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Alessandro Pepoli: l’aristocratico inventore del Teatro della Natura

di Fabrizio Legger - 03/12/2009

Alessandro Ercole Pepoli nacque a Venezia da un’aristocratica famiglia bolognese (ma trasferitasi nella città lagunare più di un secolo prima) nel 1757 e morì nella città veneta nel 1796, a soli trentanove anni.Fu un uomo intelligente e pieno di ingegno, estroso, creativo, di carattere passionale, ma anche eccentrico, bizzarro e di idee stravaganti, ragion per cui non passò inosservato, anche perché si dedicò intensamente al teatro, proponendosi di svecchiarlo inventando un nuovo genere di spettacoli teatrali.Nato in una famiglia nobile e ricca (i cui membri erano entrati a far parte del Maggior Consiglio, una sorta di senato veneziano che coadiuvava il Doge nel governo della Repubblica Serenissima) ebbe una austera educazione e una solida cultura umanistica, anche se la sua innata testardaggine lo fece applicare con passione soltanto agli studi che egli stesso riteneva degni della sua attenzione. Studiò sotto la guida di diversi precettori e poté disporre a proprio agio della grande biblioteca di famiglia, che conteneva migliaia di volumi delle più diverse arti e delle più disparate scienze.Ma, come tutti gl’ingegni precoci, brillanti e innovativi, sin da fanciullo fu insofferente alla disciplina troppo rigida e ai costumi troppo austeri. Possedeva un’alta concezione di sé, era di indole smisuratamente orgogliosa e, consapevole delle proprie doti intellettuali, non perdeva occasione per deridere, disobbedire e far disperare i precettori e i pedagoghi incaricati della sua educazione.Fu, sostanzialmente, un rampollo di nobile famiglia assai scavezzacollo e gaudente, amante della dolce vita e delle belle donne, assetato di gloria letteraria e di successo mondano, bramoso di emergere nel mondo gaudente dell’aristocrazia veneziana e di rendere ancora più illustre il nome della sua antica casata.Sin da giovanissimo, Pepoli amò di pari passione il teatro e la poesia, le belle donne e gli amori piccanti, i bei cavalli e la buona tavola, e grazie al cospicuo patrimonio di cui disponeva la sua ricca e nobile famiglia, poté dedicarsi, a proprio agio, tanto agli amori, quanto all’allevamento dei cavalli e alla composizione di testi per il teatro.Ebbe indole lasciva, impulsiva, passionale, ma fu anche un immaginoso sognatore, uno di quei poeti che si perdono dietro le loro sfavillanti chimere, inseguendo utopie deliranti completamente avulse dalla realtà. Sostanzialmente, per questo nobile veneziano di origine bolognese, la vita altro non fu che una bella e sfarzosa favola, fatta di amori sensuali, pantagruelici banchetti, balli in maschera, villeggiature sul Brenta e feste di ogni genere, mentre, per ciò che concerne la sua passione per il teatro, a predominare in lui fu la cupa drammaticità della tragedia. Sin dall’adolescenza fu attratto irresistibilmente dal teatro. Nelle ville di campagna dei Pepoli (così come avveniva in molte altre dimore nobiliari) si allestivano spesso spettacoli teatrali, organizzati da compagnie filodrammatiche di nobili appassionati di arte drammatica. Venivano messe in scena commedie letterarie, tragedie classiche e favole pastorali, sia di autori italiani sia di autori stranieri, e il giovane Alessandro, assistendo a quelle recite, si convinse che la sua strada era il teatro e che, un giorno, avrebbe creato un teatro del tutto nuovo, svecchiando quello che a lui pareva un monotono ripetersi di soggetti e generi drammatici sempre uguali, ripetitivi, incapaci di scuotere gli spettatori e, soprattutto, artefatto, asettico, e totalmente lontano dalla semplicità e dalla sobrietà della natura. E la Natura fu uno dei grandi amori del Pepoli. Egli la amava in tutte le variegate facce della sua infinita bellezza. Questo giovane aristocratico, nato e cresciuto in mezzo alla nobiltà veneziana, amava moltissimo lasciare la città lagunare per rifugiarsi nelle boscaglie lungo il Brenta, dove compiva grandi cavalcate, oppure, si faceva condurre in barca lungo il fiume, amando poi scendere a terra per immergersi nella bellezza tutta silvestre dei boschi e delle macchie fluviali, o restando ad osservare per ore il duro lavoro dei contadini, il passaggio delle barche sul fiume, la vita rustica degli abitanti delle campagne. E lo stesso faceva quando si trovava in Venezia: soleva infatti passare ore ed ore nelle calli o sui crocicchi dei ponti, oppure in Riva degli Schiavoni, tutto intento ad osservare soggetti umani, a contemplare la bizzosità dei vari caratteri e dei vari “tipi” di individui in cui si suddivide l’umanità, dedicandosi anch’egli a quello studio del “mondo” che Carlo Goldoni affermò essere alla base della sua lunga esperienza di uomo di teatro.Pepoli era indubbiamente un buon osservatore della natura e un attento psicologo, e le sue capacità di osservazione e di ascolto gli fornivano una grande  abbondanza di materiale “umano” da far poi rivivere, sotto i panni di personaggi strabilianti, nelle sue bizzarre opere teatrali. Aveva una forte inclinazione per le meditazioni, i sogni ad occhi aperti e le fantasticherie, e in questo assomigliava un po’ al suo aristocratico concittadino, conte Carlo Gozzi, pugnace avversario di Carlo Goldoni e autore delle celeberrime Fiabe Teatrali. Ma quella alla quale apparteneva Alessandro Pepoli era una generazione irrequieta, tormentata, desiderosa di novità, forse presaga dei grandi cataclismi che, prima con la Rivoluzione Francese e poi con la bufera napoleonica, stavano per abbattersi sull’intera Europa, il che lo rendeva sostanzialmente assai diverso e molto lontano dalla cultura e dagli ideali che animavano Gozzi e Goldoni, vale a dire i due maggiori commediografi veneziani dell’epoca.La commedia lo interessava relativamente: apprezzava le buone commedie letterarie, come La Mandragola di Machiavelli o quelle dei commediografi del primo Settecento (Il cicisbeo sconsolato del Fagioli, La serva padrona del Nelli, il Don Pilone del Gigli), ma riteneva che il genere comico non rappresentasse la natura nella sua interezza, e per lo stesso motivo disprezzava il teatro pastorale, che gli sembrava artificioso, patetico e sterile oltre l’inverosimile. Invece, la tragedia e il melodramma lo attraevano irresistibilmente, ma riteneva che i tragediografi della sua epoca fossero dei semplici epigoni ormai scadenti della grande tragedia cinquecentesca e barocca.E infatti, né le tragedie arcadiche e sentimentali di Pier Jacopo Martello, né quelle più grecizzanti di Gianvincenzo Gravina, né quelle moraleggianti di Antonio Conti, e neppure la tanto esaltata Merope di Scipione Maffei riuscirono ad appassionarlo. E, tantomeno, lo entusiasmavano le tragedie del conte Vittorio Alfieri, che Pepoli riteneva troppo politiche, troppo incentrate sullo scontro tra l’eroe di libertà e il tiranno e, soprattutto, scritte con un linguaggio duro, oscuro e poco comprensibile. Da convinto estimatore di se stesso qual era, più assisteva alle recite di quei testi tragici, più si convinceva che sarebbe toccato a lui riformare il teatro tragico, svecchiandolo e infondendogli una nuova linfa drammatica.Così, sin dagli anni giovanili, il Pepoli si immerse nello studio di questo teatro: dapprima quello greco e latino, poi quello cinquecentesco e seicentesco, con particolare predilezione per quello inglese di Shakespeare e quello francese di Voltaire. Lo studio dell’inglese e del francese gli permise di leggere i testi tragici dei due sopra citati autori, direttamente in lingua originale, e le loro opere tragiche gli piacquero talmente, tanto da indurlo a tradurre in lingua italiana alcune tra le loro migliori tragedie. Anzi, per Shakespeare il Pepoli mostrò un vero e proprio culto: lo venerò talmente tanto da imparare  a memoria lunghi monologhi del suo teatro, che andava ripetendo e citando in continuazione, si incantava di fronte alle figure titaniche di Amleto, di Otello, di Macbeth e di Falstaff, e lo ritenne sempre il maggior drammaturgo che avesse mai calcato la scena del mondo, ancora più grande e portentoso di quanto non lo fossero i grandi padri della tragedia greca: Eschilo, Sofocle, Euripide.Ma, come ho già accennato, negli stessi anni in cui il Pepoli si sprofondava nello studio del teatro di Melpomene, un altro grande aristocratico italiano, il conte Vittorio Alfieri da Asti, decideva di diventare autore tragico e di dare all’Italia un teatro tragico degno di tale nome. Era ovvio, dunque, che i due tragediografi sarebbero presto arrivati a scontrarsi reciprocamente, essendo ambedue ambiziosissimi e ben decisi ad ottenere il trionfo sul palcoscenico.Mentre Alfieri, tra il 1775 e il 1777, componeva le sue prime tragedie (Filippo, Polinice, Antigone, Virginia, La congiura de’ Pazzi), Pepoli traduceva Voltaire e Shakespeare e iniziava a concepire le linee guida del suo teatro tragico, che si concretizzarono nell’invenzione di un nuovo genere drammatico: la fisedia, ovvero il teatro della natura, che doveva mescolare elementi comici e tragici, dando la preminenza alla naturalezza, all’istintività e allo spontaneismo.E tra una traduzione e l’altra, ecco che Pepoli iniziò la stesura dei primi testi del suo strabiliante e innovativo teatro fisedico: Eduigi, Cleonice, Irene, Don Rodrigo, testi che portò a compimento nel corso di alcuni anni e che fece stampare solo nel 1783. Ma, al pari dell’Astigiano, quasi per una sorta di bizzarro corrispettivo di idee e concezioni, anche il Pepoli si lasciò affascinare dal gusto per le teorizzazioni politiche, dando vita a ibridi miscugli di soggetti e di proposte così stravaganti, tanto da alienargli le simpatie di gran parte della nobiltà veneziana. Nel 1777, Alfieri scrisse il trattato Della Tirannide, nel quale analizzò e condannò gli orrori del regime dispotico delle monarchie assolute. Pepoli, dal canto suo, tra il 1779 e il 1781, scrisse un Saggio di libertà sopra vari punti, nel quale sostenne che l’aristocrazia e la democrazia erano le migliori forme di governo, e che quindi, per dare al popolo un governo giusto e sostenitore delle sue necessità, si doveva procedere ad un connubio, in forma repubblicana, tra il governo aristocratico (l’esempio era, ovviamente, quello della Repubblica di Venezia) e il governo popolare (cioè, borghese e ispirato ai principi egualitari della cultura dei Lumi). In sostanza, Pepoli auspicava un governo repubblicano e oligarchico che fondesse una gloriosa tradizione come quella della Serenissima, con un regime borghese di stampo direttoriale e bonapartistico, come quello che governò poi la Francia termidoriana tra il 1795 e il 1799.Questo ondivago e bislacco trattato teorico-politico, dottrinalmente assai bizzarro, venne pubblicato a Ginevra nel 1783 e circolò ampiamente in tutta Italia. Dopo lo scoppio della Rivoluzione in Francia, l’abbattimento della monarchia e l’instaurazione della Repubblica, il Pepoli continuò a diffondere questa sua astrusa ideologia, attirandosi così contro sia l’ira dei sostenitori della Repubblica di Venezia, sia lo sdegno dei giacobini e dei bonapartisti. Entrambi, infatti, ritennero il Pepoli una spia, un provocatore, uno sbruffone e un aristocratico mezzo matto, e non presero certo in seria considerazione le sue deliranti teorizzazioni politiche, tanto che, in un’occasione, un nobile veneziano, stizzito nei riguardi del Pepoli e del suo astruso saggio politico, passando davanti alla bottega di un libraio e vedendo alcune copie del libro poste in vendita sul bancone, preso da un empito di ira incontenibile le afferrò e, con sommo disgusto, le gettò nel canale che scorreva accanto alla bottega. Tale disprezzo nei confronti del Pepoli, però, si acuì maggiormente soprattutto dopo che il Bonaparte, con il celebre trattato di Campoformio, decretò sostanzialmente la fine della gloriosa Repubblica Serenissima, cedendola di fatto all’Austria imperiale.Il fiasco al quale andò incontro il suo trattato, in anni rivoluzionari che egli credeva più che propizi per la diffusione delle sue concezioni politiche, non mitigò affatto le bizzose e astruse idee del Pepoli, il quale, abbandonata la trattatistica, continuò a dedicarsi al teatro della natura. Nel 1784 fece stampare una delle sue opere maggiori: la tragedia intitolata La gelosia snaturata ovvero Don Carlo infante di Spagna, opera nella quale egli riponeva grandi speranze per il suo futuro di autore tragico.Ma le sue fisedie avevano già ottenuto il parere negativo del celebre critico letterario Ranieri de’ Calzabigi (che si era interessato pure delle tragedie alfieriane) e dello stesso Vittorio Alfieri, il quale scrisse addirittura un celebre epigramma contro il Don Carlo del Pepoli. Infatti, facendo un confronto tra il suo Filippo (tragedia dapprima scritta in francese e poi riscritta in italiano, quindi, considerata un ibrido aborto tra le due lingue già dal suo severo e intransigente autore) e la farraginosa e patetica tragedia del Pepoli, Alfieri sarcasticamente scrisse:                      Filippo, abbozzo sudicio qual sei,                     d’ogni Pepoleo Carlo rider dei. Ma Pepoli, che amava la polemica e che, essendo aristocratico anch’egli, si sentiva più che mai autorizzato a polemizzare, anche furiosamente, con il protervo conte Alfieri, li attaccò entrambi, pubblicando tre lettere in cui ribadì il proprio disprezzo per le tragedie alfieriane e in cui, sostanzialmente, affermò che il de’ Calzabigi capiva assai poco di teatro tragico. Poi, per avvalorare la specificità del suo teatro, chiamò in causa il teatro di Shakespeare, a suo giudizio il migliore in assoluto, e disse che a quel teatro, così perfetto nella rappresentazione della natura, si era ispirato per comporre le sue fisedie. Ma ciò non fu sufficiente per far trionfare le fisedie del Pepoli sui palcoscenici dei teatri italiani: queste sue stravaganti opere teatrali, miste di versi e di prose, cariche di lunghe e minuziose didascalie e di descrizioni che rasentano la narrazione, ebbero più successo nei teatri privati delle dimore nobiliari che non nei teatri pubblici di Venezia, Milano, Bologna e Firenze, dove il loro bizzoso autore tentò con ogni mezzo di farle mettere in scena, ricevendo il più delle volte dei sonori rifiuti.Alternando, nelle sue frenetiche giornate, lo studio delle Belle Arti e della letteratura drammatica agli amori piccanti con giovani nobildonne e ingenue popolane, le corse dei cavalli al gioco nelle bische e ai piaceri della buona tavola, il Pepoli riusciva anche a trovare tempo per fondare accademie di filodrammatici, in compagnia di altri appassionati di teatro, come il marchese bolognese Francesco Albergati Capacelli e la marchesa veneziana Teresa Ventura Venier, bella nobildonna amata dal Pepoli e sua musa ispiratrice. All’Accademia degli Ardenti, Pepoli dedicò non poche energie, anche perché aveva sede al quartiere Santa Sofia, nel Palazzo detto Ca’ d’Oro, dove c’era un piccolo teatro che egli utilizzò ampiamente per la messa in scena delle sue fisedie.Ma per la bella e frivola Teresa Ventura Venier, il Pepoli scrisse non solo appassionate rime d’amore, ma anche commedie e libretti per melodramma: la commedia L’impresario (che fu assai applaudita dalla nobiltà veneziana) e il melodramma L’Accademia di Musica, che venne recitato non solo a Venezia ma anche a Bologna, nel teatro privato dell’Albergati, riscuotendo un ottimo successo di pubblico.Frattanto, era scoppiata la Rivoluzione in Francia, e tra borghesia e aristocrazia, sostenitori della monarchia e fautori del governo repubblicano, si erano create divisioni insanabili. Negli anni seguenti, Pepoli, che aveva manifestato simpatie sia per il governo della Serenissima, sia per la neonata Repubblica giacobina, fu visto come un provocatore incosciente, come un ridicolo bellimbusto che, solo perché ricco e nobile, si divertiva a spararle grosse su idee per le quali nella Francia rivoluzionaria e sui campi di battaglia di Valmy e delle Ardenne, migliaia di persone erano pronte a mettere a rischio le proprie vite.Così, negli anni compresi tra il 1793 e il 1796, vale a dire gli ultimi anni della sua vita, il Pepoli, drammaturgo della fisedia, si trovò solo, emarginato sia dagli ambienti aristocratici della Serenissima, sia da quelli dei borghesi simpatizzanti dei giacobini, che ormai si andavano palesando a viso aperto anche in Italia.Tuttavia, Pepoli non si perse d’animo: continuò a condurre una bella, agiata e dispendiosa vita tra viaggi, amori, diletti e frivolezze d’ogni sorta, e, ovviamente, a scrivere fisedie, più per compiacere se stesso e la sua velleità di drammaturgo che non per un vero e proprio pubblico di affezionati sostenitori (dal momento che, a parte pochi parenti, pochi amici e pochi estimatori in seno all’aristocrazia che gli erano rimasti fedeli, egli, un tale pubblico, non lo aveva affatto).Negli ultimi anni della sua vita, il Pepoli fu affascinato dalla poesia ossianica e cimiteriale, ma anche da quella religiosa: lesse con attenzione le Visioni Sacre e Morali di Alfonso Varano e studiò a fondo il Paradiso Perduto di Milton, traducendolo in lingua italiana nel 1795. Una traduzione originale e vivace, molto interpretativa, che però non ebbe successo, in quanto il pubblico preferì quella più classicheggiante di Lazzaro Papi, in endecasillabi sciolti (che viene letta e ripubblicata tuttora).Tra gli ultimi testi tragici, composti dal Pepoli tra il 1794 e il 1795, vi sono la Rotrude e il Ladislao: la prima, tragedia di argomento alto-mediovale, con i longobardi come protagonisti, con il re Ariovaldo e la moglie Rotrude, insidiata dal generale Adalulfo; il secondo, dramma a fosche tinte d’ambiente magiaro, incentrato sulle tristi vicende del re ungherese Ladislao, spodestato dal tiranno Otogar. Rispetto alle precedenti fisedie, il Pepoli aveva acquisito una maggiore padronanza di stile, una maggiore caratterizzazione dei personaggi e un efficace livello di rappresentatività drammatica. E forse, negli anni a venire, avrebbe potuto scrivere testi drammatici ancora migliori di quelli composti sino ad allora, se la morte non lo avesse stroncato, ancora giovanissimo, all’età di soli trentanove anni, nel 1796, a causa degli stravizi e dell’attività frenetica che caratterizzarono la sua giovane vita. Il Pepoli fu indubbiamente un personaggio bizzarro, un po’ gigione e un po’snob, una sorta di rampollo viziato ma ricco d’ingegno e di inventiva, che probabilmente, però, ritenne il teatro un piacevole capriccio al quale si poteva lietamente sacrificare un po’ di tempo. Le sue fisedie, come genere teatrale, non ebbero fortuna: nessuno, dopo di lui, ne scrisse altre. Morirono con il loro creatore, forse perché, a furia di cercare di rispettare così tanto la natura, esse furono sentite dagli spettatori come un qualcosa di ibrido, di profondamente innaturale, che mescolava vari generi (il comico, il drammatico, il tragico e il pastorale) senza, alla fin fine, essere nulla di tutto questo.Sostanzialmente, però, come scrittore, il Pepoli non fu capito: era al tempo stesso troppo bizzarro e troppo ingegnoso per essere compreso dai letterati e dagli scrittori della sua epoca. Le sue prese di posizione in campo drammaturgico, così come in quello politico e culturale, furono viste come mere provocazioni o come gesti stravaganti di un nobile rampollo aristocratico che sembrava non sapesse più cosa inventarsi per fare passare le giornate.E invece, pur con tutti i limiti e tutti i difetti che abbondano nella sua opera drammatica, Alessandro Pepoli fu un innovatore del nostro teatro. La sua ottima conoscenza della lingua inglese e il suo amore smisurato per Shakespeare lo rendevano estremamente innovativo rispetto alla maggioranza degli autori teatrali della sua epoca, i quali continuavano a fare riferimento più ai drammaturghi francesi e spagnoli del Secolo d’Oro, che non a quelli inglesi (che, in realtà, erano stati i veri riformatori del teatro europeo, nel senso più moderno del termine).Certo, forse, sotto molti aspetti, Pepoli fu più un aristocratico con la passione del teatro, che non un vero e proprio drammaturgo: ma questa fu una caratteristica assai comune a molti scrittori di teatro del secondo Settecento, basti pensare, solamente, al conte Vittorio Alfieri, al marchese Francesco Albergati Capacelli, al conte Carlo Gozzi, al marchese Scipione Maffei, solo per citarne alcuni tra i più celebri.Forse, se politicamente ed ideologicamente il Pepoli non si fosse dimostrato così bizzarro, provocatorio e sconclusionato, le sue fisedie sarebbero state esaltate come opere di un teatro di libertà, simile, sotto taluni aspetti, a quello alfieriano: invece, con il suo stravagante Saggio di libertà sopra vari punti, si alienò gran parte delle simpatie aristocratiche e si rese nemici i giacobini e i repubblicani italiani che intendevano ripetere in Italia ciò che si era verificato in Francia con la Rivoluzione francese.Passata la bufera rivoluzionaria e passata anche quella napoleonica, il Teatro del Pepoli non venne più rappresentato: a differenza di quello alfieriano, cadde nell’oblio, e non perché le sue opere fossero insopportabilmente brutte e irrappresentabili, ma perché era un teatro stravagante difficilmente utilizzabile in chiave politica e propagandistica negli anni turbolenti del Risorgimento italiano.Le tragedie di Alfieri, quelle di Foscolo e di Niccolini, continuarono ad essere rappresentate, mentre le fisedie del Pepoli caddero nel dimenticatoio della storia drammaturgica del nostro Paese. Avevano vissuto la loro stagione e, una volta che questa fu trascorsa, nessuno se le ricordò più.Ovviamente, il Teatro del conte Alessandro Pepoli non è stato più ripubblicato, e questa è una grave pecca della nostra editoria drammatica, perché la fisedia pepoliana (indipendentemente dal fatto se sia stata un solenne fiasco oppure no) fa parte della storia del nostro teatro drammatico, e, in quanto tale, è giusto che venga conosciuta e letta. L’apprezzarla o l’entusiasmarsi per essa, poi, è un’altra cosa, ma il pubblico italiano dovrebbe avere l’opportunità di leggerla, ragion per cui una nuova, moderna edizione critica del Teatro di Alessandro Pepoli (magari tascabile) si rende più che mai indispensabile.