome di “disciplina dei produttori”, che consistono nell’abbandono delle miniere e riduzione dell’estrazione, hanno comportato nel 2002 una riduzione di 470 mila tonnellate, diventate 600 mila tonnellate nei due anni seguenti e 740 mila nel 2005. L'utilizzo della capacità estrattiva-produttiva è scesa dal 93% all'85% tra il 2000 ed il 2005.
I debiti contratti nelle scalate erano centinaia di milioni alla fine degli anni Novanta, sono saliti a qualche miliardo all'inizio del decennio ed oggi hanno raggiunto una cifra tra i 10 ed i 20 miliardi di dollari. Le imprese si sono ingradite, ma le banche e gli azionisti esigono una parte sempre più grossa. A soffrirne è la produzione reale del rame.
Altro aspetto allarmante della globalizzazione è il cartello alimentare: il commercio della produzione agricola, e la produzione e distribuzione alimentare, sono notoriamente monopolizzati da un gruppo ristretto di corporation sovrannazionali che controllano tutto a partire dalle sementi.
La Cargill, multinazionale con centro in Minnesota, e la Archer Daniels Midland (ADM) controllano il 75% dei 244 milioni di tonnellate di granaglie che rappresentano il volume medio annualmente scambiato tra le nazioni. Più della metà del totale è controllato da Cargill. Quest'ultima, insieme a ADM e a Bunge, controlla il 70% della soia trattata in Brasile e Argentina. Cargill/Monsanto e DuPont/Pioneer Hig-Bred sono al centro del giro che controlla strettamente le sementi. Il mercato delle carni è dominato da Cargill insieme a Smithfield, Swift/ConAgra, Tyson e Pilgrim's Pride, con una quota che va dal 60 all'80 per cento nei soli Stati Uniti. L'industria casearia è controllata da Unilever, Nestlé, Kraft e Danone. Nella distribuzione alimentare dominano Wal-Mart e la francese Carrefour, affermatasi soprattutto in Brasile e Argentina.
Lo studio dell’Eir dedica un ampio capitolo anche alle risorse idriche. “Far soldi sulla sete - la domanda globale di acqua potabile attrae imprese grandi e piccole” è il titolo di un articolo di prima pagina della sezione economica del New York Times del 10 agosto 2006. “Quello dell’acqua è un settore in cui la crescita appare ora illimitata”, commentano dalla Goldman Sachs, banca impegnata nella privatizzazione dell’acqua in Spagna, Cina e Cile. Negli Stati Uniti gli esperti stimano che il 15-20% dei sistemi idrici che gestiscono acqua potabile e acque reflue sono di proprietà o affidati ad operatori privati. Secondo un analista il mercato dell’acqua negli USA “avrà un valore di 150 miliardi di dollari nel 2010”. Siccità occasionali, infrastrutture cadenti e gli standard imposti dall’autorità ecologica EPA alimentano il rialzo dei prezzi.
I big dell’industria dell’acqua sono la Energy Financial Services della General Electric, Siemens, Danaher e ITT. Fanno “acquisti frenetici”, provocando il “consolidamento” di un settore in cui attualmente nessuna impresa ha più del 5% del mercato.
L’articolo survola sui progetti di Suez, Veolia e RWW-Thames, anch’esse impegnate nel settore, forse perché fanno capo all’ambiente di Rohatyn. Spiega che, secondo i dati dell’ONU, nel 2025 circa 5 miliardi su 7,9 abitanti della terra non disporranno di acqua sufficientemente pulita. Questo non è detto per presentare un problema, ma per indicare una fonte sicura di profitto.
“La dissalazione richiede sempre troppi investimenti e troppa energia”, per questo motivo la Siemens, insieme alla israeliana Mekerot, preferisce dedicarsi “al riutilizzo della poca acqua disponibile”. Un’impresa del South Carolina invece pianifica di far soldi caricando di acqua le petroliere nel viaggio di ritorno in Medio Oriente.

La Reason Foundation,
la vestale delle privatizzazion

Migliaia e migliaia di comuni e amministrazioni locali e statali fanno a gara nel cedere la proprietà o dare in concessione le opere pubbliche, dalla distribuzione idrica alle autostrade, dall’elettricità agli ospedali ecc., e privatizzare attività di governo, dalle pratiche burocratiche alle prigioni, compresi importanti aspetti della difesa.
Questo processo - rivela l’Eir - è scrupolosamente documentato dalla Reason Foundation, che fu allestita nel 1978 per promuovere e monitorare lo smantellamento dei governi. La Reason Foundation produce e mette al disposizione del pubblico rapporti sull'andamento delle privatizzazioni. Da quello del 2006, diffuso a luglio, si apprende quanto segue:

Trasporti

40 nazioni hanno privatizzato il proprio sistema di traffico aereo, a cominciare dalla Nuova Zelanda nel 1987. Sono più di 100 gli aereoporti grandi e medi di proprietà di imprese commerciali o da esse gestiti. Negli USA sono quelli di Indianapolis, Orlando-Sanford in Florida e Burbank in California. In Europa Bristol e Luton in Inghlterra, Lubecca, Francoforte e altri in Germania, Copenhagen in Danimarca. L'aeroporto di Sydney in Australia. In Messico sono tre gli aeroporti privatizzati.

Servizi municipali.

La città media americana ha privatizzato dal 23 al 65 per cento delle funzioni, che vanno dalla raccolta dei rifiuti alla manutenzione delle strade, alla raccolta e depurazione delle acque reflue, ecc. Sono circa 1000 le città che hanno privatizzato completamente o in parte i sistemi idrici. In Inghilterra, dagli anni Novanta ad oggi, sono stati ceduti ai privati 130 ospedali e più di 100 scuole.
In 120 nazioni in via di sviluppo, tra il 1990 ed il 2003, sono avvenute 7860 operazioni di privatizzazione di tutti i tipi, un volume complessivo pari a 410 miliardi di dollari, secondo le stime della Banca Mondiale, impegnata in prima fila a caldeggiare le svendite. In India sono state approvate privatizzazioni stimate sui 30 miliardi di dollari.
Il trucco è evidente: costringere a rinunciare alla sovranità per un pugno di dollari subito. A gestire questo traffico si distinguono Lazard, Lehman Brothers, Goldman Sachs, Macquarie, Suez, Veolia, BeCintra e Halliburton. Gli hedge funds prendono posizione per rastrellare pedaggi, bollette, ecc.

Ampio spazio viene dedicato ai pedaggi autostradali, che “rappresentano il boccone più ghiotto delle privatizzioni infrastrutturali”. Nell'America Settentrionale, tra il 2005 e il 2006 sono state cedute, per periodi che si estendono dai 50 ai 99 anni, autostrade a Chicago (Skyway), nell'Indiana settentrionale e la Dulles Greenway che dall'aeroporto della capitale porta a Leesburg in Virginia. La gestione è stata rilevata da consorzi in cui è presente Macquarie Infrastructure, proprietario del Tunnel Detroit-Windsor.
Il fenomeno è ancora più forte in Europa, dove nel 2005 sono state venduti 4.360 chilometri di autostrade. Macquarie è entrato in un consorzio che intende rilevare il canale sotto la Manica, attualmente gestito da una venture anglo-francese.
Ad aprile la spagnola Abertis ha offerto 17 miliardi di dollari per l'acquisto di Autostrade in Italia, nella prospettiva di costituire quello che si prospetta come il più grande gestore mondiale di autostrade. In Brasile 36 gruppi di gestori privati controllano oltre 9000 chilometri di autostrade.

L'era Thatcher

Il grosso delle privatizzazioni risale agli anni Ottanta, all’era Thatcher-Reagan. Sotto la Thatcher (1979-1990) il governo inglese liquidò imprese e partecipazioni statali nella siderurgia, nel carbone, nei trasporti aerei e ferroviari, nell'auto, nelle strutture portuali, nell'elettricità, gas, acqua. Come risultato furono eliminate migliaia di posti di lavoro. La deregulation fu così radicale da provocare, nel settore dell'allevamento, la BSE o “mucca pazza”, come conseguenza dell'abolizione di norme igienico-sanitarie nella preparazione dei mangimi.
Negli Stati Uniti i colpi più grossi al patrimonio dello stato furono inflitti con l'ordine esecutivo 12607 di Reagan, per la costituzione della Commissione per le Privatizzazioni. Un fenomeno raccapricciante fu la privatizzazione delle prigioni, trasformate in campi di lavoro privato.

Halliburton

Nel 1992 Bush senior firmò un nuovo ordine esecutivo, 12803, per una “Iniziativa per le privatizzazioni”. In tale contesto Dick Cheney, allora segretario alla Difesa, commissionò alla Halliburton uno studio per privatizzare aspetti della difesa. Il rapporto, che è ancora coperto dal segreto, fu allora considerato troppo radicale. Oggi invece si vede applicato almeno in parte nella proliferazione delle PMCs (Private Military Corporations) che sguazzano nella cuccagna dell'Iraq. Allora, 18 mesi dopo aver lasciato il Pentagono, Cheney passò al vertice di Halliburton.
Capitali di importanza strategica liquidati dagli USA negli anni Novanta comprendono le riserve petrolifere californiane di Elk Hills, e la U.S. Enrichment Corp.

PPP

La versione “democratica” di questa svendita generalizzata portava allora il nome in codice “reinvertare il governo”, sbandierato dal candidato presidente Al Gore. Oggi invece, sotto “l'amministrazione Rohatyn”, si preferisce usare un altro nome: “Public-Private Partnership” (PPP). In teoria sarebbe un modo di mettere insieme l'impresa pubblica e quella privata, nel contesto del project financing, per realizzare le infrastrutture. In realtà la Public Private Partnership si rivela lo strumento per acquisire il controllo sulle infrastrutture pubbliche. Per avere un'idea basta dare un'occhiata al sito del “National Council for Public-Private Partnership” (
http://ncppp.org). Vi aderiscono imprese globaliste febbrilmente impegnate ad acquistare porti, autostrade, acqua, servizi urbani, ecc. Ci sono Bechtel, lMorgan Stanley e Macquarie.
Da qualche anno Rohatyn ed i suoi preferiscono usare il termine “Public-Private Partnership” al posto di “privatizzazioni”. Il banchiere di Lazard cominciò a promuovere le PPP nel 2004 istituendo appositamente la Public Infrastructure Commission, in seno al Center for Strategic and International Studies. Da allora sono 22 gli stati americani che hanno cambiato le leggi per consentire alle PPP di operare sul proprio territorio. Dal 2000 il NCPPP è impegnato ad esercitare pressioni debite e indebite sui politici locali affinché modifichino le leggi, in maniera da consentire che si svendano le infrastrutture, soprattutto ad investitori stranieri.
Attualmente le PPP puntano all'acquisto di 18 grandi sistemi autostradali negli USA, per un importo complessivo di 25 miliardi di dollari.
In un comunicato della Lazard si legge: “Le proprietà infrastrutturali sono i sistemi fisici di base che occorrono al funzionamento di un paese o di una comunità; comprendono le utilities, le strade, gli aeroporti, i porti, le ferrovie ed i sistemi di comunicazione. Storicamente un'ampia componente delle infrastrutture globali è stata realizzata e posseduta dai governi, ma si afferma sempre di più la tendenza alla proprietà privata, quotata e non in borsa. Le proprietà infrastrutturali possono avere allettanti caratteristiche d'investimento, che vanno dalla lunga durata ai bassi rischi di perdita, al reddito legato all'inflazione…”
Lo studio che abbiamo pubblicato è stato realizzato da Richard Freeman, Marcia Merry Backe e Paul Gallager e pubblicato sull’Eir dello scorso 11 agosto.