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La rottura necessaria

di Alain de Benoist - 24/01/2012

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Al XX secolo sono state applicate parecchie caratterizzazioni: lo si è definito secolo dell’ingresso nell’era atomica, secolo della decolonizzazione, della liberazione sessuale, degli “estremi” (Eric Hobsbawm), della “passione del reale” (Alain Badiou), del trionfo della “metafisica della soggettività” (Heidegger), secolo della tecnoscienza, secolo della globalizzazione e via dicendo. Il XX secolo è certamente stato tutte queste cose. Ma è stato anche il secolo che ha visto l’apogeo della passione consumistica, della devastazione del pianeta e, per contraccolpo, della comparsa di una preoccupazione ecologica. Per Peter Sloterdijk, che vede la modernità caratterizzata dal “principio sovrabbondanza”, il XX secolo è stato prima di tutto il secolo dello spreco. “Mentre per la tradizione”, scrive, “lo spreco rappresentava il peccato per eccellenza contro lo spirito di sussistenza, poiché metteva in gioco la riserva sempre insufficiente di mezzi di sopravvivenza, un profondo cambiamento di senso si è compiuto attorno allo spreco nell’era delle energie fossili: si può dire oggi che lo spreco è diventato il primo dovere civico […] Il divieto di frugalità ha preso il posto del divieto di spreco – e ciò si esprime nei costanti appelli a sostenere la domanda interna”.

Agli inizi del XXI secolo, che si annuncia come un secolo nel quale la “fluidità” (come la definisce Zygmunt Bauman) tende a sostituire dappertutto lo stato solido – così come l’effimero rimpiazza il duraturo, come le reti si sostituiscono alle organizzazioni, le comunità alle nazioni, i sentimenti transitori alle passioni di una intera vita, gli impegni contingenti alle vocazioni immutabili, gli scambi nomadi ai rapporti sociali radicati, la logica del Mare (o dell’Aria) a quella della Terra –, si constata che l’uomo avrà consumato in un secolo riserve che la natura ci aveva messo trecento milioni di anni a costituire.

Le società antiche avevano spontaneamente compreso che nessuna vita sociale è possibile senza che venga preso in considerazione l’ambiente naturale al cui interno essa si svolge. Nel De senectute, evocando il verso citato da Catone “Egli sta per piantare un albero a profitto di un’altra età”, Cicerone scrive: “Di fatto, l’agricoltore, per quanto vecchio sia, al quale si chieda per chi pianta, non esita a rispondere: “Per gli dei immortali, i quali vogliono che, senza accontentarmi di ricevere questi beni dai miei antenati, io li trasmetta anche ai miei discendenti”” (7, 24). La riproduzione duratura ne ha fatto la regola in tutte le culture umane sino al XVIII secolo. Ogni contadino di un tempo era, senza saperlo, un esperto in “sostenibilità”. Ma anche i poteri pubblici lo erano, assai spesso. Un esempio tipico è fornito da Colbert che, regolamentando i tagli di legna per assicurare la ricostituzione delle foreste, faceva piantare delle querce per fornire alberi di nave trecento anni più tardi.

I moderni hanno agito all’inverso. Hanno continuato a comportarsi come se le “riserve” naturali fossero moltiplicabili all’infinito – come se il pianeta, in tutte le sue dimensioni, non fosse uno spazio finito. In ogni momento presente hanno impoverito il futuro consumando ad oltranza il passato.

In questo ambito, i due problemi principali sono da un lato la degradazione dell’ambito naturale di vita per effetto degli inquinamenti d’ogni sorta, che hanno anche conseguenze dirette sulla vita umana e su quella di tutti gli esseri viventi, e dall’altro lato l’esaurimento delle materie prime e delle risorse naturali indispensabili oggi all’attività economica.

Gli inquinamenti sono stati descritti fin troppo spesso, perché ci sia un motivo per tornarci sopra. Ricordiamo soltanto che la produzione annuale di rifiuti nei 25 paesi dell’Ocde ha raggiunto oggi i 4 miliardi di tonnellate. L’aumento della quantità di anidride carbonica nell’atmosfera, che porta con sé la concentrazione dei gas ad effetto serra e di conseguenza il riscaldamento generale del pianeta, in particolare verso i poli, provoca un preoccupante innalzamento del livello del mare, intensifica l’erosione dei suoli, aggrava gli effetti della siccità, spiega l’aumento della frequenza e dell’intensità delle tempeste, dei cicloni tropicali, dei maremoti, delle ondate di calore, degli incendi di foreste e così via. Nel frattempo, la deforestazione prosegue ad un ritmo spaventoso (l’area forestale distrutta ogni anno equivale alla superficie della Grecia), mentre si esauriscono le riserve naturali. Il petrolio, da qui a poco, comincerà ad essere estratto con un rendimento decrescente, mentre la domanda continua a crescere. Le energie rinnovabili, per il momento, rappresentano solo il 5,2% di tutta l’energia consumata nel mondo. Sarebbe vano sperare di trarne molto di più. Quanto allo “sviluppo sostenibile”, di cui tanto si parla dal 1973 (rapporto Brundtland), oltre ad apparire soprattutto come una trovata mediatica, nel migliore dei casi non fa che rinviare scadenze ineluttabili.

Nell’ottica dello sviluppo sostenibile, l’ambiente naturale della vita non è che una variabile vincolante, che aumenta il costo del funzionamento di un sistema votato alla crescita infinita dei prodotti commerciali. Questa modalità di sviluppo non rimette quindi minimamente in discussione il principio di una crescita senza fine, della quale cerca di salvaguardare la possibilità pur affermando di ricercare i mezzi che non la rendano ecologicamente catastrofica. Un simile modo di procedere si apparenta alla quadratura del cerchio. Se infatti si ammette che lo sviluppo è la causa principale della degradazione dell’ambiente naturale di vita, è del tutto illusorio voler soddisfare “ecologicamente” i bisogni della generazione presente senza rimetterne in discussione la natura. Come Serge Latouche ha innumerevoli volte dimostrato, la teoria dello sviluppo sostenibile si accontenta, per fronteggiare i problemi, di sviluppare procedure o tecniche di controllo che curano gli effetti di quei mali senza agire sulle cause. Essa si rivela perciò particolarmente ingannevole, giacché lascia credere che sia possibile rimediare alla crisi senza rimettere in discussione la logica mercantile, l’immaginario economico, il sistema del denaro e l’espansione illimitata del capitale. Di fatto, essa a lungo andare si condanna, nella misura in cui continua a collocarsi all’interno di un sistema di produzione e di consumo che è la causa essenziale dei danni ai quali pretende di porre rimedio.

In tali condizioni, è del tutto naturale che un’altra teoria si faccia strada: quella che cerca di organizzare la decrescita. La parola Può mettere paura o apparire utopica. Come che sia, è una prospettiva che merita di essere esplorata, cosa che già adesso stanno facendo, in molti paesi, una notevole quantità di economisti e ricercatori. La decrescita rappresenta un’alternativa sotto forma di rottura, ma sarà possibile esclusivamente a condizione di una trasformazione generale delle mentalità. Serge Latouche parla, molto a ragione, di “decolonizzare l’immaginario”. Ciò impone di combattere il produttivismo in tutte le sue forme, in vista non di un ritorno indietro ma di un superamento. Si tratta di far uscire dalle nostre teste il primato dell’economia e l’ossessione del consumo, che hanno reso l’uomo estraneo a se stesso; di rompere con il mondo degli oggetti per ricreare quello degli uomini.