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E' dai Monti che scende il gelo sull'Italia del lavoro

di Alessandro Farulli - 02/02/2012


 

 

Il gelo sull'Italia è sceso ieri sera. Ma non c'entra nulla l'aria sempre più fredda in arrivo dai Balcani. A mandare sotto zero tutti gli italiani in crisi per colpa del lavoro (perché non ce l'hanno più; perché non lo trovano; o perché lo hanno troppo precario) ci ha pensato il premier Monti, dalla calda poltrona del Tg5 e poi da quella di Matrix. Dopo i sacrifici chiesti sul presente (tasse) e sul futuro (pensioni) probabilmente forte della ritrovata credibilità del Belpaese e degli spread in picchiata (ben vangano, ci mancherebbe), non ha trovato di meglio che ricordare il defunto posto fisso, che solo nominarlo crea in tutti noi ancora un tremito. «Il posto fisso non esiste più», ha detto ieri dimenticandosi tragicamente del fatto che non è il posto fisso a non esistere più, ma se sono veri come sono veri i dati Istat, sono i posti di lavoro tout court a non esistere più. Non ci attacchiamo alla parola "monotonia" che Monti ha usato per definire appunto l'idea del posto fisso, ma al merito dell'intervento e alla pochezza delle argomentazioni.

Con la disoccupazione ai livelli italiani specialmente dei giovani e con la facilità con cui si licenzia, possibile che la ricetta possa essere lavoro ancor più precario e abolizione dell'articolo 18? Il Sole24Ore pensando oggi di corroborare l'analisi del premier ha pubblicati i dati di Confindustria sulle controversie per "estinzione del rapporto di lavoro". Ebbene, di fronte ai 9 milioni circa di lavoratori nel settore privato che godono delle tutele previste dall'articolo 18 sono, udite udite, ben 8'651 i casi annui di controversie lavorative, appunto.

Com'è ovvio osservare, è certamente tanto che servano sei anni per arrivare alla conclusione dei procedimenti, ma siamo pur sempre a degli zero virgola, soprattutto di fronte ai numeri di quanti vanno a casa senza se e senza ma. Licenziati dalla sera alla mattina con una mail o un fax. Tuttavia quello che preme segnalare sono due cose: la prima è che in questa fase il governo dovrebbe dire e argomentare come si creano nuovi posti di lavoro; la seconda è che se intende crearli aumentando le pensioni e rendendo più facili i licenziamenti dovrebbe portare dei numeri convincenti, cosa che invece non fa in alcuna sede.

Nell'ottica di una riconversione ecologica dell'economia fondata sulla sostenibilità sociale e ambientale è chiaro che la qualità dell'occupazione sia uno dei valori del cambio di modello di sviluppo. I diritti acquisiti dalle classi lavorativi vanno estesi non ridotti, e solo così si può evitare quel terribile apartheid di cui parla Monti. Chi non si laurea dopo i 28 anni sarà pure uno sfigato, ma in Italia il primo problema è l'abbandono allo studio, semmai. E' come se un pezzo di Italia che protesta, si dispera, sale su torri e si auto-segrega all'Asinara, non avesse diritto di cittadinanza mediatica, se non quella del clamore e delle lacrime, come se le speranze e le delusioni, le amarezze e i fallimenti dei "poveri" fossero merce di scarto, surplus di vita fatto addirittura passare per "un lusso". Adattatevi, dicono a chi si è adattato da sempre, a chi vive di rinunce, a chi guarda con terrore il futuro senza sicurezze che si prepara per loro ed i nostri figli.

Nessuno di noi vuole - soprattutto in questo caso - ammazzare la Fata fiducia, come la chiama Krugman, che sta aiutando pure l'Italia a respirare, ma non per questo si può accettare supinamente tutto quello che ci viene imposto.  Il tabù non è l'articolo 18, il tabù è il lavoro e parlare di licenziamenti per aumentare l'occupazione ci sembra una pessima interpretazione della "distruzione creatrice" di Joseph Schumpeter.