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Prosperità senza crescita

di Gianfranco Bologna - 01/05/2011


 

La reazione politica ai tanti eventi mondiali che si stanno accavallando sembra sempre di più schizofrenica ed il nostro paese certamente non è in seconda fila su questo piano. Siamo in una profonda crisi finanziaria ed economica che ha drammaticamente inciso sulla vita di decine di milioni di persone in tutto il mondo, a partire dal 2008, e tutti gli establishment degli economisti e dei decisori che contano, in tutti i paesi del mondo, si stanno interrogando sulla reale possibilità di un continuo perseguimento del modello di crescita economica che ha provocato danni ambientali e sociali enormi.

Il simbolo della crescita economica, il famoso Prodotto Interno Lordo (Gross Domestic Product, GDP), viene ormai, da diverso tempo e con serissime e validissime argomentazioni, messo in seria discussione nel suo valore emblematico della ricchezza e del benessere di un paese. Dall'avvio dell'attuale crisi economica, questo dibattito è diventato ancora più significativo e stringente.

Per citare solo alcuni esempi importanti, ricordo che, dal 2009, è disponibile il rapporto della cosidetta Commissione Stiglitz (la Commission on the Measurement of Economic Performance and Social Progress , presieduta dai premi Nobel per l'economia ,Joseph Stiglitz e Amartya Sen e dal noto economista francese Jean Paul Fitoussi, vedasi il sito www.stiglitz-sen-fitoussi.fr ) che è stata voluta dal presidente francese Sarkozy ed il cui rapporto finale, pubblicato nel settembre 2009, è stato portato in discussione, dallo stesso Sarkozy, alle riunioni del G20.

Tra le altre iniziative di peso, è andato avanti il grande programma mondiale dell'OCSE sulla misura del progresso delle società che ha avuto tra i suoi originatori il nostro Enrico Giovannini, allora capo statistico dell'OCSE ed oggi presidente dell'ISTAT, (vedasi www.oecd.org/progress) e il processo nell'Unione Europea definito "GDP and beyond: measuring progress in a changing world" (vedasi il sito dell'iniziativa del Parlamento Europeo, della Commissione Europea, dell'OCSE, del Club di Roma e del WWF www.beyond-gdp.eu) ha tratteggiato un percorso per i paesi dell'Unione per disporre finalmente di nuovi indicatori di progresso e di benessere da affiancare al PIL.

In questo quadro in Italia è stata avviato la scorsa settimana, sempre su forte impulso di Giovannini, il Comitato di indirizzo dell'iniziativa interistituzionale sugli indicatori di progresso e benessere CNEL-ISTAT, che condurrà ad un rapporto CNEL-ISTAT sugli indicatori di benessere e progresso i quali dovranno poi tradursi nell'utilizzo operativo di nuovi indicatori oltre al PIL e nella loro ampia diffusione.

Nonostante tutto ciò i politici che, freneticamente ed ossessivamente, presenziano tutti i programmi televisivi non fanno altro che parlare della necessità della crescita del PIL.

Il grande storico John McNeill riporta nel suo bellissimo volume "Qualcosa di nuovo sotto il sole. Storia dell'ambiente del XX secolo" (Edizioni Einaudi, 2002) che nel secolo trascorso, dal 1890 al 1990, l'economia mondiale è cresciuta di 14 volte, la popolazione mondiale di 4 volte, l'utilizzo dell'acqua di 9 volte, le emissioni di anidride solforosa di 13 volte, l'utilizzo di energia di 16 volte, le emissioni di anidride carbonica di 17 volte e la cattura del pescato di 35 volte.

Questi trend continuano ancora oggi. Nel bel libro "The Bridge at the Edge of the World" (edito dalla Yale University Press nel 2008) James Gustave Speth ricorda che per ogni decade, dal 1980 al 2005, globalmente il prodotto mondiale lordo è incrementato del 46%, la carta e i prodotti cartari del 41%, il pescato del 41%, il consumo di carne del 37%, le automobili del 30%, l'uso dell'energia del 23%, l'uso dei combustibili fossili del 20%, la popolazione mondiale del 18%, il raccolto di cereali del 18%, le emissioni di ossidi di azoto del 18%, la sottrazione di acqua del 16%, le emissioni di anidride carbonica del 16%, l'utilizzo dei fertilizzanti del 10% e le emissioni di anidride solforosa del 9%.

Indubbiamente l'umanità si trova in una situazione veramente difficile: abbiamo un estremo bisogno di sistemi naturali (foreste, praterie, zone umide, tundre, savane, fiumi, laghi, mari, oceani ecc.) vitali e dinamici, come base insostituibile del nostro benessere e delle nostre economie, e invece, operiamo quotidianamente per renderli sempre più deboli e vulnerabili. Con il passare del tempo non facciamo altro che rendere l'intero genere umano e i livelli di civiltà sin qui raggiunti, sempre più in pericolo. Far transitare con rapidità i nostri sistemi sociali verso una nuova economia è diventato quindi un obiettivo prioritario per tutte le società umane.

Infatti protagonista assoluto di questo processo di deterioramento complessivo della relazione esistente tra sistemi naturali e sistemi sociali sulla nostra Terra, è il meccanismo economico di crescita materiale e quantitativa che stiamo ormai perseguendo, in particolare dalla Rivoluzione Industriale ma, soprattutto, nell'arco degli ultimi 50 anni e che plasma i modelli di consumo alla base, in forme diverse e con penetrazioni diverse, di tutte le nostre società.

Oggetto di questo processo è quello che il grande economista ecologico Herman Daly definisce il Throughput delle nostre società, cioè il flusso di risorse (energia e materia) che attraversa il processo produttivo, quindi la relazione tra il metabolismo naturale e quello delle società umane.
Nel loro ottimo volume "Ecological Economics. Principles and Applications" (Island Press , seconda edizione 2010) Herman Daly e Joshua Farley definiscono la crescita economica : "..... come l'incremento del throughput che costituisce il flusso delle risorse naturali che dall'ambiente passa attraverso l'economia e ritorna poi nuovamente indietro nell'ambiente, sotto forma di scarti.

Si tratta dell'incremento quantitativo delle dimensioni fisiche dell'economia e/o dei rifiuti prodotti dall'economia. Questo tipo di crescita, naturalmente, non può continuare indefinitamente perché la Terra e le sue risorse non sono infinite. Mentre la crescita deve finire ciò non implica la fine dello sviluppo, che viene definito come il cambiamento qualitativo, la realizzazione del potenziale, l'evoluzione verso un migliorato ma non necessariamente più grande, struttura o sistema, un incremento nella qualità dei beni e dei servizi (dove la qualità si misura dall'abilità di incrementare il benessere umano) provvisto grazie ad un dato throughput."

Sempre Herman Daly, ci ricorda, nel suo storico testo "Lo stato stazionario: L'economia dell'equilibrio biofisico e della crescita morale" (Sansoni Editore, 1981) che :"In verità, la crescita economica è l'obiettivo più universalmente accettato nel mondo. Capitalisti, comunisti, fascisti e socialisti vogliono tutti la crescita economica e si sforzano di renderla massima. Il sistema che cresce al tasso più alto è considerato il migliore [...] Mentre l'umanità sta crescendo rapidamente, l'ambiente, di cui fa parte, è rimasto immutabilmente stabile nelle sue dimensioni quantitative."

Come si interroga il noto studioso Tim Jackson nel suo bellissimo "Prosperità senza crescita. Economia per il pianeta reale" (Edizioni Ambiente, 2011) cosa possiamo dire di un mondo in cui 9 miliardi di persone (quante ne avremo sul nostro pianeta nel 2050, secondo le statistiche delle Nazioni Unite) possano raggiungere tutte il livello di ricchezza e abbondanza atteso per le nazioni dell'area OCSE? Jackson ci ricorda, come hanno fatto tanti altri illustri studiosi prima di lui, che ci sarebbe bisogno di un'economia pari a 15 volte quella attuale (75 volte quella del 1950) entro il 2050, e pari a 40 volte quella attuale (200 volte quella del 1950) entro la fine del secolo. A cosa può mai avvicinarsi un'economia del genere? Come potrebbe andare avanti? Offre davvero una visione realistica di una prosperità condivisa e duratura?