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Molti nodi da sciogliere

di Giovanni Petrosillo - 25/11/2009


La crisi economica, ci viene suggerito da specialisti e supercompetenti in materia, è alle spalle,
scongiurata, superata, schivata, un pericolo scampato, ridotti i suoi effetti più nefasti, un brutto
ricordo che non turberà più i sogni di sviluppo e di prosperità mondiale.
Sarà pure così ma come fidarsi di chi lo afferma? Si tratta, in primo luogo, dei prezzolati esperti di
cui sopra (sono gli stessi “cantastorie” che, dall’alto delle loro cattedre e dei giornali più diffusi
hanno celebrato, fino all’ultimo minuto, additando beffardamente i pochi “uccellacci” del
malaugurio in dissenso con le loro prospettive rosee, l’infinito benessere portato dalla
globalizzazione) e poi i politici di ogni fede e colore, non così tecnicamente esperti ma comunque
abili a diffondere ottimismo e fiducia nel tentativo, un po’ maldestro e contraddetto dai fatti, di
ridare credibilità ad un sistema gravemente screditato dalle fondamenta, in seguito allo tsunami
finanziario abbattutosi violentemente sulle “coste” dei paesi avanzati.
Ma la devastazione finanziaria è soltanto qualcosa di epidermico, appena un sintomo, un segnale
che ci indica il punto X dove scavare per sollevare quello strato ideologico che obnubila le reali
causae causantes di questo crollo. Occorre indagare le dinamiche fondamentali che agiscono
“sottotraccia” e che hanno scatenato la destabilizzazione del cosiddetto ordine occidentale. Badate
bene, non stiamo sostenendo che il sistema sta per esalare i suoi ultimi respiri per lasciare campo
aperto ad una nuova formazione sociale, magari di tipo socialista o socialista del “terzo tipo” (dopo
l’utopico ingegneristico ottocentesco e il reale novecentesco, quello bolivarista del XXI secolo),
tutte cose molti distanti da Marx; abbiamo ancora le rotelle a posto, al contrario dei sognatori
idealisti che con le loro profezie da quattro soldi (o dovrei dire da trenta denari?) illudono sé stessi e
quei poveri seguaci abbacinati dalle loro pericolose allucinazioni. Quello che vogliamo sostenere, in
maniera più prosaica e verosimile, è che siamo giunti ad un punto di rottura irreversibile (di cui la
crisi economica è appunto effetto e non causa) essendo definitivamente tramontata la stagione
dell’unipolarismo americano mentre si vanno affacciando sulla scena mondiale nuove potenze
pronte a contendere o a limitare la sfera egemonica statunitense estesasi, dopo l’epoca precedente
(quella dischiusasi con la fine del bipolarismo USA-URSS), quasi all’intero pianeta.
Ultimamente, i panegirici e i discorsi ditirambici sulla prosperità generalizzata che la
globalizzazione avrebbe assicurato a tutti i popoli della terra, inaugurando così una nuova età
dell’oro senza limiti di tempo e di spazio (e ovviamente di pudicizia conclamatoria!), si fanno
fortunatamente meno frequenti, soprattutto perché stridono lapalissianamente, e la gente non è cieca
fino a questo punto, con quella riconfigurazione degli assetti del potere internazionale che hanno
reso il mondo un posto tutt’altro che armonizzato e arbitrato dalle regole neutrali del mercato.
La politica è tornata in primo piano contenendo la macchinazione ideologica messa a punto nel
periodo in cui gli statunitensi non avevano rivali né concorrenti geopolitici seri, per cui potevano
permettersi di raccontar(ci) storie su di un’umanità affratellata in nome di un progresso
unidirezionale e generalizzato.
“Stranamente” - e i cosiddetti analisti, come dei rimbambiti, sono ancora lì che si interrogano su
questa supposta stranezza - il tracollo della global economy, ossia di questa fregatura a marca
capitalistica statunitense (per molto tempo rimasta avvolta in una grande narrazione universalistica),
coincide proprio con il disfacimento della supremazia della potenza centrale messa in ginocchio,
tanto sia sul piano economico che su quello geopolitico. Qualcosa questa “coincidenza” vorrà
significare e non cogliere determinate liaisons vuol dire essere del tutto deficienti oppure mentitori
spudorati al servizio dei peggiori dominanti.
Eppure quei decisori politici, oggi recuperati alle funzioni regolatrici dello Stato anche nella sfera
del mercato, sono gli stessi uomini che nel pieno dell’ubriacatura finanziaria, in seguito alla quale
credevano di aver scoperto il lapis philosophorum dell’eterna giovinezza del capitalismo – in verità
un mero effetto ottico derivante dallo “spaccio” incontrollato degli strumenti della finanza
champagne o “creativa”, “sfuggita” al controllo degli organi di sorveglianza nazionali e delle varie
agenzie di rating (angloamericane) – agivano con molta timidezza e riverenza, probabilmente
accecati dalla loro stessa ideologia, timorosi di inceppare un così virtuoso meccanismo dispensatore
di ricchezza e di benessere globale.
Già questi elementi sono sufficienti a mostrare la natura falsificatrice della partita ideologica
giocata, a più riprese, tra i sostenitori “del pubblico” e quelli “del privato” a “targhe” epocali
alterne. Questi, a seconda del momento storico, portano in scena attori preventivamente addestrati a
interpretare la loro parte sul palcoscenico sociale, parlando ora con la voce del laissez faire ora con
quella statalista, recitando inevitabilmente la medesima sceneggiatura con poche variazioni sul
tema.
Più volte, dalle pagine di questo blog, abbiamo messo in guardia dalle facili infatuazioni dottrinali
(attinenti alle manifestazioni “formali” del sistema capitalistico che, in quanto tali, rappresentano
una schermatura e un nascondimento di ben altro contenuto, quello della corrente conflittuale che
informa di sé le varie formazioni sociali) e dal ruolo antitetico-polare vestito dalla destra, campione
del liberismo, e dalla sinistra, campione dello statalismo, nel portare in auge la farsa di una
contrapposizione politico-ideologica inesistente nei fatti. Quindi, in questa sede, non ci ripeteremo
ma vorremmo riportare alla vostra memoria le parole, già trascritte in una precedente occasione, di
Thomas Friedman, saggista americano e influente opinion maker, parole che confermano la
giustezza del nostro impianto teorico: “La mano invisibile del mercato globale non opera mai senza
il pugno invisibile. E il pugno invisibile che mantiene sicuro il mondo per il fiorire delle tecnologie
della Silicon Valley si chiama Esercito degli Stati Uniti, Marina degli Stati Uniti, Aviazione degli
Stati Uniti, corpo dei Marines degli Stati Uniti (con l'aiuto, incidentalmente, delle istituzioni globali
come le Nazioni Unite e il fondo monetario internazionale... per questo quando sento un manager
che dice 'non siamo una compagnia statunitense. Siamo IBM-USA, o IBM-Canada, o IBMAustralia,
o IBM-Cina', gli dico 'ah si? bene, allora la prossima volta che avete un problema in
Cina chiamate Li Peng perché vi aiuti. E la prossima volta che il Congresso liquida una base
militare in Asia - e voi dite che non vi riguarda, perché non vi interessa quello che fa Washington -
chiamate la marina di Microsoft perché assicuri le rotte marittime dell'Asia. E la prossima volta
che un congressista repubblicano principiante chiede di chiudere più ambasciate statunitensi,
chiami America-On-Line quando perde il passaporto' ". Questo è l'"impero realmente esistente", e
lo "sceriffo solitario" di cui parla Huntington, con l'onnipresenza degli stati metropolitani, e
soprattutto dello stato fondamentale per la preservazione della struttura imperialista mondiale: gli
Stati Uniti; con la proliferazione delle grandi imprese "nazionali" a proiezione globale appoggiate
dai loro stati (gli stessi che nella loro candida fantasticheria Hardt e Negri credevano scomparsi) e
con la decisiva componente militare che caratterizza questa epoca - nella quale si dice che i popoli
stanno raccogliendo i dividendi della 'pace mondiale', una volta implosa la vecchia URSS, causa
dell'equilibrio del terrore atomico degli anni della Guerra Fredda - nella quale, paradossalmente,
fiorisce la dottrina della "guerra infinita", interminabile e contro tutti, proclamata da George W.
Bush”.
Quindi né Stato contemperatore degli interessi generali, né mano incorporea operante per la
maggiore coordinazione delle risorse, delle merci e della forza-lavoro sui mercati di tutto il mondo,
ma pugno prepotente, ovvero esercizio della forza e della violenza attraverso apparati e corpi
speciali in armi, cioè conflitto per la supremazia, tanto all’interno che all’esterno di ciascuna
formazione sociale. Queste intuizioni teoriche, con le conseguenze che comportano in ambito
politico, sono state approntate da La Grassa in un saggio che speriamo trovi al più presto un editore
e nel suo ultimo pamphlet pubblicato sul blog col titolo “Presa di posizione netta”. Sono entrambi
due manifesti che sviscerano le posizioni del blog nella sua compattezza. Proprio sulla coppia
ideologica pubblico-privato, le parole di La Grassa suonano come una sentenza inappellabile e
sgombrano il campo dall’accusa che ci viene rivolta da ambienti di sedicenti ultrarivoluzionari,
ormai del tutto psicolabili e socialmente deviati, che liquidano le nostre posizioni come
filocapitalistiche:
“Bisogna brevemente chiarire che l’appoggio alle suddette grandi imprese strategiche [l’autore si
riferisce al sostegno che si dovrebbe assicurare alle nostre imprese strategiche nel nuovo contesto
geopolitico, quindi Eni e Finmeccanica su tutte] non significa alcuna predilezione del ‘pubblico’
contro il ‘privato’. Ci sono i ‘vecchi bisonti’ che fanno finta di dimenticare il colossale fallimento
del ‘pubblico’ nel sedicente socialismo. Dall’altro lato, rispondono altri ottusi con la favoletta della
massima efficienza qualora il mercato venga lasciato ‘libero’ (mai lo è stato e mai lo sarà; è un
luogo di conflitto tra strategie che sono politiche tout court)”.
Ma insieme all’appoggio a questi fiori all’occhiello del nostro patrimonio industriale, indispensabile
per aggredire e penetrare i mercati più redditizi, oltreché per stringere intese cruciali nei settori
vitali dell’energia e degli armamenti (diventati veicolo di interessi geopolitici), dobbiamo tenere
conto delle caratteristiche specifiche della nostra struttura produttiva. In Italia la dimensione
imprenditoriale è tutt’altro che mastodontica. Questo è certamente un limite del nostro Sistema-
Paese che non è in grado di assurgere a livelli concorrenziali e di innovazione tecnologica adeguati
al clima internazionale, ma non è ignorando la realtà che si risolvono i problemi. Se la struttura
produttiva italiana risente di questa debolezza occorre adottare provvedimenti per limitare i danni,
superare le difficoltà e rilanciare le nostre prospettive. Quindi, se da un lato bisogna garantire
sostegno politico e difesa degli interessi delle nostre aziende di punta dagli attacchi esterni (l’Ue,
proprio in questi giorni, ha preteso dal governo italiano la rinuncia ai poteri speciali che esso ancora
detiene nei grandi colossi privatizzati dei settori delle telecomunicazioni e dell’energia, cioè Eni,
Enel e Finmeccanica, pena una maximulta. Inoltre, la stessa UE è intervenuta per costringere l’Eni,
sotto il ricatto di una copiosa penale, a disfarsi del gasdotto TAG, quello che parte dalla Russia e
attraversando l’Austria sbuca in Italia, in nome, manco a dirlo, della sacralità della concorrenza),
dall’altro occorre lavorare per offrire più forte protezione a quelle parti imprenditoriali mediopiccole,
troppo a lungo mortificate da politiche fiscali scriteriate e dall’assenza di seri piani
industriali, aventi come orizzonte quello di spingere alla crescita dimensionale queste imprese.
Ancora, bisogna sfondare quei muri culturali che rendono nemici tra loro i settori del lavoro
autonomo, semiautonomo e dipendente (mal consigliati dalle differenti sigle sindacali che hanno
tutto l’interesse a tenere divisi gli interessi di tali categorie sociali) per costruire un blocco sociale
antagonistico ai poteri più arretrati e parassitari dell’industria, della finanza e della politica corrotta
(il cui braccio armato è quello “sinistro”) che stanno svendendo il paese alla prepotenza USA.
Certo, solo una nuova classe politica con le idee chiare sul futuro e sul ruolo da dare al nostro paese
nella fase policentrica in avanzamento potrà fare la giusta sintesi di tutte queste istanze, al fine di
meglio coordinare, anche attraverso una rivoluzione culturale, mondi al momento così distanti.
Ma va da sé che il primo colpo da sferrare è quello indirizzato a recidere i legami velenosi tra
gruppi finanziari e industriali sub dominati, succubi degli Usa (come la Fiat e tutto l’apparato
bancario), e forze politiche da questi manovrate. Ancora una volta il testo di La Grassa ci risparmia
altre ripetizioni perché ci fornisce una descrizione fin troppo esaustiva dei danni causati dalla “santa
alleanza” banco-industrial-politica contraria agli interessi generali della nazione nonché il florilegio
di tutti i guasti che essa potrà ancora fare se non si interviene con risolutezza. Il quadro ci sembra
ben delineato, tanto a livello geopolitico che politico interno ed anche economico, ma la corretta
rappresentazione della situazione non ci salva dai nostri compiti presenti e successivi. Quanto meno
dobbiamo incominciare a raccogliere le forze per diffondere il nostro pensiero perché esso possa
diventare la base comune di una piattaforma politica adeguata ai tempi.