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La libertà di parola è finta

di Mark Twain - 27/01/2009

     
 
 
Mark Twain espone, nel saggio The Privilege of the Grave, scritto nel 1905 ma finora inedito, l’idea che la libertà di parola è solo un’illusione perché è fortemente condizionata dalla volontà di uniformarsi all’opinione pubblica.
L’esempio più evidente per Twain è costituito dai progetti politici nuovi e innovativi: al loro apparire, la maggior parte della gente non si schiera né contro né a favore, ma aspetta che l’orientamento prevalente si esprima chiaramente per poi accodarsi. Solo dalla tomba, secondo Twain, gli uomini possono realmente godere della libertà di parola, perché da morti le conseguenze di posizioni impopolari non ricadono su chi le sostiene.


Un privilegio di cui nessuna persona vivente gode: la libertà di parola. Chi è in vita non è del tutto privo, a rigore, di un tale privilegio, ma dato che lo possiede solo come vuota formalità e sa di non poterne fare uso, non possiamo considerarlo un effettivo possesso. In quanto privilegio attivo, è simile al privilegio di poter commettere un omicidio: si può esercitarlo se si è disposti a sopportarne le conseguenze. L’omicidio è proibito sia formalmente che di fatto, la libertà di parola è formalmente permessa, ma di fatto proibita. Per l’opinione comune sono crimini entrambi, tenuti in grande spregio da tutti i popoli civili. L’omicidio è a volte punito, la libertà di parola lo è sempre, qualora venga esercitata. Il che avviene raramente. [...] Questa riluttanza a esprimere opinioni impopolari è giustificata: il prezzo da pagare è assai alto, può comportare la rovina economica di un uomo, può fargli perdere gli amici, può esporlo al pubblico ludibrio e alla violenza, può condannare all’emarginazione la sua famiglia innocente e rendere la sua casa un luogo desolato, disprezzato ed evitato da tutti.
Nel petto di ogni uomo si cela almeno un’opinione impopolare sulla politica o sulla religione, e in molti casi se ne trova ben più di una. Più l’uomo è intelligente, maggiore è la quantità delle opinioni di questo tipo che ha e che tiene per sé. Non c’è individuo — compreso il lettore e me stesso — che non sia in possesso di convinzioni impopolari, che coltiva e accarezza e che il buon senso gli vieta di esprimere. A volte sopprimiamo un’opinione per ragioni che ci fanno onore, non onta, ma più spesso lo facciamo perché non possiamo sostenere l’amaro costo di dichiararla. A nessuno di noi piace essere odiato, a nessuno piace essere evitato.
Una naturale conseguenza di questa condizione è che, consciamente o inconsciamente, facciamo più attenzione ad accordare le nostre opinioni con quelle del nostro vicino e a mantenere la sua approvazione piuttosto che a esaminarle con scrupolo per vedere se siano giuste e fondate. Quest’abitudine produce inevitabilmente un altro risultato: l’opinione pubblica che nasce e si alimenta in questo modo non è affatto un’opinione, è semplicemente un atteggiamento; non suscita riflessioni, è priva di principi e non merita rispetto.
Quando un progetto politico del tutto nuovo e non sperimentato viene presentato alla gente, questa è sorpresa, ansiosa, intimidita e per qualche tempo resta muta, reticente, incapace di schierarsi. La gran parte non studia la nuova dottrina per farsene un’idea, ma aspetta di vedere quale sarà l’orientamento prevalente. Il movimento antischiavista, quando ebbe inizio nel Nord tre quarti di secolo fa, non suscitò nessuna simpatia. La stampa, il clero e la grande maggioranza delle persone rimasero indifferenti. Questo avvenne per timidezza, per paura di esprimersi e diventare impopolari, non perché si approvasse la schiavitù o non si commiserassero gli schiavi. Non fanno eccezione a questa regola neanche gli Stati, come quello della Virginia, e neanche io stesso: ci siamo aggregati alla causa dei
Confederati non perché lo volessimo, non era così, ma perché volevamo essere come gli altri. [...] È il desiderio di essere come gli altri che porta al successo i partiti politici. Non c’è — nella maggioranza — un motivo particolarmente elevato per aderire a un partito, a meno che non si ritenga tale il fatto che ne facesse parte il proprio padre. Il cittadino medio non è uno studioso delle dottrine dei partiti, e a buon diritto: né lui né io saremmo in grado di capirle. Se gli chiedessimo di spiegare in modo dettagliato perché abbia preferito una bandiera a un’altra, il risultato del suo sforzo sarebbe penoso. Lo stesso vale per la questione delle protezioni doganali. Lo stesso vale per qualsiasi altra grande dottrina politica; perché tutte le grandi dottrine politiche sono piene di problemi difficili — problemi molto al di sopra della portata del cittadino medio. E questo non è strano, dato che sono anche al di sopra della portata delle più acute menti del Paese; dopo tanto chiasso e tante chiacchiere, per nessuna di queste dottrine si è potuta fornire la definitiva dimostrazione che fosse quella giusta, la migliore.
Quando un uomo ha aderito a un partito, è probabile che ci rimanga. Se cambia opinione — intendo il modo di sentire, di pensare — è probabile che continui a restarci ugualmente; i suoi amici appartengono a quel partito; terrà quindi per sé il diverso modo di sentire, e sosterrà pubblicamente quel che in privato ha rinnegato. In questo modo, e non in altri, può godere del privilegio americano della libertà di parola. Di questi poveretti se ne trovano in entrambi i partiti, ma non è possibile dire in quale proporzione. [...]
La libertà di parola è il privilegio dei morti, il monopolio dei morti. Essi possono dire quel che pensano senza ferire (...). Ma allora perché non farlo dalla tomba e prenderci questa soddisfazione? Perché non parlarne nel nostro diario, invece di tralasciarli con discrezione? Perché non metterceli e lasciare poi il diario agli amici? La libertà di parola è davvero desiderabile. Me ne sono accorto a Londra, cinque anni fa, quando i simpatizzanti dei
Boeri — persone rispettabili, bravi cittadini che pagano le tasse, con tutto il diritto di avere le proprie opinioni come ogni altro cittadino — sono stati attaccati durante le loro riunioni, e i loro oratori sono stati maltrattati e allontanati dal palco da altri cittadini che avevano opinioni diverse. Me ne sono accorto in America, quando anche da noi abbiamo aggredito chi si riuniva e malmenato gli oratori. E me ne accorgo particolarmente ogni settimana o due, quando voglio dare alle stampe qualcosa che la discrezione mi direbbe di non pubblicare. A volte i miei sentimenti sono così violenti che devo prendere la penna e riversarli sulla carta per impedire che il loro fuoco si consumi dentro di me; ma tutto quell’inchiostro e quella fatica vanno sprecati, perché non posso pubblicare quel che scrivo. Ho appena finito un articolo di questo genere, e ne sono molto soddisfatto. Fa bene alla mia anima tormentata leggerlo e considerare i problemi che creerebbe a me e alla mia famiglia. Lo lascerò ai posteri, e lo renderò noto dalla tomba. Lì c’è libertà di parola e non si può far danno alla famiglia.

Inedito di Mark Twain The Privilege of the Grave, scritto nel 1905. Il testo uscirà in aprile da HarperStudio nella raccolta Who is Mark Twain? introdotta da Robert Hirst, responsabile di “The Mark Twain Papers & Project” dell’Università di Berkeley: una raccolta esaustiva dei testi di Twain.