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La gaia scienza dell'olfatto

di Antonello Colimberti - 19/01/2006

Fonte: Antonello Colimberti

 

 

Annick le Guérer, I poteri dell'odore, Bollati Boringhieri, Torino 2004, E 29.

Alessandro Gusman, Antropologia dell'olfatto, Laterza, Roma-Bari 2004, E18.

 

Alcuni anni fa un geniale e originalissimo romanzo di Patrick Süskind, Il profumo, portò all’attenzione del grande pubblico uno dei nostri sensi più misconosciuti, creando un personaggio che nella Francia del Settecento, dopo aver scoperto di possedere un fiuto affinato all’inverosimile, decide di diventare il più grande profumiere del mondo, ma non già per arricchirsi, bensì per dominare il cuore degli uomini, creando un profumo capace di ingenerare l’amore in chiunque lo fiuti. Nello stesso periodo lo scrittore italiano free-lance Gianni De Martino pubblicava presso le edizioni Apogeo un raffinato volume dal titolo Odori, dal carattere esplicitamente militante (sottotitolo Entrate in contatto con il quinto senso e dedica “a tutti i bambini e alle bambine con l’augurio di non smarrire mai l’odore della spumeggiante gioia di vivere”). In esso l’autore, avvalendosi anche di un ricco apparato iconografico, esplorava con una sensibilità vicina al sufismo islamico i più svariati luoghi dell’immaginario olfattivo d’Oriente e d’Occidente, con particolare attenzione alle interdizioni che tale senso ha conosciuto nel corso dei secoli per le più svariate ragioni (chiudeva il volume un’eccellente e spassosa postfazione di Mwage Kaneyena dal titolo La tribù dei nasi perduti).

Una nuova occasione per immergersi in tali affascinanti temi è offerta dalla simultanea uscita in libreria di due volumi di taglio e orientamento difforme. Il primo è di una studiosa francese, Annick Le Guérer, della quale la casa editrice Bollati Boringhieri manda in libreria il volume I poteri dell’odore. Al pari del testo di De Martino, si tratta di uno straordinario viaggio nella storia dell’uomo, condotto con grande erudizione e arte fascinatoria. La scrittura evoca maghi e streghe dell’antichità con i loro profumi ed unguenti capaci tanto di guarire quanto di paralizzare e persino uccidere. Se il lettore più scientista dovrà cedere le armi dinanzi alle inoppugnabili prove del legame fra odori corporali e sessualità (prima parte del volume) -specie dopo la scoperta negli anni sessanta dei feromoni, sostanze secrete all’esterno del corpo che agiscono non sul portatore stesso, ma sui suoi congeneri, determinando comportamenti sessuali, parentali e sociali-, ai lettori di stomaco forte si consiglia particolarmente la seconda parte interamente dedicata all’odore della peste, da sempre archetipo dei grandi mali che hanno afflitto l’umanità, e per questo associata ai concetti di corruzione, morte e, appunto, “fetore”. L’associazione peste/fetore ha, infatti, una lunga storia, ed è inaugurata da Acrone di Agrigento che nel V secolo a.C. sconfigge la peste che imperversa su Atene bruciando legni aromatici, mettendo quindi in pratica l’idea secondo la quale l’epidemia nasce dall’aria, idea che dominerà incontrastata fino alla fine del XIX secolo, stimolando una continua e incessante ricerca di profumi curativi. Ma se i buoni odori non sortiscono effetto, si può sempre provare a combattere la peste rovesciando i valori olfattivi. Così, nel 1634 il medico Henri de La Cointe propone di neutralizzare le esalazioni pestilenziali con fetori ancora più infetti come quelli del caprone o delle carogne. Altri terapeuti propongono l’associazione fra profumi gradevoli e odori violenti. Addirittura, per disinfestare le case, i vestiti e le persone, si aggiungono alle fumigazioni aromatiche anche i prodotti tossici che rilasciano effluvi acri come lo zolfo, l’arsenico, l’antimonio, la polvere da sparo, la pece. Mentre il rapporto fra profumi e sacro è curiosamente poco sviluppato (terza parte del volume), un’amplissima rassegna è dedicata al “naso dei filosofi” (quarta parte) e al “naso degli psicoanalisti” (quinta parte). Per quanto riguarda il rapporto fra la filosofia (occidentale) e l’olfatto, è Le Guérer stessa a riassumerla: “Accusato da Platone e Aristotele di mancare di finezza, di linguaggio, di procurare talvolta piaceri meno puri di quelli della vista e dell’udito, considerato da Kant come senso ingrato e una fonte di fastidi, ritenuto inferiore da Schopenhauer, escluso dall’estetica di Hegel, senso antisociale per eccellenza per Georg Simmel, l’olfatto è stato davvero molto bistrattato dai filosofi”. Fra le eccezioni vale ricordare i filosofi materialisti del Settecento e poi Fourier, Feuerbach e, soprattutto, Nietzsche (scrisse “il mio genio è nelle mie narici”) e Bachelard (per il quale l’odore è “lumino da notte nella camera dei ricordi, radice del mondo, verità d’infanzia”). Per quanto riguarda, invece, la psicoanalisi, se nella letteratura psicoanalitica postfreudiana l’olfatto occupa uno spazio decisamente modesto (e Le Guérer invita gli psicoanalisti ad avere un po’ più di naso), non può dirsi lo stesso delle origini. Anzi, Freud, al pari di Nietzsche (ma con valutazione opposta) stabilisce un rapporto fra la repressione dell’olfatto e lo sviluppo della civiltà, perché l’una è la condizione indispensabile dell’altra.

Ma oltre alla filosofia e alla psicoanalisi un’altra delle scienze umane ha iniziato a confrontarsi con l’olfatto: l’antropologia culturale. Ce ne rende ragione un lavoro di Alessandro Gusman, pubblicato da Editori Laterza con il titolo L’antropologia dell’olfatto. Si tratta di uno studio di grande interesse perché è il primo ad introdurre e presentare nel nostro Paese quella nuova corrente di studi che va sotto il nome di “Antropologia sensoriale”. Nata in Canada alla fine degli anni Ottanta ad opera di autori come David Howes, Constance Classen e Anthony Synnott, questa disciplina ha seguito tre linee di ricerca principali: la critica del predominio del senso della vista nella società occidentale, e della conseguente svalutazione degli altri sensi, ritenuti “inferiori”; l’interesse per l’uso delle facoltà sensoriali nella ricerca etnologica; e, infine, l’indagine sui sistemi di percezione vigenti presso le società oggetto di studio, per dimostrare come non sia possibile comprendere a fondo una cultura partendo dai modelli percettivi propri della società in cui il ricercatore è stato formato.

A partire da tali assunti Gusman concentra la propria ricerca sull’esperienza sensoriale olfattiva relativa a tre temi. In primo luogo il concetto di identità e alterità, laddove, ci ricorda l’autore, “l’odore dell’Altro” è stato spesso usato, e continua a esserlo, nelle argomentazioni di stampo razzista: il foetor judaicus, che dal Medioevo all’epoca nazista ha trovato numero assertori, è solo un esempio. Ma oltre che nella definizione del nemico esterno (inteso come razzo o straniero), l’odore è servito storicamente anche alla definizione di quello interno, rafforzando le pratiche di segregazione (lo studioso Alain Corbin ha parlato di “ripartizione sociologica della puzza”), come nella “puzza del povero” nella Francia del XVIII e XIX secolo. Il secondo tema che Gusman affronta con la chiave di lettura fornita dall’antropologia dei sensi è quello del rito, soprattutto nei suoi aspetti di rito di passaggio (nascita, matrimonio) e di festa: in tutti questi casi l’olfatto svolge un ruolo caratteristico nella scansione dei tempi giornalieri, stagionali e dei principali momenti della vita individuale e collettiva. Infine, ecco il terzo tema, la dicotomia vita/morte: qui l’autore riprende, ampliandone i dati etnologici, quegli aspetti macabri legati ai miasmi e alla putrefazione del corpo già considerati da Le Guérer in relazione alla peste. Il volume si conclude con un capitolo finale dedicato al dialogo interdisciplinare con le neuroscienze al fine di comprendere come la cultura, intrecciandosi con le predeterminazioni genetiche, contribuisca a formare l’encefalo dell’essere umano adulto, e presumibilmente a influenzare il suo modo di percepire il mondo. Al lettore dotato di fiuto non sfuggirà certo l’occasione di una buona lettura.