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Dresda, 1945. La distruzione

di Mario Grossi - 03/11/2008

 

Con mio profondo sollievo dopo 4 anni di ricerche indefesse finalmente la verità è venuta a galla.

 

 

Vengo informato da un articolo circostanziato che una commissione di storici, tra i più qualificati si dice (compaiono però nella lista dei membri un tal Gotz Bergander e Helmut Schantz entrambi con la qualifica di testimoni e poi Nicole Schonherr del Museo della donna di Dresda), ha concluso i suoi studi ed è giunta a delle conclusioni inequivocabili. Per poter leggere i resoconti di questo estenuante lavoro si dovrà attendere ancora un anno e solo allora potremo verificare che cosa ci sta scritto dentro. Sto parlando di una Commissione di storici che, istituita nel 2004, aveva come compito di accertare il reale numero di civili morti nel famigerato bombardamento di Dresda.

 

 

Per chi non ricorda i fatti nei giorni tra il 13 e il 15 febbraio 1945 Dresda fu rasa al suolo da uno dei più spaventosi bombardamenti che gli Angloamericani attuarono ai danni della popolazione civile tedesca. Dopo quattro anni di studio la Commissione voluta dalla città (dai suoi notabili) ha raggiunto il verdetto. Non ci furono 250000 morti e nemmeno il più plausibile numero di 140000. Ma di 18000 vittime si deve parlare, restituendo così una realtà storica utilizzata, dice l’articolista, e gonfiata per mera utilità di parte.

 

 

Nel corso degli anni, infatti, ci viene reso noto che dei neonazisti, per avvalorare la tesi dei tedeschi vittime di un olocausto, hanno truccato i dadi e sono riusciti a far credere a tutti che i  morti furono molti di più. Dei gruppi marginalizzati, in barba ai nugoli di storici ed accademici vari, sono riusciti in un complotto che a nessuno era riuscito. Con in testa (sempre rispolverato in queste occasioni) David Irving, che in un libro pubblicato negli anni sessanta La distruzione di Dresda, era riuscito nel suo intento, depistando le indagini e convincendo tutti i gonzi di turno che il numero di vittime oscillava tra le 100 e le 250000. Come ci fosse riuscito, un tipo screditato dall’accademia ufficiale, resta un mistero. Aveva ragione lui ed è riuscito a circuire delle ingenue verginelle, oppure le ingenue verginelle non erano in grado di intendere e di volere?

 

 

Sentite cosa scrive il giornalista per convincerci del complotto neonazista: «Nel marzo 1945, la polizia di Dresda aveva stimato che i morti fossero circa 25000. Negli anni successivi, alcuni ex-nazisti aggiunsero uno zero a ognuno dei documenti: la base della falsificazione fu così creata. La sua diffusione, però, avvenne con un lavoro dell’allora giovane David Irving, il famoso negazionista dell’Olocausto.» Come a dire che, in un tempo in cui tutti in Germania si davano alla fuga, tentavano di nascondere il proprio passato, cercavano di salvarsi la pellaccia, qualche tipo ameno apportava una correzione aggiungendo uno zero per creare il mito dei bombardamenti a tappeto. E tutti si sono fatti infinocchiare da un così palese trucco. Come fu aggiunto quello zero? A penna, a matita, in caratteri runici (tanto per avvalorare la pista neonazi)? Come dire che degli scienziati dissidenti, aggiungendo alla distanza tra la Terra e la Luna uno zero, hanno convinto la comunità scientifica di tutto il mondo che il nostro satellite si fosse d’incanto allontanato dal pianeta. Ma veramente chi scrive sui giornali può pretendere dai suoi lettori che si bevano una balla simile?

 

 

Per cui lasciamo perdere queste sciocchezze e veniamo al dunque. Fatta salva la presunta verità storica di tale approdo della ricerca ed ammesso che i morti furono veramente 18000 (la commissione informa che il numero in realtà potrebbe salire, ma solo di qualche migliaia) una tale affermazione mi fa affermare a mia volta: e chi se ne frega! Intendiamoci quel chi se ne frega non va letto come un atto di puro cinismo postumo da parte di uno smemorato e disincantato figlio della contemporaneità inconsapevole del passato. Quel chi se ne frega è motivato per quello che andrò qui di seguito sciorinando.

 

 

Primo. La conta dei morti, di qualsiasi morto, l’ho sempre trovata una pratica macabra degna del peggior necrofilo. Non solo macabra, ma totalmente sterile, in quanto non sposta di una virgola il significato di un evento. Tutte le polemiche che ciclicamente si sono susseguite dopo la pubblicazione di infiniti libri neri mi hanno sempre lasciato indifferente. I morti attribuibili al comunismo sono stati 50 o 70 milioni? E quelli della Chiesa cattolica 3 o 5? E quelli del capitalismo 20 o 28? Mi sembra squallido ridurre tutto ad un derby Milan-Inter perpetuo, giocato non su un campo di calcio ma in un cimitero.

 

 

Secondo. Trovo allucinante che in nome di una presunta verità storica un gruppo di studiosi, come ci ricorda il giornalista, per quattro anni di fila metta mano ai certificati di sepoltura, faccia ricerche archeologiche sui 34 chilometri quadrati del bombardamento, abbia cercato nuove prove scientifiche e studiato centinaia di testimonianza scritte. Ci mancava solo che si profanassero tombe e cadaveri e lo scenario sarebbe stato completo. Per dire cosa? Che i morti furono “solo” 18000 mila. E allora? Di questo se ne rende conto il giornalista che si affretta a dire che «questo studio non risolve la vecchia questione se si sia trattato di “crimine di guerra” o di “atto di guerra”: quella è una questione di letture che gli storici militari danno della necessità o meno di bombardare la città. Rimette però la verità coi piedi per terra». Come se io sulla bilancia affermassi, per rimettere la verità con i piedi per terra, di pesare 1 chilo di più e smettessi nel contempo di chiedermi se sono grasso o no! Pura futilità!

 

 

Terzo. Continua a farmi arrabbiare il fatto che si possa violare impunemente la memoria di vittime innocenti (in questo caso naturalmente qualcuno eccepirà dicendo che i civili tedeschi non erano innocenti in quanto sostenitori del “male assoluto”) solo se fanno parte di un cumulo di cadaveri che vengono ritenuti indegni di pietà (proprio perché colpevoli di un male cosmico). Ve l’immaginate voi se una commissione di storici, dopo lunghi anni di studi arrivasse ad affermare che a Dachau non perirono nel campo di concentramento 600000 internati ma “solo” 450000. Un putiferio di attacchi contro il risorgente antisemitismo e revisionismo di storici bla, bla, bla.

 

 

Quarto. Continuo ad essere convinto che il fatto in sé è importante per qualsiasi ricerca. La nozione, come quark di ogni conoscenza, è basale. Ma il puro dato non sostituisce mai la visione che ne scaturisce. Il dato informa la visione, la rende forte e veritiera ma non si sostituisce a lei. Fondamentale, per il corpo umano, lo scheletro ed i muscoli così come il cervello. Ma la vita umana è altro e di più di una semplice somma di organi. Così la Storia, che si fonda sui fatti, è altro e di più di un semplice susseguirsi di avvenimenti (che poi per me non abbia senso è un altro paio di maniche).

 

 

Quinto. Anche nel regno della quantità, il giusto e l’ingiusto non si misurano con il consenso, ma con un percorso intellettuale che permette di affermare, al di là della pura quantità numerica, il rispetto o meno dei principi (poi naturalmente bisogna mettersi d’accordo sui principi, ma questo è un altro paio di maniche ancora).

 

 

A questo punto, tra gli innumerevoli libri che hanno trattato dell’argomento, ne ho riesumato uno che, pur non essendo un testo storico, vale la pena di essere preso in considerazione, anche se steso in maniera tutt’altro che organica, perché vi si trovano interessanti spunti di contorno per inquadrare la situazione.

 

 

Sto parlando di Storia naturale della distruzione di W. G. Sebald pubblicato da Adelphi nel 2004. Il testo, è la trasposizione di una serie di conferenze che l’autore tenne a Zurigo e che ha come argomento la guerra aerea e la letteratura. Si domanda l’autore come è stato possibile che in Germania nessun autore di rilievo sia stato in grado di rappresentare, al di là del manierismo delle descrizioni che talvolta compaiono, la realtà dei bombardamenti. E da qui il ragionamento saltellante tocca i punti più infuocati della questione a partire dal senso di quei bombardamenti.

 

 

«Da che cosa sarebbe dovuta cominciare - si cheide Sebald - una storia naturale della distruzione? Da uno sguardo d’insieme sulle premesse tecniche, organizzative e politiche che consentono di realizzare attacchi aerei su larga scala? O da una descrizione scientifica del fenomeno - sino allora sconosciuto - delle tempeste di fuoco, che tracciasse la mappa, in termini patologici, delle specifiche cause di morte? Oppure da studi comportamentali sull’istinto di fuga e su quello di ritorno?

 

 

L’autore si rende conto immediatamente che non sono sufficienti i numeri a dare un significato “vero” alla catastrofe che si scatenò sulle città tedesche. «È difficile riuscire oggi a farsi un’idea anche solo vagamente adeguata dell’immane devastazione che s’abbattè sulle città tedesche negli ultimi anni della seconda guerra mondiale,… la sola Royal Air Force sganciò sul territorio nemico un milione di tonnellate di bombe in quattrocentomila incursioni, che delle centotrentuno città attaccate parecchie vennero quasi interamente rase al suolo, che fra i civili le vittime della guerra aerea in Germania ammontarono a seicentomila persone, che tre milioni e mezzo di alloggi andarono distrutti, che alla fine del conflitto i senzatetto erano sette milioni e mezzo, che a ogni abitante di Colonia,  e a ogni abitante di Amburgo o Dresda toccarono rispettivamente 31,4 e 42,8 metri cubi di macerie - anche se tutto questo ci è noto, non sappiamo però che cosa significhi nella realtà. Quell’opera di annientamento, senza precedenti nella storia… » non sappiamo bene cosa fu.

 

 

Vanno prese in considerazione intanto le premesse, ideologiche prima e logistiche poi, partendo da una domanda sempre presente in tutti gli studi e in tutte le valutazioni che di questi fatti si sono date. «Il piano di bombardamenti indiscriminati, caldeggiato fin dal 1940 da alcuni gruppi all’interno della Royal Air Force e messo in atto a partire dal febbraio 1942 con immenso dispendio di risorse umane ed economico-militari, era strategicamente o moralmente giustificabile? E, in caso affermativo, in che modo?».

 

 

La strategia del cosiddetto area bombing ebbe origine dalla posizione assolutamente marginale in cui era venuta a trovarsi la Gran Bretagna nel 1941. La Germania era al culmine della sua potenza e Churchill scrisse che la via per obbligare Hitler a confrontarsi con gli inglesi era una sola «and that is an absolutely devastating exterminating attack by very heavy bombers from this country upon the Nazi homeland.»

 

 

Scopo di questa strategia era «to destroy the morale of the enimy civilian population and, in particular, of the industrial workers». Anche quando fu chiaro che questo tipo di strategia terroristica non portava a nessun significativo risultato e quando sarebbe stato possibile scatenare attacchi aerei molto più precisi e selettivi che avrebbero potuto paralizzare l’intero sistema produttivo si continuò nei bombardamenti indiscriminati. Qui Sebald introduce una duplice interpretazione che porterebbe a spiegare perché non si abbandonò questa strategia. Da un lato: «un’impresa con le dimensioni materiali e organizzative richieste da una simile offensiva aerea, che ingoiava un terzo della produzione bellica britannica, essa aveva raggiunto il massimo sviluppo, vale a dire la massima capacità distruttiva. Abbandonare lì, inutilizzati, sui campi d’aviazione dell’Inghilterra orientale i materiali ormai prodotti, era un’idea cui si ribellava il sano istinto economico».

 

 

Dall’altro: la mentalità di sir Arthur Harris (Commander in Chief of Bomber Command) il qule credeva nella distruzione per la distruzione e «rispondeva quindi al fondamentale principio ispiratore di qualsiasi guerra: il più completo annichilimento del nemico, compresi i luoghi di questi abitanti, la sua storia e il suo ambiente naturale». La linea di Harris era «la distruzione in quanto tale. La guerra costruita sui bombardamenti era guerra in forma pura e scoperta e i civili non sono più vittime sacrificate sulla via che conduce a un qualche obiettivo, bensì esse stesse - nel vero senso del termine - e l’obiettivo e la via.»

 

 

Da un lato quindi la ruota produttiva che non si ferma e deve consumare i suoi prodotti (aerei e bombe) immettendoli sul mercato (della guerra) e dall’altra la mente criminale di Harris che porta alle estreme conseguenze il significato della guerra terroristica trasformando i civili da “danni collaterali” a obiettivi in sé. Ma se tutto questo spiega le premesse ed il significato di questo “crimine di guerra”, che molti vorrebbero derubricare a semplice “atto di guerra”, la descrizione dell’attacco aereo su Amburgo (il nome in codice, “Operazione Gomorra“, la dice lunga sulla mentalità degli incursori) dà invece la dimensione apocalittica in cui i civili si trovarono coinvolti.

 

 

«Durante l’attacco del 28 luglio (1943), che iniziò all’una di notte, furono sganciate diecimila tonnellate di bombe dirompenti e incendiarie sulla zona residenziale a est dell’Elba, zona densamente popolata. Seguendo una tecnica già sperimentata, in primo luogo si scardinarono e si distrussero tutte le porte e le finestre mediante bombe dirompenti da poco meno di due tonnellate l’una, quindi con piccoli ordigni incendiari si appiccò il fuoco ai solai, mentre in contemporanea bombe incendiarie capaci di raggiungere i quindici chilogrammi penetravano fin nei sotterranei. Nel giro di pochi minuti, sui circa venti chilometri quadrati dell’area attaccata, scoppiarono giganteschi incendi e si propagarono così rapidamente che, già un quarto d’ora dopo la caduta delle prime bombe, l’intero spazio aereo divenne - a perdita d’occhio - un unico mare di fiamme. Il fuoco, levandosi nel cielo in vampe alte duemila metri, attirava a sé l’ossigeno con una violenza tale che le correnti d’aria raggiunsero la forza di uragani e rintronarono come poderosi organi nei quali fossero tirati all’unisono tutti i registri. L’incendio continuò così per tre ore. Giunta al culmine, la tempesta prese a sollevare i cornicioni e i tetti delle case, fece mulinare nell’aria travi ed intere file di pannelli pubblicitari, sradicò alberi e trascinò con sé esseri umani trasformati in fiaccole viventi. Dietro le facciate che crollavano, lingue di fuoco alte come palazzi salivano al cielo: simili a una mareggiata, si riversarono nelle strade a una velocità di oltre centocinquanta chilometri l’ora, come rulli di fuoco aperti. In alcuni canali ardeva l’acqua. Nelle carrozze dei tram si scioglievano i finestrini. Chi era scappato dai rifugi cadeva adesso, in grotteschi contorcimenti, sull’asfalto liquefatto che si gonfiava in grosse bolle. Nessuno sa con certezza quanti abbiano perso la vita quella notte o quanti siano impazziti prima di essere colti dalla morte. Al sopraggiungere dell’alba, la luce estiva non riuscì a fendere la cappa di piombo che sovrastava la città. Il fumo aveva raggiunto gli ottomila metri di altezza e lassù si era allargato in un gigantesco ammasso nuvoloso e cumuliforme, simile a un’incudine. Ovunque corpi orribilmente dilaniati. Su alcuni guizzavano ancora le fiammelle azzurrognole del fosforo; altri bruciando avevano assunto un colore bruno o purpureo e si erano ridotti a un terzo della loro grandezza naturale. Giacevano contorti nelle pozze del loro grasso in parte già solidificato. Si rinvennero anche ammassi di carne e di ossa o intere montagne di corpi, lessati nell’acqua bollente che era schizzata fuori dalle caldaie esplose; altri, ancora, furono scoperti ormai carbonizzati e ridotti in cenere a causa del calore che aveva superato i mille gradi.»

 

 

Vi risparmio le descrizioni più crude: mosche e topi in coesistenza coatta con i superstiti in un fetore crescente. Un vero e proprio inferno voluto e perseguito come una sorte di giudizio universale anticipato e prodotto dagli angeli sterminatori che a cavallo dei loro uccelli d’acciaio si convinsero che quei roghi potessero purificare una nazione rea di essersi alleata col Maligno. Magistrale a tal proposito la descrizione del bombardamento dello zoo di Berlino con i pachidermi impazziti. Annota l’autore che bombardare uno zoo che dovrebbe simboleggiare un Paradiso terrestre corrispondeva ad evocare un inferno contrapposto a quel paradiso terrestre ed alla terra che lo ospitava.

 

 

Indicativo infine questo dialogo all’interno di un aereo alleato al ritorno da una missione tra i membri dell’equipaggio che commentano tra loro. Uno dice esaltato: “By God, that looks like a bloody good show“. Un altro: “Best I’ve ever seen“. E un terzo:”Look at that fire! Oh boy!”

 

 

Ed anche se il macabro balletto delle cifre continua, di crimini di guerra si trattò e non sarà una commissione di storici che sembra più una banda di becchini a poter dimostrare il contrario.

 

 

 

 

 

 

 

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