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Il catarismo medievale nel pensiero di Simone Weil

di Rossana De Angelis - 15/04/2007

Fonte: scriptamanent



Alla luce dell’analisi di alcuni scritti
di Simone Weil viene scoperta non
solo la fondazione di un esemplare
sociale ben definito, ma soprattutto
l’attenzione verso una complessità
dalla quale il mondo esca rinnovato
tanto nel corpo, quanto nello spirito
È possibile rintracciare un’influenza del catarismo medievale nel pensiero di Simone Weil? Questo è l’interrogativo che dirige l’intera ricerca di Francesca Veltri, La città perduta - Simone Weil e l’universo di Linguadoca (Rubbettino, pp. 192, € 10,50). Non soltanto queste, però, sono le riflessioni cui l’autrice perviene nel corso del suo lavoro. Il manicheismo e la filosofia vedica sono altre fonti cui la filosofa ricorre per rinvigorire il suo pensiero.
Il punto di partenza è un’ipotesi di datazione diversa di uno scambio epistolare tra Simone Weil e Déodart Roché, studioso di cultura catara e manichea. L’analisi di questa corrispondenza ha permesso di ricostruire una bibliografia di testi catari che, su suggerimento del suo interlocutore, Weil avrebbe studiato. Il connubio tra l’interesse per la Linguadoca medievale, proposta come modello di civiltà per un’Europa distrutta dalla Seconda guerra mondiale, e quello per la religione catara, di cui sottolineava la purezza dei principi, ha influenzato non soltanto lo scambio epistolare, ma anche gli scritti successivi. Il problema diventa chiaro: come portare alla luce questa influenza? Il lavoro di Francesca Veltri, attraverso l’analisi della produzione ultima della filosofa, dal 1941 al 1943, la rilettura di due opere incompiute, Venise sauvée e L’Enracinement, e la serie dei Cahiers di Marsiglia e degli Stati Uniti, giunge al suo scopo.

Tra testo e contesto
L’Europa distrutta da un conflitto di enormi proporzioni genera nella Weil grandi e complessi interrogativi. Il senso di appartenenza a una patria senza cadere in nazionalismi di sorta, il dolore e la sofferenza correlati alla guerra diventano motivo di riflessione caratterizzante la sua ultima produzione. Interrogativi a carattere sociopolitico e metafisico, all’interno dei quali viene ricercata l’influenza della cultura d’Oc e del catarismo.
Nella definizione della parola «adhesion», che l’intellettuale fornisce in una delle lettere in questione, Veltri evince quella che doveva essere la sua posizione nei confronti di qualsiasi corrente di pensiero o tradizione filosofica: «ella aderiva serenamente a tutte le idee che le sembravano vere e giuste, facendole proprie, ovunque le trovasse; questo però non voleva dire che aderisse anche alla dottrina presa nella sua interezza, a meno che non sentisse di poterla accettare senza alcun dubbio o riserva, e questo non si verificò mai». Ecco un ritratto, in breve, della Weil.
Spesso i giudizi sulle civiltà più amate, come quella d’Oc e quella greca, erano frutto di una eccessiva idealizzazione, forse provocata dalla riscoperta di idee platoniche, indù o catare. La sua adesione al catarismo, come a ogni altra dottrina, non era totale, né poteva esserlo per via di alcuni aspetti che non condivideva esplicitamente. Nel libro si evince una sorta di convergenza e, allo stesso tempo, di divisione tra due influenze contemporaneamente diverse e affini. La società della Linguadoca si riflette nelle sue idee politiche e sociali, mentre il catarismo influenza le riflessioni teologiche. Il quadro che ne viene fuori è piuttosto complesso. Inoltre, il catarismo e la cultura d’Oc esercitavano un’influenza reciproca. Infatti, mentre il primo aveva trovato in Linguadoca un terreno fertile per il suo sviluppo, divenendo ricettacolo del desiderio di purezza dell’intera civiltà occitanica, la seconda aveva trovato nel catarismo un ottimo termine di confronto su temi spirituali e sociali, attraverso un incontro-scontro tra questa e le altre religioni presenti sul territorio, incrementando nuove idee e forme di tolleranza, caratteristiche della cultura occitanica. L’impressione che si ha circa la filosofia della Weil è che le due riflessioni, quella politica e quella religiosa, camminino su binari paralleli, avendo alla base una stessa domanda: il perché dell’esistenza del dolore umano e il modo di porvi rimedio.
L’autrice riesce a delineare un profilo dell’intellettuale francese chiaro e affascinante, nonostante la difficoltà dell’impresa e la specificità del testo. Benché sia dedicato chiaramente a un pubblico di lettori ben definito, il testo cattura l’attenzione per il fascino che riesce a trasporre dal personaggio alla pagina. Attraverso la lettura di brani originali, tratti da scritti o lettere, si riesce ad accennare un profilo della filosofa francese che evoca attraverso la scrittura le suggestioni di una vita intensa e difficile.

La città perduta
La prima parte del libro è incentrata sulla possibilità di fondare un nuovo patriottismo nonostante la difficile condizione storica in cui versano i paesi, come la Francia, coinvolti nel conflitto mondiale. Grande importanza assumono i modelli politici della Linguadoca medievale, cui si correla il catarismo, considerato come fonte di ispirazione. «Secondo la Weil le critiche mosse dalla religione catara ad ogni genere di struttura sociale avrebbero dato alle popolazioni occitane una migliore comprensione tanto dei meccanismi e delle leggi che regolano l’uso della forza nei rapporti umani che dei rischi e degli abusi connessi a quest’uso». La fedeltà alla patria deriva allora non dal rappresentare uno strumento di autorità politica e territoriale, ma in quanto «custode dell’identità culturale, linguistica e spirituale di una popolazione».
A tal proposito l’intellettuale francese indugia sul concetto di «parage», proprio della tradizione occitanica. «Sul piano politico il parage occitanico diventa per la Weil un modello di relazioni tra gli uomini all’interno di una comunità organizzata che sostituisce al diritto, semplice maschera della forza, il reciproco riconoscimento dei propri ruoli e doveri tra governanti e governati; sul piano religioso e metafisico le “reliquie” disponibili della teologia catara le suggeriscono un ripensamento del rapporto tra l’uomo e la divinità», scrive Gianfranco Fioravanti, nella Prefazione. I catari esercitavano su di lei il loro fascino per il rifiuto totale della forza. Questa posizione aveva contribuito a creare un modello di società in Linguadoca che la filosofa ammirava e avrebbe riproposto in seguito, a Londra, come modello di ricostruzione politica e morale della Francia distrutta dalla Seconda guerra mondiale. Il termine parage, che può essere reso nel francese attuale con honneur, riassumeva per lei tutto l’insieme dei comportamenti sociali degli abitanti di Linguadoca. Una promessa di fedeltà al signore, con criteri feudali ma non servili. L’obbedienza al signore, in quanto rappresentante di una certa carica e ruolo sociale, è accettata come un dovere morale, non come qualcosa di imposto, e ciò obbliga anche lo stesso signore a essere leale verso il giuramento fatto alla città e fedele verso i suoi sudditi. Un’obbedienza volontaria che permette al suddito di essere suddito, ma con onore.
La cultura d’Oc, fonte di ispirazione verso valori puri ed esemplari, è considerata come modello, lontano, però, dalle condizioni di una Francia invasa e oppressa. Le nozioni di società e di progresso avevano assunto per lei un’accezione negativa, pur nella consapevolezza che l’uomo non può vivere da solo, non è stato creato per la solitudine, e tuttavia proprio questa necessità era stata la causa dei suoi mali. È perciò necessario poter permettere all’uomo di vivere in società senza essere da essa corrotto. Occorre, dunque, offrirne un nuovo modello. E qui si dispiega l’attualità del pensiero della Weil. Un individuo non può formare un’interiorità propria senza appartenere a un gruppo. Infatti, un uomo per definire se stesso ha bisogno di un passato e di un futuro, che gli vengono garantiti dalla continuità delle generazioni che lo hanno preceduto e che lo seguiranno, intessendo attraverso i secoli sistemi di simboli e di relazioni con cui soltanto si riconosce e si definisce. La perdita di queste due dimensioni, quella spaziale e quella temporale, ovvero la “perdita di una città” comporta una perdita di identità sociale dell’uomo stesso. Al parage dell’uomo occitanico nei confronti del signore feudale si potrebbe sostituire il parage nei confronti dello stato contemporaneo, della patria, garante del cittadino, cui egli giura volontaria obbedienza. Lo stato deve perciò garantire un equilibrio delle forze sociali, evitare che esistano dislivelli eccessivi o che tendano ad acuirsi con il passare del tempo. Esso diventa garanzia di salvezza e come tale assume carattere sacro. Uno stato come connubio di città ideale e patria concreta. Una ricerca di un modello di miglioramento sociale sempre in relazione con un atteggiamento teologico verso la vita. Le idee di Weil rientrano in un panorama internazionalista e pacifista. Ed è in esso che l’intellettuale francese opera per tutta la sua vita.

La de-creazione
Il passaggio dalla riflessione politica a quella metafisica, o meglio spirituale, è breve. Il male e il dolore che caratterizzano il momento storico vissuto da Weil, rivelandosi attraverso le sopraffazioni, le deportazioni e tutti gli orrori della guerra, viene posto in discussione da un punto di vista diverso. Qual è il rapporto tra il male e il divino? Perché l’individuo sopporta il dolore? L’influenza del catarismo e della Linguadoca ha un ruolo rilevante in questa intricata trama di riflessioni politiche, teologie e metafisiche.
I Cahiers, da cui parte lo studio in merito di Veltri, testimoniano le riflessioni dell’intellettuale sul rapporto tra l’uomo e la divinità, come tra l’uomo e gli altri uomini.
La composizione di una teoria originale sul rapporto in Dio tra potenza creatrice e amore di sé la porta a elaborare una riflessione sulla creazione come ritrazione e sacrificio della divinità, cui gli uomini avrebbero dovuto rispondere sacrificando a loro volta la propria individualità e assoggettando al volere divino il proprio libero arbitrio. Questo allo scopo di tornare a essere una cosa sola con Dio a partire da questa vita, dalla terra, senza aspettare alcun trapasso ultraterreno, attraverso un processo denominato da Weil di «de-creazione». Questa concezione rivela tante affinità quante differenze con le teorie teologiche catare, che la filosofa aveva avuto modo di conoscere a Marsiglia, prima, e negli Stati Uniti poi.
Due scelte possibili esistono per gli uomini: una è orientata verso la vita, per cui ogni comportamento è rivolto alla conservazione propria e della specie; l’altra è orientata verso la morte, per cui le condizioni di mortalità e limitatezza si accettano soltanto nella possibilità di riscatto proprio attraverso la morte. Questi due estremi sono il punto di partenza della riflessione etica di Weil. Riflessione che coinvolge anche l’universo, che diviene destinatario dell’amore umano, in un rapporto uomo-universo complesso e controverso, che oscilla tra identità e separazione. Da una prospettiva in cui Dio è immanente all’universo stesso (in cui si riscontra l’influenza della lettura delle Upanishad e di Spinoza) si passa a un’altra prospettiva in cui Dio è separato dall’universo (influenzata, invece, dalle teorie catare “moderate”). Questo passaggio conduce alla riflessione sui concetti di creazione, considerata come rinuncia di Dio a essere tutto, scelta e sacrificio nel divenire qualcosa d’altro da sé, e di «de-creazione» come risposta dell’uomo a questo sacrificio, come possibilità di ricostruire l’unità originaria del tutto in Dio.
Contemporaneamente la riflessione sul dolore umano si fa sempre più ampia e complessa, ritornando sull’interrogativo di come e perché accettarne l’esistenza. L’immaginazione, la finzione, si rivelano espedienti illusori per evitarlo. L’uomo che vuole superare questa condizione di miseria deve rinunciare alla propria individualità e al libero arbitrio. In questo risiede, infatti, la frattura tra Dio e l’uomo. La rinuncia non deve essere, però, un atto di volontà, altrimenti l’uomo userebbe l’arbitrio che Dio gli concede (insieme alla possibilità di rinunciarvi), ma deve essere una consapevolezza progressiva della limitatezza della propria condizione. La libertà di scegliere tra bene e male, considerata positiva dal cristianesimo di Agostino, diventa da questa prospettiva una tentazione che affligge la condizione umana. Soltanto la rinuncia alla scelta, la de-creazione, il ritorno all’unità in Dio garantisce la salvezza individuale. Il libero arbitrio, infatti, può indurre l’uomo alla sopraffazione sull’altro, a generare male e dolore. L’unico modo per sfuggire a ciò consiste nel sottrarsi a questa possibilità. Il corpo umano diventa allora uno strumento per impedire la sopraffazione dell’altro e consentire anche ad egli di de-crearsi, rinunciando a se stesso per congiungersi a Dio e salvarsi. Qui ri-entra in gioco la riflessione politica. La sofferenza e la sopraffazione inducono l’uomo a convincersi che la sola giustizia possibile in terra sia quella del più forte, mentre così non è. L’impegno politico della Weil mira, appunto, a ridurre queste forme di ingiustizia sociale per pensare come possibile la redenzione dell’uomo attraverso l’abbandono a Dio.

Vita e ideologie di una filosofa e religiosa francese
Nasce a Parigi nel 1909 e viene indicata nei manuali di Storia della filosofia come «pensatrice religiosa». In realtà, il suo pensiero è tanto complesso da andare oltre questa categoria. Il suo impegno civile è testimoniato dal fatto che abbandonò per due anni l’insegnamento nei licei per vivere la condizione di operaia nelle fabbriche e partecipò con i repubblicani alla guerra civile spagnola (1936). Dopo essere stata atea durante la sua giovinezza, tra il 1937 e il 1938 iniziò a interessarsi sempre più a problematiche teologiche, formulando le proprie idee sul rapporto tra l’uomo e la divinità, come tra l’uomo e i suoi simili. Nel 1940 abbandonò Parigi in seguito all’invasione tedesca. Si rifugiò prima a Marsiglia, poi negli Stati Uniti. Infine si trasferì in Inghilterra, dove lavorò per l’organizzazione “France libre”. Morì nel sanatorio di Ashford, nel 1943, in seguito al regime di privazioni che si era imposta.
Delle sue opere si ricordano, tutte postume: L’ombra e la grazia (1947), La prima radice (1949), La conoscenza soprannaturale (1950), Lettere a un religioso (1951), La condizione operaia (1951).
La sua vita spirituale intensa rende complesso il suo pensiero. La riflessione etica e quella religiosa creano un equilibrio di fondo che deriva dalla capacità di schierarsi sempre dalla parte degli oppressi. Qui matura la sua critica al marxismo, fautore della trasformazione delle idee in giochi di forze, e il ritrovamento di Platone, nonché la fiducia nella possibilità che il meccanismo sociale lasciato alle sue leggi materiali produca il bene. La sua riflessione etica può essere riassunta nell’affermazione che nel regno spirituale il male non produce che male e il bene non produce che bene. Ma la condizione umana è ben lontana dalla perfezione divina, segnata com’è dalla miseria.



(www.scriptamanent.net, anno V, n. 41, aprile 2007)