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Intervista a Thomas Sankarà

di Claudio Moffa - 19/05/2019

Intervista a Thomas Sankarà

Fonte: Il Manifesto

Se permette, Presidente, cominciamo dalla fine. In Italia, come può immaginare, si parla poco del suo paese. E quando poi c’è, l’informazione non sembra andare tanto per il sottile, ricorda un po’ i tempi della guerra fredda. In un articolo di un quotidiano la svolta del 4 agosto viene presentata come un momento dell’“espansionismo libico” in Africa. Mi scusi allora la provocazione: lei è un agente di Gheddafi?

Inizia così la mia intervista a Thomas Sankarà, leader riconosciuto della “rivoluzione del 5 agosto”, una rivolta militare che lo scorso anno sfociò nell’esautorazione della destra dell’esercito dell’Alto Volta. Di lui stampa e riviste straniere hanno già scritto molto, eppure sono parecchi i punti poco chiari. 35 anni, il capitano Sankarà è da lungo tempo, si dice della “Lega patriottica per lo sviluppo”, un’organizzazione di massa di ispirazione marxista, a sua volta legata al comune e clandestino “Partito africano dell’indipendenza”. Jeune Afrique si è domandata se egli – come tutto il gruppo dirigente a lui legato: Compaoré, Zongho, Lingani, Pierre Ouedraogo – non sia comunista.  Liberation ha elencato come modelli di riferimento (in ordine cronologico), Nkrumah, Gheddafi, Mengistu, Rawlings. Di certo, come ha fatto notare Jean Ziegler su Le monde diplomatique di marzo, e come ho potuto verificare io stesso, nel paese sono assai influenti due organizzazioni marxiste, l’“Unione delle lotte comuniste” filocinese e appunto la “Lipad-Pai”, entrambe “civil-militari”.
La vecchia burocrazia statale e dell’esercito è stata in gran parte epurata. I nuovi ministri e i dirigenti sono quadri giovani, spesso ex studenti a Parigi negli anni Settanta. La popolazione è mobilitata su microprogetti di sviluppo attraverso migliaia di “Comitati di difesa della rivoluzione”. Per la prima volta dall’indipendenza del 1960 sono stati presi provvedimenti economici che colpiscono i ceti privilegiati urbani (burocrazia civile e militare, commercianti etc.) e che favoriscono soprattutto le campagne, dove vive il 95% della popolazione. Un a rivoluzione contadina dunque, che pure si fa scudo di un linguaggio e n bagaglio teorico marxista, per il quale ad esempio in contadini vengono classificati come “borghesia” e la classe operaia (praticamente inesistente, 10 mila unità) viene giudicata come “veramente rivoluzionaria”. Insomma una situazione ricca di elementi di studio e di verifica. Proprio per questo, e proprio perché in continuo movimento, molto interessante.
Seduto sulla sua poltrona, Thomas Sankarà accenna un sorriso alla mia domanda. Poi risponde: “Noi siamo rivoluzionari in Alto Volta. Ciò vuol dire che facciamo affidamento innanzitutto alla capacità del popolo voltaico di decidere il modello economico e l’orientamento politico necessario al suo sviluppo. Non facciamo appelli ad altri, e meno che mai a qualche potenza straniera. Rifiutiamo di dare lezioni ad altri, e di prendere lezioni da altri, che sia l’ovest o l’est, il nord o il sud, bianchi o neri. Ovviamente abbiano buoni rapporti con tutti i paesi i cui popoli sono liberi o aspirano apertamente alla libertà. Abbiamo buoni rapporti con la Libia, e li manterremo fino a che essi si fonderanno sul rispetto reciproco. Resta il fatto, certo, che la Libia non è l’Alto Volta, e l’Alto Volta non è la Libia: abbiamo delle divergenze che vogliamo risolvere amichevolmente e fraternamente.
Voglio aggiungere una cosa al proposito: per noi, per quel che riguarda i rapporti con Gheddafi, esistono tre tipi di paese. In una prima categoria ci sono quei tipi di paese che avendo ricevuto delle consegne esplicite o implicite, rifiutano ogni rapporto, anche commerciale, con la Libia. Nella seconda categoria ci sono quelli che trattano con Gheddafi, ma non hanno il coraggio di dirlo al loro popolo. Alla terza categoria infine appartengono quelli che hanno rapporti con Gheddafi, e lo dichiarano apertamente. I paesi delle prime due categorie sono in un modo o nell’altro manipolati, pedine di giochi altrui. Quelli del terzo gruppo sono paesi liberi. Noi apparteniamo a questo gruppo. Noi abbiamo rapporti con Gheddafi e siamo liberi nei suoi confronti”.

La sua risposta sembra molto pertinente al caso italiano. Passiamo ad argomenti più importanti: cos’è la rivoluzione del 4 agosto?
Molto brevemente, la rivoluzione del 4 agosto, sta facendo in modo che il popolo voltaico acquisti fiducia nella possibilità di decidere del proprio destino. L’Alto Volta ha conosciuto prima il colonialismo, poi il neocolonialismo. L’indipendenza ci è stata concessa, e come lei sa la vera indipendenza non viene donata ad altri, la si conquista. Così è accaduto che il nostro popolo ha sempre pensato fatalisticamente che il suo sviluppo dovesse venire dall’esterno, da coloro che l’avevano colonizzato e sfruttato.
Oggi non è così: la dignità del popolo voltaico è stata restaurata. Oggi il popolo si avvia ad assumere in prima persona il proprio destino, si avvia a scegliere gli obbiettivi che vuole, coni sacrifici che sono necessari allo sviuppo. La rivoluzione è questo: è la gestione dell’Alto Volta da parte dei voltaici.

Ma quali concrete misure sono state prese fino ad oggi?
La rivoluzione ha pochi mesi di vita, è solo ai primi passi. Nel discorso di orientamento politico del 2 ottobre, il manifesto programmatico della rivoluzione, abbiamo definito le grandi linee del nostro programma di lavoro: riforma agraria, riforma dell’amministrazione, riforma scolastica, modernizzazione delle strutture di produzione e distribuzione. Per adesso abbiamo varato solo provvedimenti parziali: abbiamo adottato in bilancio di austerità per l’anno corrente, per il quale sono state abolite parte delle indennità dei funzionari statali, militari, dei magistrati, agenti delle società pubbliche. Con la nuova legge sulla casa, sono stati ridotti gli affitti delle abitazioni popolari, ed è stato dato un colpo alla lottizzazione abusiva. Abbiamo istituito una cassa di solidarietà nazionale con i cui fondi verranno finanziati alcuni progetti di sviluppo, come quello della valle del Souru. Abbiamo istituito una politica di rigore nelle dogane. Abbiamo abolito i privilegi della feudalità rurale, e così via.

In un paese come l’Alto Volta la riforma agraria è fondamentale. Quali ne saranno i criteri fondamentali?
Nel “Discorso di orientamento politico” abbiamo delineato i criteri generali della riforma agraria. Essa dovrà modernizzare e diversificare l’agricoltura, per farla diventare un punto di appoggio per lo sviluppo dell’industria. Dovrà soprattutto togliere potere alle forze retrograde che hanno sfruttato fino ad oggi le masse contadine, e restituire al popolo la terra, perché la lavori. Questo è un fatto fondamentale: se la terra no è proprietà di chi la lavora, non c’è incentivo a migliorarla, a apportarvi le trasformazioni qualitative che sono necessarie. Che si tratti di pascoli, alberi, campi. Finisce invece che la terra viene sfruttata il più possibile, con la conseguenza di provocare la desertificazione, di impoverire il suolo, e di accrescere dunque la nostra dipendenza dagli aiuti alimentari e dagli imperialisti. Invece noi puntiamo all’autosufficienza.

Nel discorso di orientamento la classe operaia, quasi inesistente in Alto Volta, viene definita come realmente rivoluzionaria, mentre i contadini vengono classificati come “piccolo borghesi”. D’altro canto la rivoluzione poggia essenzialmente sui contadini, la maggioranza della popolazione. Come affrontare questa contraddizione?
In effetti, al contrario dei paesi industriali dove è numericamente molto sviluppata, da noi la classe operaia è minoritaria. I contadini sono la maggioranza, e certo essi costituiscono una classe di borghesi. Ma questo non vuol dire che non facciano parte della rivoluzione. Tutto dipende dal lavoro di spiegazione e formazione delle coscienze che sviluppa nei loro confronti. Se operiamo delle trasformazioni che rendono i contadini più borghesi, essi finiranno per ribellarsi contro la rivoluzione. Al contrario se compiamo delle trasformazioni che avvicinano maggiormente alla classe operaia la borghesia contadina, essa si schiererà con la rivoluzione. E’ questo il problema: è un problema che è tipico dei paesi sottosviluppati, e che dobbiamo risolvere.

Una rivoluzione non è solo cambiamento economico, ma anche dello Stato. Qual è il ruolo, in questo quadro, dei Comitati di difesa della rivoluzione?
I Comitati di difesa della rivoluzione sono stati istituiti con quattro compiti: politico, socio-economico, culturale e militare. Per noi i Cdr costituiscono una scuola di democrazia e di esercizio del potere da parte del popolo da parte del popolo. Questo non lo vogliamo affermare solo a parole. Vogliamo che sia effettivo. Che il popolo partecipi, decida, costruisca il proprio avvenire materialmente, che sia padrone di sé stesso. Sviluppo e povertà, benessere e carestia, tutti i problemi del paese non sono più un affare riservato a un gruppo di dirigenti, come accadeva nell’Alto Volta dei vecchi partiti politici. Sono questioni che riguardano tutto il popolo.

Nel paese sono in corso i processi dei Tribunali popolari. Imputati sono quasi sempre funzionari di Stato, ex ministri, professionisti. Perché? Non teme che venga messa in pericolo quel minimo di professionalità, di efficienza esistente nel paese?
Noi pensiamo che non sia un bene per il paese avere un ingegnere dotato del migliore diploma del mondo, se questo ingegnere, invece di lavorare per il suo popolo, ruba il denaro pubblico e passa il suo tempo a bere e a divertirsi nei cabarets. Allo stesso modo è inutile avere un medico con un’ottima laurea, e che però invece di occuparsi della salute della gente, pensi solo a curare o suoi pochi danarosi clienti.
Preferiamo un medico alle prime armi, che deve ancora imparare, piuttosto che un medico con grandi capacità intellettuali, ma che è disonesto. I Tribunali popolari rivoluzionari costituiscono da questo punto di vista prima ancora che uno strumento punitivo, una scuolo diu responsabilizzazione. Per 24 anni il paese è stato rovinato dalla corruzione e dalle malversazioni. Adesso tutti sanno che esiste vigilanza nell’operato di ciascuno.

Anche sui militari?
Certamente. I tribunali popolari rivoluzionari processano anche dei militari, come il generale Lamizana, il colonnello Saye Zerbo, il comandante di squadrone André Roch Compaoré   e altri. L’esercito è una componente della società voltaica, una componente che conosce le stesse contraddizioni degli alti strati sociali.

Il ministro della difesa Lingani ha detto che un “militare senza coscienza politica è un criminale in potenza”. Che vuol dire? Come cambia l’esercito nella rivoluzione?
L’esercito voltaico diventerà un esercito di popolo. Ciò vuol dire una serie di cose: che la difesa non sarà più affare di una ristretta cerchia di specialisti, ma compito di tutto il popolo; che dentro l’esercito, le cose non verranno decise solo da un ristretto gruppo di ufficiali superiori, ma da tutti, soldati compresi.; che i militari parteciperanno alla produzione, nelle campagne come nei cantieri; che gli ufficiali non godranno più dei privilegi di cui hanno finora beneficiato: non è normale che i militari abbiano buoni alloggi, siano ben vestiti, mentre il popolo non ha di che mangiare, vestirsi, curarsi.

Presidente, lei e i suoi compagni, siete militari diventati rivoluzionari, o rivoluzionari entrati per ragioni di opportunità nelle Forze armate?
Con Lingani, Zonghi, Compaoré, Ouedraogo, con questi e molti altri compagni, non abbiamo improvvisato le cose. Veniamo da lontano, da molto lontano. E’ vero, siamo stati militari di un esercito neocoloniale, con tutti i privilegi che ne conseguivano. Ma noi questi privilegi li abbiamo utilizzati per combattere la reazione, per creare un movimento progressista dentro l’esercito, e per stabilire un’alleanza rivoluzionaria tra militari e civili. E’ così che siamo riusciti a dare il via alla rivoluzione. E ripeto, non abbiamo improvvisato le cose. La nostra lotta parte da lontano.

Afrique-Asie, a proposito di Ghana e Alto Volta, ha parlato di “corrente profonda” negli eserciti
Negli eserciti africani va sorgendo in effetti una nuova coscienza. Non bisogna pensare che gli eserciti in Africa siano sempre e comunque degli strumenti per aggredire e reprimere il popolo.

Un’ultima domanda: cosa pensa della Rivoluzione d’ottobre? Per voi è un modello di riferimento?
Non possiamo negare l’importanza della Rivoluzione d’ottobre. Al contrario. E’ un avvenimento molto, molto importante, che ha trasformato radicalmente la vita dell’umanità, importante almeno quanto la scoperta dell’elettricità. Ma non bisogna impelagarsi nel “modello”. La Rivoluzione d’ottobre è stata fatta nelle condizioni storiche dell’epoca, con uomini dell’epoca e condizioni tecnologiche, scientifiche e di comunicazione dell’epoca. Se fossero esistiti gli aerei da caccia, crede forse che la rivoluzione del 1917 si sarebbe scolta nello stesso modo? Certamente no. Se ci fosse stata la televisione laggiù a Mosca, ci sarebbe stata possibilità di comunicare con milioni di persone facilmente, e questo avrebbe probabilmente facilitato anche un certo livello di democrazia.
La Rivoluzione d’ottobre è stata invece fatta con e condizioni tecnologiche, con i livelli di democrazia, di sviluppo dei diritti civili quali esistevano all’epoca. Questi sono solo alcuni esempi. Il problema è isolare storia e geografia di ciascun paese che vive una rivoluzione, dai principi fondamentali della rivoluzione stessa.
La rivoluzione del 1917 è stato un grande balzo in avanti per l’umanità, ha generato ovunque nel mondo una nuova presa di coscienza. Come la rivoluzione francese: la rivoluzione del 1789 ci ha dato delle grandi lezioni, delle lezioni di successo e di sconfitta. Ma la cosa importante del1789 non sono le barricate. Importanti sono i suoi principi fondamentali che bisogna saper isolare dagli aspetti contingenti del fenomeno rivoluzionario.