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Le interpretazioni del Risorgimento, «conteso» tra fascismo e Resistenza

di Alberto Papuzzi - 12/03/2011

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Risorgimento e Resistenza. O Resistenza come secondo Risorgimento. E' una complessa questione storica, e politica, che torna d'attualità con le celebrazioni per i centocinquant’anni dell'Unità d'Italia. Perché Radio Monaco e Radio Londra trasmettevano entrambe l'«inno di Garibaldi», Va’ fuori d’Italia, va’ fuori stranier? E come mai il Movimento comunista d'Italia, piccolo gruppo antifascista romano, invocava «l'epopea del Risorgimento»? Lo storico ed ex resistente Claudio Pavone, che in novembre ha festeggiato i novant’anni, ha scritto intense pagine su questi temi sia in Una guerra civile (Bollati Boringhieri, 1991), sia nel saggio Le idee della Resistenza ripubblicato nel volume Alle origini della Repubblica (Bollati Boringhieri, 1995) e di recente dalle Edizioni dell’Asino, dopo essere apparso mezzo secolo fa sulla rivista Passato e presente . Ora esce, sempre da Bollati Boringhieri, con il titolo Gli inizi di Roma capitale , una raccolta di saggi, anch’essi degli Anni Cinquanta, sull’inserimento di Roma e del Lazio nello Stato unitario.
Il suo è lo sguardo di un «azionista postumo», come si definisce, nel senso che non è mai stato azionista, ma alla fine di un lungo percorso l’azionismo gli sembra interpretare l'atteggiamento di quella minoranza illuminata e influente che però non è mai riuscita a esercitare il potere politico. L'8 settembre, a Roma, aveva preso contatto coi socialisti, venendo arrestato già alla fine di ottobre. Uscito alla fine di agosto 1944 dal carcere di Castelfranco Emilia, militò in un piccolo gruppo milanese, composto soprattutto da intellettuali e appartenente al Partito italiano del lavoro che aveva la sua base in Romagna. Quindi il confronto col Pci: «Sono stato per molto tempo rispetto ai comunisti o un compagno di strada o un utile idiota, dipende dai punti di vista». Vide nel Sessantotto «una riapertura del campo del possibile», si unì al gruppo di Democrazia Proletaria e strinse rapporti molto forti con Vittorio Foa, che divenne il suo principale punto di riferimento. Conclusasi l'esperienza, rientrò nella posizione di indipendente di sinistra.
Professor Pavone, qual era il significato attribuito al Risorgimento dagli antifascisti?
«Il Risorgimento era al centro di vivaci discussioni. Giustizia e Libertà , giornale dell’omonimo movimento che si stampava a Parigi, ospitò nel 1935 un importante dibattito sul tema. Il punto era questo: perché l'Italia, nata dal civile Risorgimento, ha poi dato vita al fascismo, divenuto il prototipo della moderna barbarie, che per di più pretendeva di rappresentare la provvidenziale conclusione del Risorgimento stesso. Era dunque necessario riesaminare ombre e luci di quel grande momento della nostra storia. Si trattava di contrapporre alla interpretazione fascista una interpretazione democratica e critica a un tempo. Parteciparono alla discussione Carlo Rosselli, Franco Venturi, Andrea Caffi, Nicola Chiaromonte, Umberto Colosso. Per Benedetto Croce, invece, il Risorgimento più che essere passato al setaccio della critica doveva essere soprattutto difeso: in questo manifestava una contrapposizione generazionale. Il dibattito agitava anche i comunisti: Togliatti scrisse nel 1931 su Stato operaio un violentissimo articolo contro GL, che egli temeva potesse conquistare l'egemonia dell’antifascismo. Il “cosiddetto Risorgimento”, scriveva Togliatti, era un “mito” che alle orecchie piccolo-borghesi di GL suonava “come la fanfara per gli sfaccendati”. Ma dopo il VII Congresso dell'Internazionale nel 1935, che varò la politica dei fronti popolari, da cui scaturì quella dell’unità nazionale antifascista, il Risorgimento non poteva non essere recuperato politicamente e culturalmente. Il pensiero di Gramsci, ovviamente sconosciuto durante la Resistenza, consentirà poi alla cultura comunista di elaborare una ben più complessa interpretazione del Risorgimento. Ma già durante la lotta antifascista era stato dato il nome di Garibaldi alle brigate combattenti, prima in Spagna e poi in Italia».
Ma era fondata l’idea della Resistenza come secondo Risorgimento?
«Da un punto di vista storiografico è indubbiamente una forzatura, ma occorre interrogarsi sui vari significati che allora la fortunata espressione assunse e sulla influenza che ebbe. Dei quattro santi padri - Cavour, Garibaldi, Mazzini, Vittorio Emanuele II - Garibaldi era di gran lunga il più popolare. Il primo numero dell’ Unità , uscito dopo l'8 settembre, aveva in prima pagina a grandi caratteri “Torna Garibaldi”. A Milano sotto il monumento si trovava scritto: “Peppin, vien giò, che i son a mo’ chi”».
Anche il fascismo cercò di usare la retorica risorgimentale? Garibaldi e Mazzini sono stati, per così dire, anche due eroi fascisti?
«Esisteva, come ho già ricordato, una interpretazione fascista del Risorgimento, di cui Mazzini, soprattutto dopo l'8 settembre, fece le spese. Su un francobollo della Rsi figurava l'immagine di Mazzini, mentre avrebbero stonato quelle di Garibaldi e di Cavour. Di Vittorio Emanuele II, nonno del re fellone, neanche a parlarne».
Ora che ha compiuto i novant’anni, che cosa ricorda per esempio delle sue letture giovanili?
«Premetto che io sono molto lento e purtroppo lo sono stato anche nel leggere. Delle prime letture ricordo quelle canoniche di Salgari e Verne, ai quali aggiungevo una grande passione per la storia delle scoperte polari. Un libro ebbe per me una importanza particolare: Le storie della storia del mondo di Laura Orvieto, dove imparai a conoscere la guerra di Troia. Naturalmente parteggiavo per i troiani e rimasi male quando al liceo un professore molto fascista ci spiegava che Ettore era un eroe piccolo-borghese (l'addio ad Andromaca? Piagnistei) e che Achille era invece un vero eroe, una sorta di superuomo. Questo professore aderì poi alla Rsi, ricoprendovi un importante incarico. Mio padre, antifascista rassegnato, era innamorato di Dickens e mi trasmise questa passione. Ma la forma d'arte da me prediletta era la musica».
«Una guerra civile», il suo opus magnum, poggia su una ricca bibliografia anche letteraria: se lei dovesse consigliare a un giovane delle opere narrative per capire la Resistenza, che cosa gli consiglierebbe?
«Il sentiero dei nidi di ragno di Calvino e Il partigiano Johnny di Fenoglio».
«Vittorini, Uomini e no …»
«Lo considero meno schietto. E poi mi dà fastidio quell'altezzoso “e no”, ai confini col razzismo: forse che i fascisti non erano anch’essi uomini?».
Lei ha insegnato storia contemporanea a Pisa: come considerava e continua a considerare l’uso di fonti letterarie per la storia?
«Lo considero fondamentale. Dicevo ai miei studenti: se volete studiare la campagna di Russia di Napoleone, leggete prima Guerra e pace . Oggi direi: se volete studiare la guerra in Russia durante il secondo conflitto mondiale, leggete prima Vita e destino di Vasilij Grossman, centrato sulla battaglia di Stalingrado».
Potrebbe dirci qualche libro che ha esercitato un’influenza decisiva nella sua formazione?
«In chiave storiografica, Pensiero e azione di Luigi Salvatorelli che fece capire a me e molti della mia generazione che il Risorgimento non era quello che ci insegnavano a scuola. Nel campo dei massimi problemi, e lo dico con la timidezza che suscita il nome di Kant, la Critica della ragion pura e la Critica della ragion pratica . Nella mia prima giovinezza ero stato un cattolico sempre in cerca di prove inconfutabili dell’esistenza di Dio come garante della realtà del mondo e della legge morale. Kant, dimostrandomi che non c'era né in un caso né nell’altro bisogno di Dio, mi fece uscire da quello che era diventato per me un vero tormento».
Lei si è laureato in giurisprudenza ma ha studiato anche filosofia?
«Subito dopo la guerra mi iscrissi a filosofia, anche per obbligarmi a riprendere un organico percorso di studi. Ebbi due ottimi docenti in Guido De Ruggiero e, all'estremo opposto, Ugo Spirito. Entrambi avevano una grande capacità di dialogare con gli studenti. Naturalmente l'affinità intellettuale e politica mi legò molto di più a De Ruggiero. Ma ricordo che in un seminario di Spirito ebbi una discussione molto accesa sul concetto di lavoro: lui sosteneva che pensare e lavorare erano la stessa cosa, io lo negavo recisamente. Pochi giorni dopo sostenni l'esame, presi trenta e lode e una collega commentò: “Io pensavo che dopo quella litigata ti avrebbe bocciato”». Un’ultima cosa: qual è il libro che non si può fare a meno di leggere? La Divina Commedia ».