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L'immigrazione e la decrescita

di Giuseppe Giaccio - 10/01/2010

 

La questione del diritto di voto agli immigrati viene periodicamente riproposta all’attenzione di un’opinione pubblica che, in verità, sembra essere in tutt’altre faccende affaccendata. L’uomo della strada ha altre priorità. Tra la sua agenda e l’agenda della politica si nota una notevole divaricazione e questa è, probabilmente, una delle ragioni del crescente successo, un po’ in tutta Europa, di movimenti e partiti di ispirazione populista nei quali la polemica contro l’establishment è pane quotidiano. L’ultima iniziativa, in ordine di tempo, è la presentazione di un disegno di legge bipartisan, come amano dire i giornalisti, ossia da parte di esponenti sia di destra che di sinistra. Dal punto di vista teorico, non c’è, in realtà, molto da dire. Il voto non può che essere collegato alla cittadinanza. Chi è cittadino deve poter votare alle amministrative e in qualunque altro tipo di consultazione elettorale. Chi non lo è, non può rivendicare questo diritto. Né ha molto senso – per le ragioni chiarite da Giovanni Sartori – giustificare il voto solo amministrativo con la motivazione che gli immigrati regolari partecipano alla vita delle comunità locali e pagano le tasse. I veri temi da affrontare sono altri. Anzitutto, quello della cittadinanza, delle condizioni per acquisirla. In secondo luogo, quello della immigrazione irregolare. In terzo luogo, quello del fenomeno migratorio in sé, di come porsi di fronte ad esso (come cercheremo di chiarire, gli ultimi due temi sono, peraltro, intimamente connessi).
Gli studiosi dei flussi migratori ci dicono che l’immigrazione ha cambiato natura. Gli immigrati, come le stagioni, non sono più quelli di una volta. Un tempo, l’immigrazione aveva un carattere, per così dire, “stanziale”. L’espressione, solo in apparenza contraddittoria (il migrare rinvia, infatti, al movimento e non alla sedentarietà), sta a significare che coloro i quali, nell’Ottocento, erano costretti ad emigrare, prendevano una decisione definitiva. Si separavano dalla loro terra d’origine per sistemarsi altrove. Emigrare era un po’ come tagliare un cordone ombelicale. La patria lontana sopravviveva, sempre più pallidamente col passare del tempo, nei ricordi, in struggenti canzoni o in patetici tentativi di ricrearla nella nuova terra (Little Italy, Chinatown), ma si sapeva bene che la vita, da quel momento, sarebbe stata altrove. Il doloroso sradicamento iniziale era accompagnato da un successivo, e spesso drammatico, processo di radicamento in un mondo sconosciuto, sovente ostile, e tuttavia scelto come nuova patria perché si sperava di trovarvi comunque un avvenire migliore. Oggi, invece, l’immigrazione ha un carattere “circolare”, nel senso che il migrante – grazie ad una mobilità cresciuta a livelli esponenziali, a Internet che consente di cogliere in tempo reale le migliori opportunità di lavoro e a reti di solidarietà esistenti nei vari paesi di destinazione costituitesi ai confini tra legalità e illegalità fra gli stessi migranti – può spostarsi rapidamente da un paese all’altro, tornare nel suo paese d’origine e ripartirne, e così via all’infinito. Per l’immigrato del terzo millennio, un luogo vale l’altro. L’unico vincolo che lo lega al paese nel quale si trova è economico ed è facilmente scioglibile: basta che in qualche altro posto ci sia la prospettiva di guadagnare di più. Una conferma di questo dato ci viene, oltre che dagli studi scientifici[1], anche da un’approfondita indagine condotta sul campo da Raffaele Oriani e Riccardo Staglianò, giornalisti specializzati nel giornalismo d’inchiesta, e relativa all’immigrazione cinese in Italia[2]. Ecco che cosa vi leggiamo a proposito di un imprenditore cinese operante nel settore del tessile in provincia di Treviso: «Ci spiega come per loro non esistano confini né barriere mentali: prima Roma, poi la Spagna, poi il Veneto, domani chissà». E non è tutto: «Prima di venire in Italia, sono stato qualche mese in Germania», dichiara il dinamico datore di lavoro. Un’altra significativa testimonianza è quella della titolare ventenne di un negozio di abbigliamento che vive e lavora provvisoriamente a Matera: «Noi cinesi non ci fermiamo. Se troviamo qualcosa di meglio, anche in Spagna dove ho una zia o in Francia dove vivono altri parenti, ci spostiamo. Non mi mancherebbe questo posto. Ci vivo da quattordici anni, ma è pur sempre di passaggio». Commento dei giornalisti: «Il meglio si misura con il margine di guadagno. Basta che il business plan risulti anche millimetricamente più attraente per fare armi e bagagli». Gino Lucchesi, presidente dell’Unione industriali di Prato, città dove la presenza cinese è massiccia, afferma: «Questa è gente mobile, abituata a viaggiare leggera, a vivere con la valigia pronta». A Oriani e Staglianò, Lucchesi «racconta di quando nel 2000 oltre trecento famiglie cinesi se ne andarono via di colpo per insediarsi a Ercolano, dove c’erano grosse commesse di confezioni di pelle. Salvo tornare qualche anno dopo»[3]. Ovviamente, i due modelli di immigrazione prima sommariamente descritti corrispondono a tipi ideali elaborati in sede scientifica. La realtà è ben più complessa. Essi sono, tuttavia, utili per farsi un’idea empiricamente fondata di ciò che sta accadendo e per tentare di elaborare qualche risposta attendibile, rifuggendo dalla propaganda di qualunque segno. Se, come sembra, l’immigrazione ha effettivamente subito, o sta subendo, una metamorfosi dallo stanziale al circolare, allora appare ragionevole la richiesta di sottoporre l’accesso alla cittadinanza a maggiori controlli, a filtri più selettivi, onde privilegiare coloro che intendono seriamente impegnarsi, con l’apporto della loro cultura, delle loro tradizioni e della loro voglia di emergere, per il paese nel quale vivono e lavorano e che pertanto non viene considerato alla stregua di un autobus dal quale si può scendere quando si vuole. Il fatto che una richiesta del genere incontrerebbe, con ogni probabilità, l’adesione anche della Lega Nord, partito in cui sono presenti pulsioni xenofobe, non deve impedirci di trascurare il dato scientifico e le sue possibili implicazioni pratiche. Altrimenti, cadremmo in un classico pregiudizio ideologico – cosa, in verità, abbastanza strana visto che quasi tutti si affannano a proclamare la fine delle ideologie. Tuttavia, pure se si addivenisse a un accordo su questo aspetto, non potremmo ancora dire di aver davvero affrontato e risolto il problema dell’immigrazione, senza aver preso in esame anche gli altri due punti prima citati, la clandestinità (cui si accompagnano spesso problemi di ordine pubblico) e la valutazione che si dà del fatto migratorio – punti tra i quali vi è un evidente legame. La lotta all’immigrazione clandestina, al di là delle dichiarazioni di condanna ufficiali e di provvedimenti più o meno discutibili, non viene seriamente condotta perché, scrive Koser, vi sono governi, sia dei paesi d’origine degli immigrati, sia di quelli dei paesi di destinazione, che «non hanno la volontà politica di affrontare la questione»[4]. Il motivo è facilmente intuibile. L’immigrazione clandestina fa comodo a troppa gente che conta e che si trova nei posti “giusti” per non ostacolarla nella sostanza, pur dichiarando formalmente di volerla combattere: fa comodo agli imprenditori che, quando non delocalizzano le loro imprese[5], dispongono di un esercito industriale di riserva disposto a compiere, a basso o bassissimo costo, i cosiddetti lavori “3D” (dirty, dangerous, difficult – sporchi, pericolosi e difficili) – esercito peraltro facilmente sfruttabile e col quale è possibile svolgere una funzione di dissuasione antisindacale rispetto ai lavoratori nazionali ed extracomunitari regolari; fa comodo a quanti forniscono a questi lavoratori dei servizi in nero, di scarsa o pessima qualità, ma profumatamente pagati. Fa comodo, ancora, ai politici, perché il lavoro degli immigrati, sia regolari che irregolari, consente comunque al pil di crescere – cosa di cui essi vanno particolarmente fieri – e permette di tenere in piedi settori dell’economia che altrimenti dovrebbero chiudere baracca e burattini. A ciò si aggiunga che, contrariamente a quanto molti pensano, il grosso della ricchezza prodotta dagli immigrati rimane da noi, producendo altra ricchezza e facendo ulteriormente lievitare il pil e solo una piccola parte raggiunge, sotto forma di rimesse, i paesi d’origine, che quindi non traggono grandi benefici dall’emigrazione: «Secondo le stime della Banca mondiale, a livello globale i lavoratori immigrati guadagnano 20.000 miliardi di dollari e la maggior parte di questi soldi viene investita nel paese di destinazione»[6]. L’immigrazione fa comodo, infine, anche ai politici dei luoghi di provenienza degli immigrati, che possono liberarsi di una massa di persone potenzialmente in grado di creare non pochi grattacapi. L’immaginario della crescita, del progresso e dello sviluppo, incessantemente promosso in tutte le sedi e in tutto il mondo, sommandosi alla miseria, rende oggettivamente problematico arginare la forte spinta proveniente dai paesi cosiddetti sottosviluppati. È difficile far capire a chi, con la colonizzazione, è stato privato a viva forza del suo modo di vita basato su una economia di sussistenza ed è stato degradato a Lumpenproletariat brancolante ai margini delle metropoli e delle città asiatiche o africane e che per tentare di sopravvivere dispone di 1-2 dollari al giorno, che l’Occidente non è lo sfavillante Paese di Bengodi descritto dalla pubblicità, al cinema o in televisione. Eppure, il contrasto all’immigrazione clandestina va fatto perché, come sostiene con grande realismo anche la Caritas che con gli immigrati ha a che fare quotidianamente, non possiamo materialmente accogliere tutti quelli che bussano alle nostre porte. Attualmente, i migranti costituiscono il 3% della popolazione mondiale. Una percentuale, tutto sommato, non molto alta e che, però, crea non pochi problemi. Cosa accadrebbe se essa raddoppiasse o triplicasse? Completamente irresponsabile e miope è, pertanto, la posizione di chi, attento ai soli vantaggi economici che potremmo trarre noi occidentali (o meglio, le élites economiche e finanziarie globali) dall’immigrazione, teorizza l’apertura totale delle porte come una panacea che risolverebbe il problema. Siccome noi abbiamo bisogno di loro, sostiene Philippe Legrain che di queste élites si è fatto portavoce in un recente saggio, facciamoli entrare senza guardare troppo per il sottile. Questo dovrebbe essere «il nostro grido di battaglia per un mondo migliore». Il futuro cleavage opporrà «chi è libero di muoversi e chi è ancora legato a un determinato luogo». Ovviamente, Legrain è un fiero avversario di questa seconda opzione, che deve apparirgli mostruosa, al punto da definirla «una situazione moralmente sbagliata, economicamente stupida e politicamente insostenibile»[7]. In questo modo, si perpetua in forme nuove la mentalità colonialista, con la differenza che un tempo soddisfacevamo i nostri bisogni andando in Africa, in Asia, in India, in Cina e mettendole a soqquadro con i nostri eserciti e le nostre cannoniere, per indurre i refrattari a piegarsi alla nostra volontà, mentre oggi il politicamente corretto impone di ottenere gli stessi risultati in maniera più soft (sempre per noi, ovviamente, perché per gli altri sono cambiati i suonatori, ma non la musica). Il potere è diventato “elegante”, come ha osservato Marianne Gronemeyer, ma nel guanto di velluto continua a esserci una mano di ferro. Indubbiamente, tra gli immigranti che, regolarmente o clandestinamente, riescono ad approdare sulle nostre coste una certa quota riesce a inserirsi e a raggiungere l’obiettivo di condurre una vita migliore (e ciò non può che farci piacere), ma forse dovremmo interrogarci più di quanto non facciamo sul prezzo che questi successi comportano per i paesi d’origine e su quanto essi contribuiscano a perpetuare la condizione di asservimento neocoloniale di tali paesi. Una prima conseguenza negativa dell’immigrazione è quella del brain drain, la fuga dei cervelli, che in verità riguarda anche i paesi sviluppati (l’Italia, tanto per fare il primo nome che ci viene in mente), ma che per un paese sottosviluppato rappresenta qualcosa di ben più drammatico. Scrive, al riguardo, Koser: «Alcune cifre sono spaventose. Dal 2000, ad esempio, quasi 16 mila infermiere provenienti dall’Africa subsahariana si sono recate a lavorare nel Regno Unito. In Zambia, solo 50 dei 600 medici formatisi dopo l’indipendenza esercitano ancora la professione all’interno del paese. È stato stimato che attualmente ci siano più medici malawiani nella sola città di Manchester che in tutto il Malawi»[8]. Non è difficile immaginare quali siano gli effetti di tutto ciò sulla salute della popolazione del Malawi e in particolare sulla mortalità infantile. Lo stesso discorso vale per la classe degli insegnanti, la cui fuga all’estero comporta un aumento dei tassi di analfabetismo e un livello di apprendimento scolastico insufficiente. Altro fenomeno negativo legato all’immigrazione è il care drain, espressione con la quale ci si riferisce alle carenze, a livello familiare e sociale, che si vengono a creare nelle terre d’emigrazione in conseguenza dell’assenza forzata di uno o più componenti della famiglia da cui possono scaturire, a carico dei figli, «assenteismo e abbandono scolastico, difficoltà relazionale con i membri più anziani della propria famiglia a causa della differenza di età (e difficoltà da parte di questi ultimi a controllare i nipoti), consumismo derivante dalla ricezione di rimesse, forte pressione migratoria e sostituzione del percorso scolastico col progetto migratorio, sofferenza psicologica e problemi comportamentali, abuso di alcol e droga»[9]. Un ragionamento non colonialista, che ci si guarda bene dal fare, dovrebbe piuttosto suonare così:  dal momento che le politiche sviluppiste sono state un fallimento, al punto che la fame nel mondo è cresciuta anziché diminuire, quali politiche, quali assetti istituzionali ed economici, quale cultura dovrebbero adottare i paesi ricchi per non costringere gli abitanti di quelli poveri ad abbandonare la loro terra per venire dalle nostre parti nel tentativo di sbarcare il lunario?
Questo insieme di considerazioni spiega come, in tema di immigrazione irregolare, i governi stiano sempre più orientandosi nel senso di un passaggio dal controllo alla gestione della clandestinità. In questa nuova “filosofia”, si dà per scontato che l’immigrazione continuerà e che non si può fare nulla per arrestarla. Al massimo, si può tentare di disciplinarla. Dall’angolo visuale dei governi, tale scelta, per quanto criticabile, non è priva di una sua logica. Fino a quando, infatti, la stella polare dell’azione governativa sarà la crescita del prodotto interno lordo, non si vede per quale motivo essi dovrebbero rinunciare a quella autentica gallina dalle uova d’oro che sono gli immigrati. Chi vuole lo sviluppo, non può non considerare l’immigrazione un bene dal quale possono derivare alcune conseguenze negative che ci si deve sforzare di eliminare o quantomeno ridurre, piuttosto che un male da cui possono incidentalmente derivare alcune conseguenze positive. Proprio questo è, però, il punto su cui si dovrebbe incentrare la discussione, anziché considerarlo come acquisito. In un precedente intervento su queste colonne, abbiamo provato ad avviarla, indicando nella decrescita una possibile strada per venirne a capo[10]. La società sviluppista presenta, infatti, una serie di controindicazioni che la rendono sempre più insostenibile (l’accelerazione dei processi entropici, i cambiamenti climatici, un’impronta ecologica eccessiva e dannosa per la biosfera, le guerre per il controllo delle risorse energetiche). Lo spostamento da una regione all’altra del pianeta di masse umane ridotte alla miseria e alla fame o sedotte dal mito consumista è solo una di tali controindicazioni. Viceversa, una società basata sulla decrescita ci pare la cosa più ragionevole e urgente da fare perché contribuirebbe a sfebbrare il pianeta, a ricreare una cultura dei luoghi, del territorio, favorirebbe una più equa distribuzione delle risorse e indebolirebbe le molle sia psicologico-culturali, sia economiche che spingono molti ad emigrare. Soprattutto, una società basata sulla decrescita ci aiuterebbe ad affrancarci dalla mentalità missionaria che giustifica e nobilita lo sviluppo. Il frate francescano Bernardino di Sahagun, nel XVI secolo, così descriveva il compito del missionario: «Il missionario deve considerare se stesso come un medico e la cultura degli indigeni come una sorta di malattia che spetta a lui guarire»[11]. Nessuno, oggi, oserebbe parlare negli stessi termini, ma la sostanza non è granché cambiata. I “missionari” laici non ragionano diversamente. Sono solo più ipocriti. La medicina somministrata non è più la religione cristiana, ma l’aiuto allo sviluppo, nel quale Marianne Gronemeyer vede una perversione dell’idea di aiuto funzionante come cavallo di Troia che distrugge dall’interno, a poco a poco e inesorabilmente, gli altrui stili di vita[12]. Chi, come il Mahatma Gandhi, conosceva davvero i problemi degli “indigeni”, in quanto ne faceva parte, era uno di loro, forniva una ricetta diversa: «Lasciate in pace i poveri! I poveri sanno cavarsela benissimo senza di voi, a condizione che li lasciate in pace»[13]. Henry David Thoureau si è servito dell’arma dell’ironia per dire qualcosa di simile: «Se sapessi con sicurezza che un uomo sta venendo da me per farmi del bene, correrei a mettermi in salvo per paura di dover ricevere un po’ del bene che quello mi facesse»[14]. Non si tratta solo di boutades o di amore per il paradosso, ma dell’indicazione di una seria, ed al momento ardua, strada da percorrere. È un fatto che i problemi del Terzo Mondo sono iniziati quando noi abbiamo cominciato a fargli del bene, ad “aiutarlo” (fuor di metafora: ad obbligarlo a svilupparsi). Se la finissimo e ci mettessimo in ascolto dei bisogni dell’altro, avremmo fatto un primo passo nella giusta direzione. Il vero aiuto è quello in cui l’aiutato rimane il dominus della situazione, invece di essere, come purtroppo accade di solito, il pretesto per imporre una condizione di uniformazione planetaria. Il vero aiuto è, sul piano individuale, quello del buon Samaritano o di San Martino che divide il suo mantello col mendicante: nasce dalla misericordia, cioè da un moto del cuore e non dalla programmazione scientifica dell’asservimento economico, politico e culturale mascherato con motivi umanitari. Un moto non intrusivo che mira a restituire all’aiutato una condizione di normalità, a partire dalla quale egli può decidere liberamente cosa fare della sua vita e non essere costretto a trasformarla in una copia più o meno ben riuscita di quella dell’aiutante. Il vero aiuto è quello che può venire da una società della decrescita, forma di misericordia collettiva esercitata nei confronti degli uomini e dell’ambiente.     

NOTE

[1] Cfr. Khalid Koser, Le migrazioni internazionali, il Mulino, Bologna 2009.

[2] R. Oriani/R. Staglianò, I cinesi non muoiono mai, Chiarelettere, Milano 2008.

[3] Op. cit., pagg. 233-234 e 126.

[4] Op. cit., pag. 142.

[5] Sulla pratica delle delocalizzazioni, si vedano le osservazioni critiche di Benedetto XVI nella sua recente enciclica sullo sviluppo (Caritas in veritate, 40).

[6] K. Koser, op. cit., pag. 21.

[7] P. Legrain, Immigranti. Perché abbiamo bisogno di loro, Baldini Castaldi Dalai, Milano 2008, pag. 405.

[8] K. Koser, op. cit., pag. 66.

[9] Ibidem, pag. 68.

[10] Cfr. il nostro “La decrescita dell’immigrazione”, in Diorama, n. 285, settembre-ottobre 2007, pagg. 15-17. Maurizio Pallante, il principale esponente italiano di questa corrente di idee, ha sostenuto, in un recente pamphlet (Decrescita e migrazioni, Edizioni per la decrescita felice, Roma 2009), tesi non molto dissimili dalle nostre. Forse non è un caso che egli sia anche, nell’ambito di questo movimento, colui che con maggiore convinzione si è svincolato da appartenenze ideologiche che ingessano il dibattito, indirizzandolo verso il vicolo cieco della solita e logora diatriba destra/sinistra.     


[11] Citato in Majid Rahnema, Quando la povertà diventa miseria, Einaudi, Torino 2005, pag. 269.

[12] M. Gronemeyer, “Aiuto”, in Wolfgang Sachs (a cura di), Dizionario dello sviluppo, pagg. 13-39.

[13] Citato in M. Rahnema, op. cit., pag. 314.

[14] Cfr. H.D. Thoreau, Walden ovvero la vita nei boschi in Opere scelte, Neri Pozza, Venezia 1958, p. 346.