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Il paese della felicità è un luogo dove il male non esiste?

di Francesco Lamendola - 29/07/2008

 

 

L'immagine della felicità che gli esseri umani amano rappresentarsi è quella di una condizione, o addirittura di un luogo, ove il male semplicemente non esiste. Così descrivono il paradiso quasi tutte le religioni e così immaginano il futuro tutte le ideologie rivoluzionarie, versione secolarizzata dell'utopia religiosa. Lasciamo perdere, in questa sede - perché esula dalla presente riflessione - il fatto che, per  voler perseguire, o addirittura realizzare, il Paradiso, gli uomini hanno costruito, così spesso, l'Inferno.

Qui le domande che desideriamo porci sono due. Esiste un corrispettivo reale dell'evanescente concetto di «felicità»? E, se esiste - sia pure su un piano astratto e teorico -, può essere identificato, puramente e semplicemente, con l'assenza del male?

Prima questione. Più lo si esamina da vicino e più ci si rende conto che il concetto di felicità non possiede un contenuto positivo reale, ma che esso compendia, piuttosto, tutte le vaghe aspettative che nascono dal completo rovesciamento della reale esperienza generalizzata del male: fisico morale (cfr. il nostro precedente articolo Liberarci dall'aspettativa, figlia malata dell'idea di progresso, sul sito di Arianna Editrice). Per i Romani, la parola felicitas designava i concetti di «fortuna, successo, prosperità e buon esito» (Castiglioni-Mariotti); per i Greci, il vocabolo εύδαιμονία designa soprattutto il buon esito nelle imprese, la buona ventura. Nella cultura ebraica, nella Bibbia e nello stesso Nuovo Testamento non si parla della felicità, ma del «lieto annunzio» o della «buona novella».

Resterebbe il nome suggestivo di Arabia felix, carico di potere evocativo, a suggerire che il concetto di felicità, raro e inafferrabile nel mondo antico, si era almeno fissato per designare una lontana e quasi immateriale realtà geografica; ma, anche qui, dobbiamo restare delusi. Infatti, il nome di «Arabia Felice» è solo un errore di traduzione latina del termine Yemen che, in lingua araba,  significa «destra»: ossia la direzione del sud, che è a destra di chi guarda il sorgere del sole. Pertanto, la cosiddetta Arabia Felice altro non è che l'Arabia meridionale, un paese fra i tanti, con le sue oasi verdeggianti e le sue antiche città, ma anche con i suoi squallidi deserti, la malaria, le bande di predoni.

Giungiamo, così, alla conclusione che l'idea della «felicità» è un parto piuttosto recente della cultura occidentale; e ancora più recente è l'idea - sancita dalle costituzioni democratiche di alcuni Stati, a cominciare dagli Stati Uniti d'America - che essa sia il ragionevole obiettivo della vita umana, e che le leggi abbiano il compito agevolarne il conseguimento, per quanto possibile. Che la felicità possa costituire la meta e lo scopo della vita umana, questa è un'idea in parte illuministica e roussoiana, in parte massonica; e ha come sfondo negativo l'immagine - si badi, l'immagine e non la realtà - di una società immersa nell'ignoranza e nella superstizione e oppressa dai tiranni. Una volta eliminati questi fattori di regresso, la «naturale» felicità della condizione umana non potrà che emergere irresistibilmente.

Tutti i moderni rivoluzionari sono cresciuti a questa scuola e si sono abbeverati a questa fonte, sino alla generazione del '68, nella ferma convinzione che la felicità sia la condizione naturale dell'uomo e che, una volta spezzate le catene costituite dallo «stato di minorità» (per dirla con Kant) dell'essere umano, la ragione ed il cuore saranno liberi di organizzare il migliore dei mondi possibili. Agli studenti in rivolta del Quartiere Latino e ai loro numerosi imitatori sembrava evidente che, una volta eliminati la C.I.A., l'imperialismo e l'aggressione americana nel Vietnam, pace e fratellanza avrebbero regnato e non vi sarebbe stata mai più alcuna forma di sfruttamento  dell'uomo da parta del suo simile.

 

Poche persone di media cultura lo sanno, in Occidente, ma vi sono stati numerosi e imponenti fenomeni storici di migrazione di intere popolazioni sudamericane alla ricerca della mitica Terra senza male: un luogo di benessere, armonia ed eterna giovinezza, vero e proprio Paradiso riservato fin da ora, qui sulla terra, a coloro che fossero stati capaci di sopportare duri sacrifici per conseguirlo. Parliamo delle migrazioni dei Tupi-Guarani, antichi abitatori della parte centro-orientale del Sud-America (odierni Brasile e Paraguay), periodicamente messe in moto da profeti religiosi guidati dalle loro visioni.

Così descrive il fenomeno delle migrazioni religiose dei Tupi-Guarani il famoso etnologo Alfred Métraux (Losanna, 1902- Parigi, 1963), nel suo importante libro Religioni e riti magici indiani nell'America Meridionale (titolo originale: Religions et magies indiennes d'Amérique du Sud, Gallimard, Paris, 1967; traduzione italiana di Roberto Vigevani, Il Saggiatore, Milano, 1971, 1981, pp. 20-27):

 

La mitologia di molte tribù Tupi-Guarani parla di una terra meravigliosa, detta anche Terra senza male, dove l'Antenato o l'Eroe civilizzatore si è ritirato dopo aver creato il mondo e aver recato agli uomini conoscenze essenziali alla loro sopravvivenza. È là che, dopo aver superato diverse prove, si recano alcuni morti privilegiati, sciamani o guerrieri. Questo paradiso si apre anche ai vivi che abbiano il coraggio e la costanza di è praticare faticosi riti e, guidati dal potere soprannaturale di uno sciamano, scoprano la via che vi conduce. (…)

La Terra senza male non è soltanto un luogo di delizie, è anche il solo rifugio che resterà agli uomini, quando giungerà la fine del mondo. I Guarani moderni e, senza dubbio, anche i loro antenati, hanno una concezione pessimistica dell'avvenire. Ossessionati dalla credenza nel ritorno ciclico di un cataclisma universale, di cui ogni avvenimento insolito appare loro come il segno premonitore, essi prestano un orecchio compiacente alle più nere profezie. (…)

Questa inquietudine latente per la sorte del mondo alla quale si aggiungono lo scoraggiamento  e la disperazione per il declino della loro tribù e le crescenti invasioni dei bianchi, manteneva fra i Guarani moderni un clima propizio ai movimenti di evasione di tipo messianico. Quando uno sciamano si levava fra di loro e offriva di condurli al Paradiso terrestre, centinaia e, un tempo, senza dubbio, migliaia di indios  accorrevano per tentare la grande avventura.

La saga di questi movimenti di evasione fu raccontata a Nimuendaju nel 1912 dagli Apapocuva, che una generazione prima su erano messi in marcia verso la Terra senza male, istigati da alcuni profeti, i quali, ispirati da sogni o da avvenimenti soprannaturali, avevano loro annunziato la fine prossima del mondo e li avevano persuasi a lasciarsi condurre verso di essa. Il successo dell'impresa dipendeva dalla fedele esecuzione di danze e di canti che per la loro virtù magica potevano far entrare in Paradiso. Anche nel corso della marcia, perciò, il grippo si fermava per danzare, cantare e digiunare. Il lungo viaggio nel cuore della giungla si svolgeva lentamente  in mezzo a pericoli di ogni sorta, ma tutti gli ostacoli , tribù ostili, fiere, fiumi da attraversare, erano superati dallo sciamano, che, a seconda delle occasioni, rendeva la sua gente invisibili o avvicinava  le due rive di un fiume che non poteva essere traversato. Quando imperversava la carestia, lo sciamano nutriva i suoi compagni con mezzi sovrannaturali. Ma arrivati in riva all'oceano, invano il profeta e i suoi fedeli danzarono senza sosta per volare verso il paradiso terrestre: errori rituali o semplicemente l'appesantimento derivante dalla consumazione di nutrimento europeo servirono di scusa a questi fallimenti. Il potere degli sciamani non era messo in causa, perché si era d'accordo nel dire che i capi di queste migrazioni erano finalmente riusciti a raggiungere la Terra senza male. (…)

Nel 1549 gli abitanti della città di Chachapoyas, in Perù, catturarono trecento indios, che furono identificati come Tupinamba venuti dalla costa del Brasile. Per raggiungere una terra «in cui con l'immortalità essi avrebbero trovato il riposo eterno», avevano traversato quasi tutto il continente nella sua maggiore estensione. (…)

Dobbiamo a un missionario francese, padre Claude d'Abbeville, i particolari più circostanziati che possediamo su una di queste migrazioni mistiche e sul profeta che ne era stato l'animatore. (…) Il profeta d cui padre Claude ci racconta l'avventura si era messo alla testa di otto o diecimila indios della regione di Pernambuco. Questi vedevano in lui una sorta di messia, che doveva straparli all'oppressione dei bianchi e condurli nella terra dell'eterna giovinezza. (…)

Il profeta cercava di condurre a sé gli abitanti di tutti i villaggi che traversava. Per meglio imporsi, si faceva portare sopra delle spade incrociate, ed esigeva da tutti segni di venerazione. Oltrepassò con la sua truppa la provincia di Pernambuco e una buona parte di quella di Maranhão, ma alla serra di Ibiapaba si scontrò con la resistenza accanita dei Tobajara, un'altra tribù tupinamba, e fu ucciso nel corso dell'assalto a un villaggio. I suoi partigiani, decimati dalla carestia e dalle epidemie, si dispersero.

 

Se quello dei Tupi-Guarani si può considerare, sotto molti rispetti, un caso estremo, un esame spassionato del nostro universo spirituale non tarderà a rivelarci l'esistenza, o la persistenza, di un sottofondo caratterizzato dalla sottintesa persuasione che la felicità sia, alla lettera, uno stato o un luogo dell'anima in cui il male non ha accesso.

Giungiamo così al secondo interrogativo che ci eravamo posto all'inizio, allorché ci domandavamo se un tale concetto sia giustificato, non diremo dall'esperienza concreta o anche solo dai nostri meccanismi psicologici, ma da un punto di vista puramente logico. E la risposta non può che essere negativa, posto che abbiamo verificato come l'idea stessa di felicità, che ne sta alla base, è solo un parto tanto fantasioso quanto vago e inconsistente della cultura moderna.

Secondo la scuola di Francoforte, e in particolare secondo Max Horkheimer, l'utopia non è che la risposta estrema a delle situazioni storiche estreme; cosa che si è verificata precisamente con l'avvento della modernità, ossia a partire dal tardo Rinascimento. Quando le concrete condizioni della società divengono insopportabili, nasce l'utopia. Così sono nate La città del Sole di Tommaso Campanella o Utopia di Tommaso Moro. Anche i movimenti religiosi di libertà e di salvezza dei popoli nativi nascono dall'esperienza traumatica dello scontro con i conquistatori bianchi, e i messia dei Tupi-Guarani, che vogliono condurre i loro seguaci nella Terra senza male, ne offrono un tipico esempio.

Il mito della Terra senza male esisteva già, infatti, nel panorama religioso di quelle popolazioni, ma come dimora celeste; è il trauma dell'arrivo degli Europei - con tutto il suo corollario di atrocità - che le spinge a voler concretizzare quel mito in un Paradiso terrestre, accessibile all'uomo già in questa vita.

E, probabilmente, vi gioca una parte anche la religione degli invasori, con le sue infiltrazioni sincretistiche basate sull'idea di un Regno di Dio che incomincia già, a determinate condizioni, in questo mondo. Un meccanismo analogo si trova, ad esempio, nella religione semi-cristiana della Danza degli Spettri (Ghost dance), predicata dal profeta Wovoka fra gli Indiani dell'Ovest degli Stati Uniti negli ultimi due decenni dell'Ottocento (cfr. F. Lamendola, I  Paiute  del Nevada alla  vigilia  della  predicazione di  Wovoka,  il  Messia  indiano, consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice).

 

Giunti a questo punto, possiamo cominciare a domandarci se non sia più saggio e più realistico smettere di inseguire un bene insistente, la «felicità», con il suo inquietante corollario: l'utopia; per concentrare la nostra volontà, il nostro senso di giustizia e la nostra legittima aspirazione ad una vita più piena e più autentica, in direzione delle cose possibili.

Il male fa parte della condizione umana; anzi, accanto al male fisico - che condivide con le altre creature -, l'essere umano si caratterizza per la facoltà di scelta e, quindi, per la possibilità di compiere (e subire) il male morale, mediante il quale egli spezza il legame di solidarietà che lo unisce a se stesso, ai suoi simili, al mondo e alla sfera del divino.

Irrealistico, pertanto, e potenzialmente distruttivo è un progetto di vita basato sulla cancellazione del male; anche se la lotta contro di esso, intesa come volontà di portare sollievo all'umana sofferenza, è certamente un fine degno e apprezzabile.

L'uomo, pertanto, deve muoversi come su un doppio binario: da un lato deve essere dalla parte di chi soffre e impegnarsi, per quanto possibile, ad alleviarne il dolore; dall'altro, consapevole che la condizione umana è perfettibile proprio perché ontologicamente imperfetta, deve desistere da pericolose utopie totalitarie e vedere nel dolore, non cercato né voluto, una preziosa occasione di elevazione spirituale.

Ecco perché abbiamo definito folle e sbagliato il sogno di quanti vorrebbero abolire il ricordo del dolore per via medica (cfr. F. Lamendola, Cancellare i ricordi dolorosi: l'ultimo tradimento di una scienza senza coscienza, sul sito di Arianna Editrice). Il dolore contribuisce a farci uomini, e il ricordo di esso è un elemento essenziale alla nostra crescita e alla elaborazione della nostra intima umanità.

Certo, si tratta di un mistero.

Istintivamente, vorremmo che così non fosse. Vorremmo poter credere che il male sia solo un incidente di percorso della nostra vita e, al tempo stesso, un errore di programmazione nel grande progetto dell'universo. O, in alternativa a questo, vorremmo poter credere che sia possibile ingaggiare contro di esso una battaglia risolutiva, fino al punto di vincerlo completamente e di farlo scomparire dal nostro orizzonte esistenziale.

Invece non è così.

Noi possiamo sforzarci di trascendere il male, così come possiamo sforzarci di trascendere la nostra condizione ontologica: ma senza mai perdere di vista il fatto che una cosa è la tensione, altra cosa è il raggiungimento. Nella nostra attuale condizione, non ci viene domandato di cancellare il male dal mondo, ma di combatterlo per quanto possibile e, per quanto eccede le nostre forze, di accettarlo e trasformarlo in qualche cosa di diverso, che ci purifichi da una parte delle nostre imperfezioni e ci renda un poco migliori.

Non altro.

La Terra senza male esiste, ma non è di questo mondo.

E nessuna impazienza rivoluzionaria, nessuna esaltazione escatologica potranno mai modificare un tale dato di fatto.