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Elogio dell'influenza

di Geminello Alvi - 25/10/2005

Fonte: www.repubblica.it

Gli Aborigeni sono
per gli standard contemporanei materialmente poveri,
ma nella dimensione del tempo
dobbiamo considerarli più ricchi di noi
J. Hobday

 

 
Con esecrabile efficienza, un’affascinante fanciulla decanta nello spot televisivo le mirabilie di una nuova pillola antinfluenzale, elencando terroristicamente le conseguenze di una settimana di malattia: affari persi, cene svanite, occasioni rinunciate. Quando invece di tutti i mali che avvicinano gli umani alla unica certezza della vita, la morte, l’influenza è il più confortevole. Dona ai medici una scusa per dare un nome tranquillizzante a tutte le malattie che non sanno; ai malati il privilegio d’essere malati, senza preoccuparsene soverchiamente.

Male non grave, anzi elegante persino nel nome che sta per scorrimento e flusso in latino medievale, l’influenza avvolge in un malessere acqueo e rigonfio, caldiccio sì ma che non dura e che poi non nuoce mai molto al corpo. E invece dona ai sentimenti il ritorno all’impotenza infantile prima e poi alla quiete inconcludente, che altro non deve fare se non perdere finalmente tempo.

Un po’ di reumatismi o mal di testa sono il minimo prezzo per ridivenire petulanti, infantili, infine rassegnati, quieti, del tutto ineconomici, in nulla vitalisti. In un’epoca economica per definizione, e in cui la ginnastica, e l’economizzazione di ogni felicità, il non avere pace, diverranno tra poco norme costituzionali, in questa epoca sciagurata l’influenza è ormai l’unico serio anticapitalismo che ci è rimasto.
Ovvio dunque che la torma di ignoranti, educatisi al vizio del lavoro, l’avversi, e poi una diseducativa réclame televisiva, elenchi le cose tutte sciocche, e trite che possono farsi, se soltanto con una pillola si evita l’influenza. E i più, tanto pervertiti da considerare ormai norma di salute un pensiero sovraeccitato, sempre ansioso e che genera fretta, magari ci credono pure, giudicando sensato il pregiudizio.

In anni degeneri in cui il lavoro è diventato un mezzo, che non sa più il suo fine, e viene chiamato svago un nugolo di piaceri reiterati a comando e quasi sempre peggiori di un lavoro, ora si calunnia l’influenza, unico stato in cui l’umano non nuoce a se stesso, perché grazie al cielo, non può ricercare il progresso. E deve invece preoccuparsi o meglio abbandonarsi ad un totale risanante regresso. Quindi sperimentare che inaudito privilegio siano quei due o tre giorni di attutimento; se solo non si abbia la fretta di guarire, e invece si ceda alla quiete di un esistere finalmente né vitale, né economico, né progressivo.

Per chi non soffra già, per vecchiaia, o altro male, non dovrebbe dirsi un male ma appunto influenza, e stato da elogiarsi. Come deve e può solo approvarsi l’esistere riparati, ovattati, e il bere tè bollente, il rimirare i gatti che in acrobazia saltano sopra il letto, il privilegio di non dover rispondere a tono, il poter giocare i giochi dei bambini, il disco che gira, la pancia calda, le coperte, l’eccitazione dell’aranciata, e quel libro che si rilegge sempre da capo, i peluzzi della sciarpa sotto la lingua, gli spaghetti aglio olio e peperoncino che disinfettano, la quiete ineconomica, il guardare immobili, e infine la propria menzogna: quel giorno finale in cui s’è già guariti e non lo si ammette, e ci si sente adatti nella vita solo a non fare niente.