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Ricetta di realtà

di Lorenzo Merlo - 14/12/2025

Ricetta di realtà

Fonte: Lorenzo Merlo

In funzione degli ingredienti scelti, della loro quantità e qualità, possiamo realizzare pietanze di realtà confacenti al nostro gusto. Sembra banale farlo presente, ma invece è necessario.

“Se tu capissi tutto ciò che dico saresti me!” (1)
Purtroppo bisogna precisarlo, senza di noi la realtà non esiste. Così come non esiste quella che non vediamo e che altri vedono. O credono di vedere, in quanto essa, apparendo al loro cospetto e fuoriuscendo dalle loro descrizioni, evidenzia che se la narriamo è solo perché ce la portiamo dentro. 
Come la vedono o la creano o la narrano un sordo, un cieco, un handicappato, un muto, un amputato, un malato, un infermo, chi odia, chi ama, l’indifferente? Quale dei loro disegni è giusto e quale sbagliato, come ci chiede il fittizio istinto deformante del razionalismo?
Per coloro ai quali tale evidenza, evidenza non è, purtroppo, bisogna precisarlo, il problema sorge in un punto ben preciso, che fiorisce in coloro che si ritengono – come da usanza illuministico-popolare – proprietari della vita e di ciò a causa di essa deterrebbero: aspetto, personalità, creatività, abilità, doti, idee, ragioni e, appunto, realtà. L’elenco è tanto lungo quanto fuorviante, quindi fasullo. Ma a questi non basta. Bisogna ancora precisare che un qualunque evento è sufficiente per farci cambiare valutazione, opinione, concezione, stato psicologico e via dicendo, per dimostrarci la superficialità, l’inconsistenza e la volatilità della materia fatua con la quale abbiamo riempito l’artefatto edificio dell’io fino all’ultimo poro e con la quale lo corazziamo, almeno fino al prossimo mutamento.
A mezzo della presunta proprietà della vita si percorre l’esistenza come fossimo sultani a spasso spadroneggiante nel proprio califfato. Un territorio virtuale di dimensione variabile, tanto esteso o minuto in funzione della nostra autoreferenziale concezione di noi stessi, del prossimo, del mondo. Può, infatti, essere limitata a noi stessi – il leone da tastiera ne è un campione – o coinvolgere la famiglia (padre padrone), gli amici (trascinatore), gli spettatori (divo), gli elettori (politico), gli attivisti (demagogo), le moltitudini (ideologia). 
Culture, mode, passioni, luoghi comuni possono essere considerati estensioni del territorio virtuale in cui non possiamo, né vorremmo, rinunciare ad esprimere noi stessi. È una sorta di processo di individuazione al rovescio, ammesso di considerare quello coniato da Jung come l’autentico. Con tale formula il ricercatore svizzero intendeva l’ascesa alla conoscenza di se stessi, che altro non è che l’emancipazione dalla struttura dell’io, sempre forgiata e rispettosa dei contesti storico-culturali in cui prende forma. Struttura la cui potenza sta proprio nell’invitarci, con eloquenza luciferina, ad identificarci come attori e sultani nel ruolo generale (aspetto, carattere, dote), specifico (nome, professione, interesse) e del momento (passione, bisogno, diritto). 
Un’emancipazione che permette a chi la compie di distinguere e quindi discernere tra le forze dell’io e quelle del sé, al fine di seguire consapevolmente la rotta della sua profonda natura, di compiere una scelta e di assumersi la responsabilità di ciò che comporta e comporterà – sinonimo di alienazione dal vittimismo – cioè di interrompere il gettito continuo di energia per stare al passo delle volontà dell’io.
L’assuefazione all’io, ai suoi ordini, diritti, morali è sinonimo di patologia e la famelica dipendenza, di terminalità. Un destino che l’uomo percorre nel buio del suo io con orgoglio, arroganza e paura, ignaro dell’uomo compiuto e disintossicato che potrebbe essere se, invece di correre dietro alla chimera del momento divenisse capace di fermarsi ad ascoltare le stelle.
Come al cospetto di chiunque un foglio bianco diviene disegno grafico, letterario o matematico, la realtà subisce il medesimo destino: essa diviene in funzione delle nostre visioni. Purtroppo bisogna dirlo ai sultani che la loro corona non è che una proiezione, che alla consapevolezza dell’esistenza corrisponde la coscienza, che questa avverte se stessa nella narrazione di come ritiene sia il mondo e che la realtà a quel punto è pronta a farci credere d’essere lì, proprio davanti a noi.
Purtroppo bisogna farlo presente, la morte non accade a noi ma a ciò che avevamo o che credevamo d’essere – ed ecco la paura della perdita – che essa è fase necessaria al ciclo della vita di cui siamo espressioni e che, semplicemente, come a vita corrisponde coscienza, corpo ed emozione, a morte ne corrisponde l’assenza.
Notte e giorno, fisica e metafisica, idea e realtà e ogni altra diade, non è composta da due parti di segno opposto. Esse sono interi inscindibili se non per la follia analitica della scienza. Sono la mano e il dito, intero vivo nel loro mutuo soccorso e corpi morti sul vetrino degli scienziati.
Ogni diade è sostanzialmente identica a qualunque altra. Simbolo e allegoria reciproca di ogni dualismo. 
Il flusso delle generazioni rappresenta la presenza della vita. In ognuna ritroviamo tutti i caratteri, tutti i nomi e tutte le professioni, cioè tutte le fittizietà con le quali la ingolfiamo, seppelliamo, uccidiamo. Ad ogni generazione avremo gli stessi disegni, le stesse narrazioni, gli stessi ragionamenti che ogni individuo identificato col proprio ego necessariamente replicherà, mantenendo così lo stato di sofferenza e la realizzazione della legge del karma.
Così la morte, voce della saggezza, non dell’io, resterà inascoltata.

Nota
1. Affermazione attribuita a Miles Davis.