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Hollywood premia il passato È un (bellissimo) progresso

di Stenio Solinas - 28/02/2012

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I riconoscimenti più importanti vanno al film muto "The Artist" e al nostalgico "Hugo Cabret". Verdetto reazionario? 



Un film muto e in bianco e nero e un film sull’invenzione del cinema hanno fatto a Hollywood il pienone degli Oscar. Cinque ne ha presi The Artist (miglior film, miglior attore, migliore regia, migliori costumi e colonna sonora), cinque Hugo Cabret (fotografia, scenografia, effetti speciali, sonoro e montaggio sonoro).

Viene in mente quella frase di Giuseppe Verdi: «Tornate all’antico. Sarà un progresso».

Naturalmente, perché ciò accada bisogna avere memoria di ciò che è stato e conoscere bene ciò che si è. Non è facile e infatti è una strada che scelgono in pochi: è faticosa, è una ricerca che è anche una scommessa.

Di solito si preferisce andare sul sicuro, quello che in un inglese scimmiottato si chiama trend: il poliziesco e il romanzo generazionale in letteratura, il pulp, l’horror e il pecoreccio studentesco nel cinema, le fiction e i quiz nella tv pubblica, il calcio parlato in quella privata, i cuochi, le cuoche, le tate, i pacchi, i bambini, i naufraghi, i cretini su tutt’e due. Si chiama modernità e come un gregge gli andiamo tutti dietro, ne vogliamo fare parte, si sia pubblico o addetti ai lavori. Si chiama intrattenimento, anche, che è poi la variante aggiornata di ciò che nei secoli bui dell’assolutismo politico era il binomio festa e farina e certo, essendoci evoluti, non c’è la forca a completare il quadro. Basta lo spread.

Intanto, un regista ironico come Michel Hazanavicius, che aveva al suo attivo un paio di pellicole divertenti in cui rifaceva il verso alle spy-stories degli anni Sessanta, invece di limitarsi a sfruttare il filone, decide di rischiare: avrebbe senso oggi, fare un film con quella che è l’essenza stessa del cinema, l’immagine? E come bisognerebbe girarlo, come renderlo appetibile per un’epoca smaliziata e dove la tecnica è capace di virtuosismi straordinari? Intanto, un mostro sacro come Martin Scorsese, uno che è già nella storia del cinema, decide di fare un omaggio a ciò che per lui è l’essenza stessa del cinema: la capacità di stupire, di far sognare, lo sguardo infantile e quindi vergine con cui si scopre il mondo.

The Artist e Hugo Cabret sono nati così, recuperando ciò che era andato perduto, guardando con occhi nuovi ciò che era già stato.
Qualcuno dirà che si tratta di un’operazione reazionaria, che così si regredisce e non si progredisce, che così non si affrontano i problemi del nostro tempo. E certo, il nostro è un tempo curioso, dove tutto è problematico e si passa il tempo a cercare ricette pratiche, come se la vita fosse una tecnica e la conoscenza tecnica il massimo della vita. E ci sfugge che abbiamo perso la capacità di entusiasmarci e di stupirci, che non crediamo più a niente perché abbiamo razionalizzato ogni cosa, che ogni sogno sempre più si trasforma in incubo.

Nella loro lineare semplicità The Artist e Hugo Cabret raccontano anche questo, l’idea di un destino e la forza di un sentimento, l’orgoglio e il non darsi per vinti, il dare un senso a ciò che si è. Rendendo omaggio a un’epoca mitica della «settima arte», riportando in vita Georges Meliès, e facendolo con l’uso sapiente della più moderna tecnologia, Hazanavicius e Scorsese ci dicono in fondo che ciò che siamo stati resta la parte più essenziale di ciò che siamo. In un bel libro di Alain de Benoist, Ultimo anno (Settecolori editore), si fa una precisa distinzione fra i nostalgici e gli amanti del passato. «I primi rimpiangono di non aver conosciuto un’epoca che credono essere stata migliore o superiore della propria. Vivono nell’orizzonte del rimpianto. Nulla di simile tra i secondi. Costoro amano il passato per quel che è: qualcosa che è passato», una dimensione cioè che fa parte del nostro presente, lo illumina e in qualche modo lo feconda. Perché poi, in fondo, «il passato non esiste. È soltanto un presente divenuto invisibile. Il futuro, poi, è soltanto un argomento per chiacchierare».