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Obama: la soluzione sono io

di Michele Paris - 26/01/2012

  

Nella serata di martedì, il presidente Obama è apparso di fronte ai membri dei due rami del Congresso americano per il consueto discorso annuale sullo stato dell’Unione. In un intervento durato poco più di un’ora, l’inquilino democratico della Casa Bianca ha ancora una volta assolto ad un cerimoniale ormai vuoto, utile soltanto per rinnovare logori appelli all’unità nazionale e al militarismo a stelle e strisce, così come per snocciolare in prime time televisivo un elenco di vaghe promesse elettorali, totalmente inadeguate di fronte alle devastazioni causate dalla crisi economica tuttora in atto.

Strizzando l’occhio alle profonde inquietudini diffuse negli Stati Uniti ed emerse negli ultimi mesi grazie al movimento “Occupy Wall Street”, Obama ha puntato il dito contro le enormi disuguaglianze sociali e di reddito nel paese, promettendo di utilizzare i poteri del governo per costruire una società più equa.

Il presunto tono populista del suo discorso, cui ha fatto ampio riferimento la stampa d’oltreoceano, si è espresso in passaggi come questo: “Possiamo accettare un paese nel quale un numero sempre più ristretto di persone se la passa bene [inclusi tutti i parlamentari presenti e lo stesso Obama], mentre sempre più americani sopravvivono a malapena. Oppure possiamo ricostruire un’economia nella quale ognuno ha la sua occasione, ognuno riceve una fetta della torta e tutti giocano secondo le regole”.

La retorica di Obama, tuttavia, non può nascondere la realtà di tre anni durante i quali la sua amministrazione ha perseguito quelle stesse politiche che non solo hanno prodotto la crisi ma che hanno contribuito pesantemente ad allargare il divario di ricchezza tra una ristretta élite economico-finanziaria e la grande maggioranza degli americani. Con un gradimento nei suoi confronti a livelli ancora bassi nonostante qualche recupero negli ultimi mesi, più che altro grazie al discredito del Partito Repubblicano e del Congresso in generale, il presidente ha perciò cercato di fare un nuovo appello agli elettori, utilizzando l’argomento del male minore, cioè invitando gli americani a confermagli la fiducia nelle prossime elezioni per evitare il ritorno a politiche irresponsabili in caso di vittoria repubblicana a novembre.

Le idee avanzate da Barack Obama nel suo discorso sullo stato dell’Unione sono state in buona parte riciclate da alcuni suoi recenti discorsi pubblici e, con ogni probabilità, rappresenteranno l’ossatura del suo programma elettorale da qui all’election day. La necessità per i democratici è quella di mobilitare una base elettorale demotivata, prospettando una illusoria virata a sinistra per poi svoltare puntualmente a destra fin dall’inizio del prossimo mandato.

In questa prospettiva s’inseriscono le proposte presentate da Obama che, nella migliore delle ipotesi, finiranno per arenarsi in un Congresso profondamente diviso lungo le linee di partito. Le misure promesse per rimediare alla principale emergenza del paese, una disoccupazione ufficialmente attestata all’8,5%, si risolvono, oltretutto, esclusivamente in benefici per le grandi aziende statunitensi, come gli annunciati sgravi fiscali per quelle compagnie che torneranno ad investire e a creare posti di lavoro in America.

Obama è inoltre tornato a riproporre un aumento delle tasse per i redditi più alti. La cosiddetta “Buffett rule”, non è però nient’altro che una mossa propagandistica, lanciata a poche ore di distanza dalla pubblicazione della dichiarazione dei redditi del favorito delle primarie repubblicane, Mitt Romney, dalla quale è emerso che le entrate milionarie dell’ex governatore del Massachusetts nel 2010 sono state gravate da un’aliquota appena inferiore al 14%.

Sulla stessa linea, sono giunte poi altre promesse, come l’istituzione da parte del Dipartimento di Giustizia di una speciale unità investigativa per fare luce sulle pratiche finanziarie che hanno condotto al tracollo del 2008; oppure misure di sostegno agli studenti universitari e ai titolari di mutui in affanno o, ancora, l’aumento della pressione fiscale sulle aziende che delocalizzano.

Uno dei punti cruciali dell’intervento al Congresso di Obama è stato il riferimento alla bancarotta forzata di General Motors e Chrysler del 2009 che, secondo la prospettiva della Casa Bianca, ha rappresentato il punto di partenza e il modello per il progetto di far tornare gli Stati Uniti una potenza manifatturiera. “Il giorno del mio insediamento - ha ricordato Obama - l’industria automobilistica era sull’orlo del collasso. In cambio di aiuti, abbiamo chiesto responsabilità e ottenuto che lavoratori e dirigenza mettessero da parte le loro differenze”.

La soluzione studiata per General Motors, in realtà, si è risolta nella distruzione di migliaia di posti di lavoro nell’industria automobilistica americana, nella riduzione a livelli di povertà delle retribuzioni degli operai, in particolare i neo-assunti, in tagli ai benefici sanitari e ai piani pensionistici, nel divieto di sciopero e nell’eliminazione di altri diritti dei lavoratori. Il tutto implementato di comune accordo tra l’amministrazione Obama, la nuova dirigenza aziendale e il principale sindacato automobilistico (UAW).

Il modello GM proposto ora da Obama, mentre viene propagandato come lo strumento più adeguato per generare posti di lavoro “ben retribuiti” negli Stati Uniti, intende piuttosto creare una forza lavoro a basso costo e senza diritti, così da permettere alle aziende americane di competere con i concorrenti dei paesi emergenti. Che la classe dirigente americana sia decisa a estendere questo esempio ad altre realtà industriali del paese è stato confermato dallo stesso Obama martedì quando ha annunciato che “quello che sta accadendo a Detroit”, città sede della General Motors devastata dalla povertà e dalla disoccupazione, “può essere replicato in altre industrie. Può accadere anche a Cleveland, a Pittsburgh o a Raleigh”, tre città non a caso situate in altrettanti stati considerati fondamentali per la rielezione a novembre (Ohio, Pennsylvania e Carolina del Nord).

La stessa retorica fuorviante Obama l’ha impiegata anche per la politica energetica a cui ha fatto accenno nel suo discorso. Alla volontà di espandere l’estrazione di petrolio e gas naturale, come chiedono i repubblicani e le compagnie petrolifere, si è accompagnata la promessa di sostenere le fonti di energia rinnovabile, nonostante in questi tre anni la Casa Bianca abbia fatto registrare dei passi indietro su tutti i fronti per quanto riguarda la lotta al cambiamento climatico.

Il presidente ha dedicato infine solo pochi minuti alla politica estera, pressoché interamente improntata alla difesa con ogni mezzo degli interessi dell’imperialismo americano. Nel corso dell’intervento al Congresso, così, non sono mancate le minacce più o meno velate alla Cina, colpevole di mettere in atto pratiche commerciali illegittime per avvantaggiarsi sui concorrenti nei mercati internazionali.

Quelli che Obama ha poi presentato come successi della sua amministrazione comprendono in primo luogo il rovesciamento di un regime sgradito come quello di Gheddafi in Libia, ottenuto tramite la distorsione di una risoluzione ONU e il pretesto dell’intervento umanitario. Il disimpegno dall’Iraq, invece, sarebbe stato il mantenimento di una promessa elettorale, anche se, oltre a non comportare il venir meno del rischio di guerra in Medio Oriente, il ritiro delle truppe era stato negoziato da George W. Bush nel 2008, mentre Obama ha tentato in tutti i modi di raggiungere un accordo con il governo di Baghdad per mantenere un contingente militare americano nel paese ben oltre il 2011.

Il discorso sullo stato dell’Unione di quest’anno si è chiuso con un riferimento significativo all’assassinio di Osama bin Laden lo scorso mese di maggio, grazie ad un assalto palesemente illegale delle forze speciali USA nel territorio di un paese sovrano (Pakistan). Con il comandante del team che ha portato a termine l’operazione, ammiraglio William McRaven, accomodato nel palco riservato alla first lady, Obama ha invitato tutti gli americani a trarre ispirazione e a emulare l’unità dei Navy Seals protagonisti del blitz contro il capo di Al-Qaeda, proponendo in sostanza come modello per il suo paese una squadra di assassini altamente addestrati i cui meriti consistono nell’agire nel totale disprezzo dei diritti umani e delle regole del diritto internazionale.