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L' «anarchismo metodologico» di Feyerabend per spezzare la funesta alleanza tra stato e scienza

di Francesco Lamendola - 24/06/2008

La società odierna ha talmente introiettato i dogmi della nuova religione scientista, che la maggior parte delle persone non percepiscono nemmeno la paradossalità della situazione che si è venuta a creare nei reciproci rapporti fra stato e scienza, dove il primo si presta, volonteroso, a svolgere la funzione di "braccio secolare" della seconda.

Ciò ha origine dal dogma più esiziale di tutti, e che è la conseguenza di molte altre perverse  conseguenze: che il sapere scientifico, cioè, sia oggettivo; o che, quanto meno, esso sia più oggettivo delle altre forme di sapere che, per secoli e per millenni, hanno accompagnato la storia umana e hanno fornito l'elemento unificante della società: quello mitico, quello religioso, quello poetico, quello artistico e, infine (in ordine di tempo), quello filosofico. Tutti questi sono stati declassati, più o meno esplicitamente, a svolgere un ruolo marginale, nella prospettiva di venire infine espulsi dal corpus dei saperi socialmente accettati e rispettati; come è accaduto all'astrologia, che fu in origine la regina di tutte le scienze - presso i Caldei o i Maya, ad esempio - e poi, dopo essere scaduta al rango di sapere popolare semi-serio, è stata bandita per sempre dall'orizzonte della scienza "vera".

I poeti e gli artisti si sono acconciati a questa nuova situazione, ritagliandosi dei margini di compatibilità culturale grazie alla rivendicazione dell'assoluta eterogeneità dei loro ambiti rispetto a quello scientifico; cosa, in verità, assai discutibile: basti pensare al caso della musica o dell'architettura, che hanno una ossatura, per così dire, matematica.

I teologi e i seguaci delle varie religioni, invece, hanno compreso di non poter seguire a loro volta quella strada, perché il dogma scientista avrebbe potuto lasciar sopravvivere la poesia e l'arte, sia pure in funzione subalterna, ma prima o poi avrebbe colpito al cuore l'essenza del fatto religioso e del pensiero che lo formalizza. Perciò hanno cercato di far buon viso a cattivo gioco e si sono sforzati di salvare capra e cavoli, accettando in linea di massima il criterio discriminante della oggettività del conoscere e tentando, poi, di riprendere le misure, su tale base mutata, del proprio ambito di verità. 

Alcuni teologi, ad esempio, hanno incominciato a demolire a colpi di piccone tutto ciò che, nella conoscenza religiosa, avrebbe - secondo loro - una origine "mitica" (cfr. il nostro precedente saggio Rudolf Bultmann, la religione e l'immagine mitica del mondo, sul sito di Arianna Editrice). Così, i teologi cristiani hanno cominciato a contare uno ad uno i miracoli narrati nel Vangelo, e a cercar di stabilire quanti si possano spiegare in maniera naturalistica; se sia proprio vero che i cinque pani e i due pesci fossero proprio soltanto cinque pani e due pesci, o se il loro numero non vada inteso in senso allegorico; se gli indemoniati guariti da Gesù fossero proprio indemoniati, e non dei semplici malati di mente; e così via.

Hans Küng è uno di coloro che hanno intrapreso questa strada; una strada al termine della quale non resta che espungere come "mito" tutta la parte storica di una data religione, e trasformare quest'ultima in un sistema etico-filosofico. Albert Schweitzer, esattamente un secolo fa - e, dunque, con più coraggio concettuale di Küng -, si è spinto fino alle soglie di una tale, radicale soluzione (cfr. il nostro articolo Che cosa accadrebbe al cristianesimo se dovesse rinunciare alla storicità di Gesù?, sempre sul sito di Arianna).

Restano i filosofi; ma, su di loro, non c'è molto da dire, se non che parecchi di loro hanno fatto la stessa cosa dei teologi, adattandosi ad assumere le categorie del metodo scientifico - ammesso che ve ne sia uno, cosa che è possibile contestare - e a recitare una parte da parenti poveri rispetto agli ammiratissimi e invidiatissimi "colleghi" scienziati. Ne abbiamo recentemente parlato nell'articolo Quando i filosofi sono troppo timidi, gli scienziati diventano arroganti. Solo pochi filosofi hanno avuto il coraggio di affrontare il problema a viso aperto, negando - come ha fatto Kurt Hübner -  una superiorità intrinseca della conoscenza scientifica rispetto alle altre forme di conoscenza del mondo, a cominciare da quella mitica (cfr. il nostro articolo Il pensiero mitico è diverso, non certo inferiore a quello scientifico).


Molteplici sono le conseguenze pratiche di questo mutamento nei rapporti di forza tra la scienza da una parte, e le forme di sapere non scientifico dall'altra.

Al cittadino è lasciata piena libertà di prediligere una religione piuttosto che un'altra, una corrente artistica o un sistema filosofico piuttosto che un altro; ma, quando si parla di scelte o decisioni che possono rientrare nell'ambito che gli scienziati hanno delimitato quale proprio esclusivo dominio, la musica cambia. Lo stato interviene con tutta la sua autorità per obbligare i cittadini a sottoporsi a vaccinazioni; per imporre determinate terapie ad esclusione di altre; per denunciare come ciarlatani o truffatori coloro i quali praticano forme di medicina alternativa, processarli e condannarli. Anche di questo abbiamo già parlato, ad esempio nello scritto Verso la nuova Inquisizione del «pensiero unico» scientista, in cui ci siamo particolarmente occupati del clamoroso processo a carico di un prete cattolico che aveva eseguito, su richiesta degli interessati, un esorcismo su una ragazza tedesca di nome Anneliese Michel. Il processo si concluse con la condanna del sacerdote, perché la morte della sfortunata ragazza fu attribuita alla omissione di cure mediche appropriate (nonostante che ella avesse già tentato la via del ricovero ospedaliero e, pur dopo essersi sottoposta a lunghi esami e terapie, non ne avesse ricavato il benché minimo beneficio).

Ancora più inquietante, a nostro parere, è il recente caso giudiziario che ha coinvolto un sacerdote della diocesi di Bolzano, il quale è stato processato per violenza sessuale continuata su una sua parrocchiana che, all'epoca dei fatti, aveva dai 9 ai 19 anni. Assolto in primo grado, è stato condannato a una pesante pena detentiva dalla sentenza della corte di appello. L'aspetto aberrante della vicenda è, in primo luogo, che l'incriminazione è scattata a distanza di molti anni dai fatti, in seguito a una psicoterapia dalla quale sarebbero emersi - in maniera dettagliatissima - i ricordi rimossi di quel decennio di violenze, delle quali la presunta vittima nulla sapeva fino al momento della terapia stessa; e, in secondo luogo, che vi è una totale mancanza di riscontri oggettivi del crimine in oggetto, anzi, della presenza di numerosi indizi che tendono a smentirlo. In altre parole, sulla base esclusiva dei risultati di una pseudoscienza - la psicanalisi, da noi equiparata a una forma di vera e propria magia nera - che ha ricevuto il riconoscimento ufficiale da parte dello stato, chiunque può essere processato e condannato sulla base dei presunti ricordi di un'altra persona, per fatti che quella stessa ignorava prima di sottoporsi a psicoterapia, e che possono risalire anche a dieci o venti anni prima, senza bisogno di altri riscontri o testimonianze. 

A noi sembra che non solo il più elementare buon senso, ma anche le basi fondamentali del diritto vengano scalzate da una sentenza come quella del tribunale di Bolzano, che segna l'inizio di una nuova fase giuridica: quella della dittatura degli scienziati (o degli pesudo-scienziati), i quali, mediante il braccio secolare dello stato, si arrogano il diritto di distruggere la reputazione e l'onore di qualunque persona, di privarla del suo lavoro e della sua libertà personale, di decretarne la morte civile, in base alle risultanze dei loro metodi di ricerca - storicamente mutevoli -, in spregio ad ogni criterio di verosimiglianza, equità e umanità.

 

Ebbene, il primo filosofo che ha intuito per tempo i terribili rischi ai quali la società sarebbe stata esposta, una volta che l'alleanza tra scienza e stato  si fosse consolidata, è stato l'austriaco Paul K. Feyerabend (Vienna, 1924- Genolier, 1994). Insegnante all'Università di Berkeley in California e al Politecnico di Zurigo; autore di libri molto stimolanti e molto discussi, come Problemi dell'empirismo (1965), Contro il metodo (1975), La scienza in una società libera (1978); egli ha avuto modo di seguire la drammatica vicenda di un altro outsider del pensiero scientifico, austriaco come lui e, come lui, trapiantato negli Stati Uniti: Wilhelm Reich. Il caso di questi offre un buon esempio dei pericoli dei quali stiamo parlando: accusato di ciarlataneria per le sue ricerche sulla natura bioelettrica dei fenomeni sessuali, rifiutò di comparire in giudizio e, nel 1956, fu condannato a due anni di prigione e alla distruzione dei suoi libri e delle sue apparecchiatura (il famoso accumulatore di energia orgonica). Imprigionato nel penitenziario di Lewisburg nel marzo del 1957, vi morì nel novembre, in circostanze a dir poco oscure: non sono in pochi a pensare che sia stato eliminato con metodi "raffinati" dalle autorità, che già lo tenevano d'occhio per le sue idee politiche,  oltre che per la sua concezione eterodossa della psicanalisi.

 

Non è questa la sede per esporre compiutamente la ricerca epistemologica di Paul Feyerabend, che sfocia nel cosiddetto "anarchismo metodologico". Ci limiteremo, pertanto, a riassumerne alcuni aspetti fondamentali, per poi passare a discutere le sue idee circa i rapporti tra scienza e stato, ossia l'argomento che presentemente ci interessa.

In primo luogo, egli attacca frontalmente i due capisaldi della concezione empirista della scienza: quello della coerenza tra sistemi teorici - quello da ridurre e quello in cui avviene la riduzione -, e quello dell'invarianza di significato dei termini che essi utilizzano. 

Per quanto riguarda il primo aspetto, Feyerabend ha messo in evidenza, ad esempio, l'incoerenza esistente fra la legge di Galilei della caduta dei gravi e talune conseguenze della teoria di Newton,  all'interno del campo di applicazione della prima.

Per quanto riguarda il secondo aspetto, egli ha fatto notare facilmente la diversità di significato del termine "massa" nell'ambito della fisica classica e in quello della fisica quantistica. Ciò avviene perché i termini del linguaggio scientifico non sono ricavati direttamente dall'esperienza dei fenomeni, come gli scienziati stessi vorrebbero far credere, ma attingono il loro significato dalle teorie di cui fanno parte e, pertanto, possono cambiarlo da una teoria all'altra. La conclusione è chiara: l'esperienza non è affatto il banco di prova oggettivo e imparziale delle teorie scientifiche, poiché queste ultime creano e modellano a proprio piacere il linguaggio con cui l'esperienza medesima viene descritta.

Tra noi e l'esperienza intesa come "verità oggettiva" si frappone, quindi, il doppio sbarramento della soggettività sia dei metodi di riduzione, sia dei termini e delle espressioni della spiegazione scientifica.

Dopo aver così demolito tanto la teoria empirista della riduzione scientifica, quanto quella della spiegazione mediante un presunto linguaggio oggettivo, Feyerabend, nella pars construens del suo pensiero, sostiene che la ricerca scientifica deve essere liberata da ogni limite e condizione metodologici, anzi sostiene esplicitamente che il miglior metodo scientifico è quello di abolire ogni metodo. Il requisito essenziale dello scienziato non è la razionalità, ma l'opportunismo, nel senso di saper sfruttare tutti quei mezzi, sia teorici che pratici, i quali possano rivelarsi più idonei al raggiungimento del suo scopo.

Accanto all'anarchismo metodologico, Feyerabend valorizza la proliferazione delle teorie e il principio della controinduzione, ossia dello scontro fra diversi e contrapposti punti di vista teorici, dai quali soltanto nasce il progresso della conoscenza.

Per quanto riguarda la proliferazione delle teorie, crediamo che un buon esempio possa essere offerto, nell'ambito della fisica, dalla compresenza della teoria corpuscolare di Newton e della teoria ondulatoria di Huygens per spiegare la propagazione della luce: due teorie capaci di integrarsi a vicenda, per rendere conto di diverse proprietà dei fenomeni ottici.

Per quanto riguarda il principio della controinduzione, ci sembra che esistano numerosi esempi, nella storia della scienza, di capovolgimento di paradigmi scientifici (nel senso dato da Thomas Kuhn al termine paradigma), che hanno portato ad un incremento del sapere mediante l'elaborazione di modelli teorici alternativi e incompatibili, a cominciare dal passaggio dalla concezione tolemaica a quella copernicana del Sistema solare.

La logica e coerente conseguenza di tutta questa impostazione data da Feyerabend all'epistemologia è che il sapere scientifico non può rivendicare alcuna pretesa di possedere una intrinseca "superiorità" rispetto alle altre forme di conoscenza, come quella mitica o quella artistica. Sono, semplicemente, maniera diverse di accostarsi alla realtà del mondo; e la loro ragion d'essere sta non solo nella efficacia dei risultati pratici, ma anche nella funzione da esse svolta nella coesione sociale e culturale dei gruppi umani.

 

Nel capitolo conclusivo del suo libro più famoso, Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza (titolo originale: Against Method. Outline of an Anarchistic Theory of Knowledge, 1975; traduzione di Libero Sosio, Feltrinelli, Milano), Feyerabend sostiene che la scienza è molto più vicina al mito di quanto la filosofia della scienza sia, generalmente, disposta ad ammettere. (Si noti che questa è una posizione molto diversa da quella del già citato Kurt Hübner: perché quest'ultimo ammette la radicale diversità teorica e metodologica tra scienza e mito, mentre contesta la pretesa superiorità della prima sul secondo).

La scienza, per Feyerabend, è soltanto una delle molte forme di pensiero che sono state elaborate dall'umanità nel corso della sua storia, e non la si deve ritenere, necessariamente, la migliore fra tutte. Secondo lui, essa è vistosa, rumorosa e impudente; ma soltanto per coloro che hanno deciso di credervi, la si può ritenere intrinsecamente più valida. In altri termini, credere nella superiorità della forma di pensiero scientifica è questione di ideologia; ma è possibile che quanti aderiscono all'ideologia scientista non abbiano mai riflettuto a fondo non solo sui vantaggi che la scienza è in grado di offrire all'uomo, anche sui suoi limiti.

Ora - argomenta Feyerabend con una consequenzialità che è la croce dei suoi (molti) detrattori e la delizia dei suoi (pochi) sostenitori -, quando si parla di ideologie, è universalmente ammesso che il singolo individuo dovrebbe essere lasciato libero di aderire a quelle che preferisce o di rifiutare quelle che non apprezza. La cultura dell'Occidente, che ha conosciuto una secolare vicenda di lotte e sofferenze prima che trionfasse un tale principio in materia religiosa, è giunta ad acquisire definitivamente l'idea della necessaria separazione fra chiesa e stato; tanto è vero - aggiungiamo noi - che l'Occidente taccia di fondamentalismo e di integralismo quelle culture che (ad esempio in ambito islamico) non riconoscono una simile separazione in via di principio e di fatto. Ebbene, è chiaro che, se si vuole essere coerenti, bisognerebbe estendere lo stesso ragionamento dall'ambito della religione a quello della scienza, e formulare solennemente il principio della separazione fra scienza e stato. La scienza, infatti - secondo Feyerabend - non solo è la più recente istituzione religiosa, diffusa ormai a livello mondiale; ma è anche la più dogmatica e la più aggressiva fra quante ve ne sono oggi.

La necessità impellente di realizzare una netta separazione tra scienza e stato, per il filosofo americano di origine austriaca, non nasce solo dalla necessità di tutelare l'autonomia ideologica e personale dell'individuo, e di porre un argine alle indebite intrusioni dell'autorità pubblica nella sfera delle convinzioni private e dei comportamenti che ne discendono. No, la posta in gioco è molto più cospicua: si tratta di assicurare all'individuo la sola possibilità di conseguire tutta l'umanità di cui ciascuno è capace, ma che non è mai stata realizzata compiutamente, proprio per l'arrogante intrusione di ideologie imposte in maniera coercitiva.

 

Scrive, dunque, Feyerabend, nelle pagine conclusive di Contro il metodo (ed. cit., pp. 243-246):

 

…benché un americano possa scegliere oggi la religione che preferisce, non gli è ancora permesso chiedere che i suoi figli imparino a scuola la magia anziché la scienza. Esiste una separazione tra stato e chiesa ma non esiste una separazione tra stato e scienza.

Eppure la scienza non ha un'autorità maggiore di quanta ne abbia una qualsiasi altra forma di vita. I suoi obiettivi non sono certamente più importanti delle finalità che guidano la vita in una comunità religiosa o i una tribù unita da un mito. Ad ogni modo non è compito loro limitare la vita, il pensiero, l'educazione dei membri di una società libera, dove chiunque dovrebbe avere una possibilità di pensare quel che gli pare e di vivere in accordo con le convinzioni sociali che trova più accettabili. La separazione fra stato e chiesa dovrebbe essere perciò integrata dalla separazione fra stato e scienza.

Non dobbiamo tenere che tale separazione possa condurre a un crollo della tecnologia. Ci saranno sempre individui che preferiranno dedicarsi alla scienza per essere padroni del proprio destino e che si sottometteranno volentieri al genere più meschino di schiavitù (intellettuale e istituzionale) purché siano pagati bene e purché ci siano attorno a loro persone che ne esaminino il lavoro e ne cantino le lodi. (…)

L'immagine della scienza del XX secolo nella mente di scienziati e profani è determinata da miracoli tecnologici come la televisione a colori, le fotografie del paesaggio lunare, il forno all'infrarosso, oltre che da una diceria o favola, un po' vaga, ma che ha nondimeno un'influenza abbastanza grande, sul modo in cui questi miracoli vengono prodotti.

Secondo questa favola il successo della scienza sarebbe il risultato di una combinazione sottile, ma esattamente bilanciata, di inventività e di controllo. Gli scienziati hanno idee. E hanno anche metodi speciali per migliorare le idee. Le teorie della scienza hanno superato la prova (test) del metodo. Esse danno una spiegazione del mondo migliore di quella data dalle idee che non hanno superato la prova.

La favola spiega perché la società moderna tratti la scienza in un modo speciale e perché le conceda privilegi che non vengono concessi a nessun'altra istituzione.

Idealmente, lo stato moderno è ideologicamente neutrale. La religione, il mito, i pregiudizi hanno un'influenza, ma solo in un senso circolare, attraverso la mediazione di partiti politicamente influenti. I principi ideologici possono entrare nella struttura del governo, ma solo dopo un voto maggioritario, e attraverso una lunga discussione di possibili conseguenze. Nelle nostre scuole le religioni principali vengono insegnate come fenomeni storici. Esse vengono insegnate come parte della verità solo se i genitori insistono per un modo di istruzione più diretto. Sta a loro decidere circa l'educazione religiosa dei loro figli. Il sostegno finanziario concesso a ideologie non è superiore a quello concesso a partiti politici e a gruppi privati. Stato e ideologia, stato e chiesa, stato e mito sono mantenuti separati con gran cura.

Stato e scienza, però, cooperano strettamente. Somme immense vengono spese per migliorare le idee scientifiche, Discipline ibride quali la filosofia della scienza, le quali non hanno neppure una scoperta a loro credito, beneficiano del boom delle scienze. Le stese relazioni umane vengono trattate in un modo scientifico, come mostrano programmi d'istruzione, proposte per la riforma carceraria, per il servizio militare e così via. Quasi tutte le discipline scientifiche sono materie di studio obbligatorie nelle nostre scuole. I genitori di un bambino di sei anni possono decidere se farlo istruire nel protestantesimo o nei rudimenti della religione ebraica, o escluderlo completamente dall'insegnamento di religione, ma non hanno una libertà simile nel caso delle scienze. La fisica, l'astronomia, la storia devono essere imparate. Esse non possono essere sostituite dalla magia, dall'astrologia o da uno studio di leggende.

Né ci si accontenta di una presentazione semplicemente storica di fatti e principi fisici (astronomici, storici, ecc.). Non si insegna: alcuni ritengono che la Terra orbiti attorno al Sole, mentre altri ritengono il mondo una sfera cava contenente il Sole, i pianeti, le stelle fisse, orbitanti intorno alla Terra. Si insegna: la Terra si muove attorno al Sole: tutto il resto è mera idiozia.

Infine, il modo in cui noi accettiamo o ripudiamo idee scientifiche è radicalmente diverso dai procedimenti decisionali democratici. Accettiamo leggi scientifiche e fatti scientifici, li insegniamo nelle nostre scuole, ne facciamo la base di importanti decisioni politiche, ma senza averli mai sottoposti a una votazione. Gli scienziati non li sottopongono al voto - o almeno così dicono - e certamente ciò vale a maggior ragione per i profani. Talvolta vengono discusse proposte concrete e viene suggerito di procedere a una votazione. Il procedimento non viene però esteso a teorie generali e a fatti scientifici. La società moderna è "copernicana" non perché il copernicanesimo  sia stato messo ai voti, sia stato oggetto di una discussione democratica e poi votato a maggioranza semplice; è "copernicana" perché gli scienziati sono copernicani e perché noi accettiamo la loro cosmologia così acriticamente come un tempo si accettava la cosmologia di vescovi e cardinali.

Anche pensatori audaci e rivoluzionari si sottomettono al giudizio della scienza. Kropotkin voleva infrangere tutte le istituzioni esistenti, ma non toccò la scienza. Ibsen si spinse molto avanti nello smascheramento delle condizioni dell'umanità del suo tempo, ma conservò ancora la scienza come misura della verità. Evans-Pritchard, Lévi-Strauss e altri hanno riconosciuto che il "pensiero occidentale", lungi dall'essere un picco solitario dello sviluppo umano, è turbato da problemi che non si riscontrano in altre ideologie: ma escludono la scienza dalla loro relativizzazione di ogni forma di pensiero. Anche per loro la scienza è una struttura neutrale contenente una conoscenza positiva che è indipendente dalla cultura, dall'ideologia e dal pregiudizio.

La ragione di questo trattamento preferenziale  di cui la scienza è oggetto si trova, ovviamente, nella "storia" o favola cui abbiamo accennato: se la scienza ha trovato un metodo che trasforma idee contaminate da un'ideologia in teorie vere e utili, allora essa non è più una semplice ideologia, ma una misura oggettiva di tutte le ideologie. Essa non è allora soggetta alla richiesta di una separazione fra stato e ideologia.

Ma la storia è falsa, come abbiamo visto. Non esiste alcun metodo speciale che garantisca il successo o lo renda probabile. Gli scienziati risolvono i problemi non perché posseggano una bacchetta magica - una metodologia, o una teoria della razionalità - ma perché hanno studiato un problema per molto tempo, perché conoscono abbastanza bene la situazione, perché non sono troppo stupidi (anche se oggi c'è il sospetto che quasi tutti potrebbero diventare scienziati)e perché gli eccessi di una scuola scientifica sono controbilanciati quasi sempre dagli eccessi di qualche altra scuola. (solo di rado, inoltre, gli scienziati risolvono i loro problemi; spesso commettono quantità di errori e molte fra le loro soluzioni sono del tutto inutili). Sostanzialmente c'è ben poca differenza fra il processo che conduce all'annuncio di una nuova legge fisica e il processo che precede l'approvazione di una nuova legge nella società: si informano o tutti i cittadini o le persone direttamente interessate, si raccolgono "fatti" e pregiudizi, si discute l'argomento e infine si vota. Ma mentre una democrazia fa qualche sforzo per spiegare il processo, in modo che tutti possano capirlo, gli scienziati lo nascondono, o lo piegano per adattarlo ai loro interessi settari…

 

Una domanda, in particolare, non possiamo fare a meno di porci. davanti all'affermazione di Feyerabend che il trattamento preferenziale di cui la scienza è oggetto risiede nella favola per cui essa avrebbe trovato un metodo che trasforma idee contaminate da un'ideologia in teorie vere e utili; assurgendo, così al rango di misura oggettiva di tutte le ideologie.

La domanda è questa: se la società occidentale ha adottato l'ideologia della scienza moderna (post-galileiana) come propria ideologia ufficiale, insegnata e imposta a livello statale, ciò non sarà una conseguenza di quella sua antica propensione ad adorare l'azione, il risultato, e, in ultima analisi, la forza, che la contraddistingue, e che le ha fatto vedere nella scienza lo strumento capace di assicurarle un grado sempre più ampio di forza e di possibilità di dominio?

Se così fosse, il problema - a nostro avviso - non sarebbe soltanto quello di puntare su una separazione fra stato e scienza, ma di ripensare a fondo l'ideologia della forza, che ha trovato nell'adorazione della scienza la sua ultima, e più invasiva, espressione.