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La civiltà post-moderna ha fatto fallimento; dobbiamo rimpiazzarla con una civiltà nuova

di Francesco Lamendola - 14/05/2009


 

Carlo Gnocchi (1902-56), il noto educatore e fondatore di numerose opere di assistenza ai bambini orfani, invalidi e malati, che aveva fatto la seconda guerra mondiale come cappellano militare degli alpini e ne aveva tratto una lezione di vita fondamentale, così sintetizzava il bivio cui è giunta la  civiltà odierna (in: «Restaurazione della persona umana», Brescia, La Scuola Editrice, 1946, pp. 209-11):

«… L'era medioevale fu caratterizzata dalla presa di coscienza dell'infinito, di Dio, del regno dei cieli, del soprannaturale, del lassù: scoperta delle dimensioni ultraterrene dell'uomo; primato dello spirito e dell'eterno; umanesimo teocentrico.
L'era moderna, tuttora in corso di evoluzione, è caratterizzata invece dalla presa di coscienza del finito, dell'uomo e del suo regno terrestre, del materiale e del quaggiù: scoperta delle dimensioni infraterrene dell'uomo; primato del materiale e del temporale; umanesimo antropocentrico.
Contro il cristiano, uomo della dipendenza suprema e delle speranze eterne, si è levato l'uomo laico, vale a dire l'uomo della sufficienza, un "desesperado", per il quale la speranza di un avvenire diverso da quello terreno è morta e non esiste che questo visibile e palpitante mondo di cui egli vuole essere il re e il signore incontrastato.
"Bisogna assolutamente credere - dice Kirillof ne […] "I Demoni" di Dostojevskij - che non vi è nulla al di fuori del finito, che l'essere è tutto nel finito". Dio, il vecchio Iddio della religione, non è che un mito creato dal senso di dipendenza e di limitazione dell'uomo antico. "Dio non esiste, ma è là.. Dio è la sofferenza causata dalla paura della morte". Tale soggezione umiliante e tale timore non si possono vincere che affermando la propria assolutezza e sufficienza. "Colui che vincerà la sofferenza e il dolore sarà lui stesso Iddio". Il Dio di lassù sarà allora inutile e l'uomo diverrà lui stesso Iddio, avendone conquistato la dote fondamentale della completa sufficienza.
Ma poi ché la legge dell'uomo è quella del servizio, in realtà le cose non sono andate esattamente così.. L'uomo moderno, dovendo pur servire a qualche cosa, e, d'altra parte, non volendo servire a Dio, ha finito per fabbricarsi dei miti e servir loro ciecamente (così come gli antichi si fabbricavano gli idoli da adorare). Il mito non è che trasposizione dell'idea e del valore divino nella realtà terrena e diventa il polo indispensabile per organizzare la vita individuale e collettiva e per conferire ad essa un significato intelligibile ed una ragion d'essere.
Nacquero così le grandiose costruzioni di pensiero e di vita proprie dell'età moderna, autentici tentativi della laicità e della disperazione dell'uomo moderno di organizzare la vita finita.
Nacque il capitalismo: sistema di vita e di pensiero organizzato intorno al valore "interesse" e al mito della ricchezza, coalizione astiosa dei detentori della ricchezza e del suo potere contro la massa minacciosa dei suoi pretendenti, contro il proletariato.
Nacque il comunismo: organizzazione della vita individuale e associata intorno al valore della classe, esplosione del risentimento degli esclusi e dei diseredati contro i detentori del potere, del mondo e della sua ricchezza, fanatizzato dal mito del benessere.
Nacque lo statalismo totalitario, organizzazione della vita intorno al mito della nazione, della razza e dello Stato: esperimenti del nazismo, del fascismo e della statolatria.
In tutte queste poderose organizzazioni del mondo una cosa però è certa: che esse si ridussero storicamente e si riducono praticamente a una sempre più avvilente degradazione e schiavitù della persona umana: schiavitù dell'uomo al potere della macchina, e del danaro nel capitalismo, schiavitù dell'individuo alla violenza della massa e della collettività nel comunismo, schiavitù dell'uomo ala strapotenza dello Stato nello statalismo totalitario.
La civiltà moderna ha dunque fatto fallimento, in quanto essa ha mancato al programma essenziale propostosi nella sua rivolta contro la civiltà medioevale: cioè l'indipendenza assoluta dell'uomo e la sua nuova regalità laica.
L'uomo moderno è caduto via via sotto le degradanti schiavitù della ricchezza, dello Stato, della classe e, dal giorno della sua ribellione a Dio, non è mai stato così schiavo come oggi. Ecco perché noi parliamo di crisi della civiltà contemporanea, di tramonto dell'era laica e di bancarotta dell'uomo moderno.»

Don Gnocchi chiudeva gli occhi nel febbraio del 1956, stringendo nelle mani un crocifisso regalatogli dai suoi bambini invalidi; egli presentiva imminente l'avvento di un'era cristocentrica e, troppo impaziente ed ottimista, non immaginava che la nemesi della civiltà moderna doveva ancor toccare il suo punto più basso, il suo Nadir, caratterizzato dal crollo delle orgogliose sicurezze del finito, ma non ancora illuminata dall'esigenza del ritorno alla spiritualità.
Egli non vide, in altre parole, l'avvento di una nuova civiltà, la civiltà post-moderna, e di un nuovo tipo umano, il cosiddetto «quarto uomo» - dopo l'uomo greco, cristiano e moderno -, interamente dominato da quella che Herbert Marcuse ha definito «l'euforia dell'infelicità», e del quale abbiamo parlato specificamente nell'articolo «L'uomo post-moderno è il figlio della dilatazione illimitata del desiderio» (consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice).
Ma anche questa nuova civiltà, nata dalle contraddizioni e dalle esasperazioni non più componibili della precedente, è giunta al tracollo e ha fatto bancarotta, nello spazio incredibilmente breve di circa mezzo secolo.
Si tratta di una bancarotta rovinosa e totale, che le varie forme del cosiddetto «pensiero debole» vorrebbero mascherare e dissimulare, ma che appare in tutta la sua gravità a tutti coloro i quali la sappiano guardare con la necessaria onestà intellettuale: essa ha fallito, non perché incapace di mantenere le proprie promesse, come la civiltà moderna, ma per la sua deliberata volontà di rinunciare a porre all'uomo delle mete in sintonia con la dignità e la ricchezza della sua essenza spirituale.
In altri termini, se la civiltà moderna è implosa per l'orgogliosa e temeraria ambizione di dare all'uomo delle mete impossibili  - in pratica, sostituirsi a Dio quale entità da adorare -, quella post-moderna si sta dissolvendo per la stanchezza senile che ne ha caratterizzato la beve, convulsa parabola; e, in particolare, per l'incapacità di porsi delle mete quali che siano, all'infuori del dissennato inseguimento di una felicità fatta consistere unicamente nel possesso illimitato e nel continuo spreco di beni e servizi.
Se questa è la diagnosi, resta la prognosi; resta, in particolare, la necessità di indicare una possibile via di uscita dalle secche in cui la civiltà post-moderna si è arenata, dalla mefitica palude nella quale ci siamo venuti a trovare intrappolati.
Ne abbiamo già parlato diffusamente in parecchi saggi ed articoli e in una serie di conferenze pubbliche, e specialmente in «Per una ricostruzione del pensiero post-moderno» e «Per una ricostruzione dell'estetica contemporanea» (entrambi reperibili sul sito di Arianna Editrice). In questa sede, pertanto, non ci limiteremo che a fornire qualche ulteriore spunto di riflessione, rimandando il lettore alla consultazione di quei testi.
La prima cosa che occorre mettere in evidenza è che alle persone di buona volontà, siano esse intellettuali o individui qualsiasi, lavoratori e lavoratrici, padri e madri di famiglia, giovani, anziani, è richiesto un supplemento di coraggio intellettuale e d'indipendenza di giudizio, quale non era - forse - necessario due o tre generazioni fa, quando le basi morali e spirituali della nostra società, pur essendo già intaccate dal cancro che le avrebbe consumate, non erano però contestate esplicitamente.
Oggi, pertanto, una persona di buona volontà non solo è chiamata a percorrere la strada che la vita le ha assegnato con onestà, generosità e rigore morale, ma anche a procedere incurante del dileggio e dello scherno che è divenuto di moda riservare a quanti ancora mostrano di cedere in un valore trascendente, in qualche cosa che vada al di là dell'utile immediato o del rispetto puramente formale per le forme costituite della vita associata.
Questo è particolarmente vero nell'ambiente intellettuale, ove chi non professa il più banale e piatto materialismo viene accompagnato da un atteggiamento di sufficienza e, specie nell'ambito della scienza, trova infiniti ostacoli alla propria carriera accademica.
E, d'altra parte, non è meno vero al livello della vita quotidiana delle persone comuni, ove parlare di onestà e dedizione sul lavoro, di spirito di servizio nella cosa pubblica, o anche solo di armonia e collaborazione nell'ambito familiare, fa scattare quasi immancabilmente il riflesso condizionato del sospetto, dell'antipatia, della malevolenza, come se nascondesse chissà quale insidia e chissà quale inconfessabile secondo fine.
Per cui si può affermare, senza timore di esagerazione, che la cosa più semplice è quella divenuta ormai più difficile: avere la coerenza di accordare le proprie parole e i propri atti con un sistema di valori «forti», e mostrare concretamente di non essere disposti ad anteporre i vantaggi economici e materiali alla dignità della persona, propria ed altrui.
Non verrà mai deprecato abbastanza, in questo senso, il pessimo esempio che continua a diffondersi tra la società da parte della classe dirigente, e particolarmente della classe politica (ma anche della magistratura, della cultura, delle comunicazioni di massa), in base al quale sembra proprio che qualunque cosa, a questo mondo, sia - alla fine - riducibile solo e unicamente a una questione di prezzo, e che ogni uomo sia disponibile a mettersi in vendita al migliore offerente, in cambio di qualche meschino vantaggio personale.
La seconda cosa su cui è necessario insistere, se davvero si crede alla necessità di ricostruire dalle fondamenta la nostra civiltà, è che bisogna avere il coraggio di rivedere i giudizi troppo severi e frettolosi con i quali ci siamo sbarazzati di tutto ciò che costituiva la nostra guida intellettuale, morale e spirituale, gettando via il bambino appena nato - come si usa dire - insieme all'acqua sporca.
Bisogna avere il coraggio, in altri termini, di ammettere che abbiamo peccato di fretta, di orgoglio e di mancanza di senso della misura, e che dobbiamo ripercorrere una parte del cammino degli ultimi decenni, per ritrovare il punto a partire dal quale abbiamo abbandonato la via maestra. E ciò significa ritrovare sufficiente umiltà e sufficiente franchezza per riconoscere il nostro errore e per cercare di porvi rimedio.
Certo che un ritorno ai valori di ieri, puramente e semplicemente, non sarà sufficiente; e nemmeno sarà possibile. Qualche cosa è cambiato, nel frattempo; anzi, moltissime cose sono cambiate: e la via che era giusta fino a qualche anno fa, ora non sarebbe più percorribile, né idonea a portarci fuori dal guado.
Nessun passatismo ci potrà salvare; ma neppure nessuna fuga in avanti. Noi dovremo essere capaci di procedere ricordando, come insegnava Kierkegaard, attuando il movimento più difficile e tuttavia  più prezioso che sia dato di compiere alla natura umana (cfr. i nostri precedenti articoli «Kierkegaard, maestro del ritorno in noi stessi, è la guida per uscire dalla palude» e «La ripresa non è il ritorno dell'uguale, ma il procedere ricordando in forza del religioso», sempre consultabili sul sito di Arianna Editrice).
La terza cosa fondamentale è la consapevolezza che solo rifondando il valore trascendente e integrale della persona umana; solo ricostruendo l'armonia con gli altri esseri umani e con la natura tutta; solo ridimensionando le pretese arroganti del Logos strumentale e calcolane, e riscoprendo entro di noi l'incanto del mondo, potremo sperare di trarci fuori dalla palude stagnante ove siamo sprofondati, e puntare ad un futuro migliore: se non per noi, almeno per le prossime generazioni, verso le quali abbiamo delle precise responsabilità.
E poi, avanti: domani è un altro giorno.
Ma non con l'ottimismo miope e facilone di chi ritiene di poter perseverare impunemente per la via sbagliata, pensando che le cose, alla fine, si metteranno a posto da sole.
Al contrario, l'ottimismo è una virtù utile e necessaria, ma solo nelle mani di coloro che possiedono la triplice disposizione di spirito di cui parlava Dante: vedere dirittamente; volere con altrettanta perseveranza; e, soprattutto, essere capaci di amare.