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“Ciak, si bombarda!”: divi di Stato contro il Sudan

di Enrico Galoppini - 19/03/2012



Dal cilindro della propaganda occidentale escono a getto continuo trovate a dir poco spettacolari, che solo una fervida immaginazione unita ad una brama sconfinata di manipolare la realtà può produrre: l’ultima è “l’arresto” di un celebre divo di Hollywood intento a manifestare sotto l’ambasciata del Sudan negli Stati Uniti contro il “regime” di quel grande Paese africano posto al crocevia del “Continente nero” e per questo ambito sin dall’Ottocento da tutte le “potenze” occidentali, anche a costo di scannarsi tra di loro.

Secondo copione, il divo in questione è stato prontamente rilasciato, tuttavia l’‘imbarazzante contrattempo’ occorsogli, subito reclamizzato urbi et orbi attraverso la tentacolare piovra mediatica, ha fatto subito il giro del mondo.

Il risultato è quello auspicato da chi aveva architettato questa messa in scena: finalmente i tele-sudditi sono edotti, oltre che sulla “malvagità del regime siriano”, di quello iraniano, di Putin, di Chavez, della Corea del Nord eccetera (la lista è lunghina), anche su quella del governo sudanese, da tempo nella tabella dei “cattivi” a causa dell’ipermediatizzata “catastrofe umanitaria nel Darfur”, sulla quale il “gran pubblico” certamente non avrà capito un accidente (ma basta starnazzare per una “catastrofe” per riscuotere simpatie). Tra l’altro, il presidente del Sudan è l’unico capo di Stato in carica su cui pende un “mandato di cattura” del farisaico “Tribunale dell’Aja per i crimini contro l’umanità” (purché non commessi dall’Occidente: America, Inghilterra e Israele in testa alla classifica dell’impunità totale).

Gli attori e i cantanti famosi vengono amati da molta, troppa gente, e sono tra coloro ai quali degli sprovveduti in buona fede si affidano per formarsi un’opinione in un’epoca di disorientamento e di mancanza di punti di riferimento saldi e certi.

Ve ne sono per tutti i gusti, da quelli impegnati anima e corpo “per il Tibet”, a quelli specializzatisi sui Balcani e la “bestialità slava”, a quelli che scorazzano per l’Africa in un perenne ‘safari umanitario’, immancabilmente ritratti accanto ai classici bambini neri pelle e ossa con le mosche negli occhi. Sono i “testimonial” di “campagne” che presentate sotto le immancabili parole d’ordine “umanitarie” puntano a “sensibilizzare”, a creare uno stato d’animo favorevole ad un “intervento” occidentale, ad una ennesima “guerra giusta”.

Per suscitare astio nei confronti degli “arabi” sudanesi, poco inclini verso una “primavera” in salsa nilotica e per questo meno simpatici di altri, si ostentano platealmente “amore” e “tolleranza” verso i “poveri neri” della Nubia, presentati alla stregua di una “specie da proteggere” prima dell’estinzione, elargendo loro, caritatevolmente, un simulacro di Stato per farli giocare all’agognata “indipendenza” (un capitolo a parte meriterebbe la voce “popoli minacciati”, a geometria variabile, in base alle esigenze geopolitiche occidentali, e collegata a quella “autodeterminazione dei popoli” escogitata in America all’indomani della distruzione degli Imperi plurinazionali di diritto divino).

Chi comanda in America non ama affatto i “neri”, una categoria quanto mai indefinita ma mediaticamente utile per alimentare “odio di sé” e sensi di colpa nei “bianchi” dominati dalla medesima élite a cui non interessa un bel niente il colore della pelle ma il grado d’adesione al suo disegno perverso di riduzione dell’intero genere umano ad una massa amorfa di individui dimentichi del perché si trovano su questa terra. Anzi, a dirla tutta, chi comanda in America non ama per principio proprio nessuno se non se stesso, né “gli americani” né “gli ebrei”, cosa che del resto abbiamo già rilevato, sebbene un’apparenza fabbricata ad arte induca a credere il contrario anche chi vorrebbe opporsi additando a “nemico” questa o quella “categoria” etnica, ideologica o religiosa. Si è invece in presenza di una “casta”, unita anche a livello di consanguineità, che fondamentalmente si sente investita di una “missione”: chi la condivide è “amico”, chi non la condivide è “nemico” e dev’essere annientato.

Ma sempre grazie a Hollywood e ai suoi film “antischiavisti” dove alla fine trionfa l’eroe “idealista”, oppure proponendo solo e sempre altri drammi umani di ambientazione (pseudo)storica, i cine-rimbambiti non realizzano mai che il più grande crimine della storia dell’umanità moderna, la riduzione in schiavitù di milioni di africani dalla pelle nera, fondata sullo sfruttamento di esseri umani da parte di altri loro simili, non è stata pianificata e diretta da dei generici “bianchi” (cioè “da noi”, in base al condizionamento cercato e ottenuto). Eppure, chi dimostra inoppugnabilmente che le cose sono andate in un altro modo, sia con ricerche storiche che con un cinema non omologato al “politicamente corretto”, viene sistematicamente emarginato dai “padroni del discorso” come “razzista” e “fascista”. Si deve invece pensare che in fondo si è trattato di un “errore”, di un “incidente di percorso”, di una tollerabile “stortura” sulla via retta del “Progresso”: il “bene” alla fine ha trionfato, le “giacche blu” hanno vinto e tutto il campionario di terribili accuse di “razzismo” è rimasto sul groppone degli sconfitti della Seconda guerra mondiale, tanto il cinema americano – e di concerto quello delle nazioni via via plagiate – è un’arma potentissima di manipolazione delle coscienze.

Tuttavia per l’Occidente non esiste mai, sebbene sembri l’esatto contrario, alcuna “questione di principio” (almeno di quelle che ci vengono proposte di continuo): Sudan o non Sudan, i neri vengono disprezzati come e più di prima dall’élite occidentale, e basti pensare anche al triste destino di chi nella nuova Libia dei “ribelli” ha la pelle scura per rendersi conto della falsità ontologica di tutte queste mielose dimostrazioni di “fratellanza” e “pace” universali che promanano da Oltreatlantico.

Ma con Obama, il mitico “presidente nero”, questo ed altro può accadere, specialmente in Africa, che va sottratta a tutti i costi dalla progressiva e sempre più massiccia influenza cinese…

Questi Divi di Stato – su cui il compianto John Kleeves ha scritto un importantissimo libro – nel loro “contratto di lavoro”, diciamo così, devono impegnarsi anche per queste “nobili cause”: il pubblico, che già li ama alla follia, li collega così automaticamente all’America, perciò se quelli nei film impersonano i paladini del “bene”, anche l’America, per la proprietà transitiva, viene percepita allo stesso modo.

L’America è davvero incredibile: già coi film plagia a livelli parossistici le menti della gente - quella sventurata gente che ha avuto la sorte di essere occupata prima militarmente, e poi su tutti gli altri piani -, ci tira su una barca di soldi, e poi, grazie alla notorietà e al “credito morale” riscosso dagli attori famosi – i quali impersonano sempre “eroi positivi”in lotta contro il “male” - sfrutta questo fattore a beneficio delle sue strategie di politica estera. E già che c’è non disdegna di mungere altra grana da chi sente come un dovere morale inviare un “obolo” alla causa umanitaria di turno, il che psicologicamente serve a far sentire il “donatore” come un “protagonista” dalla parte del “Bene”. Non si crederà infatti che tutto questo baraccone di gente che si agita da una parte all’altra del pianeta per plagiare, sobillare e sovvertire - ma anche la “campagna elettorale di Obama” - costi la bazzecola che può essere raccolta dalle tasche di privati cittadini…

Ci sarebbe da scrivere non poco sull’arte moderna, sviluppata a livelli che oltrepassano la normale immaginazione, di montare dei “casi” strappalacrime per motivi che hanno a che fare con strategie di dominio ed asservimento planetario piuttosto che con la “bontà”. Ormai i film anticipano la realtà, e la realtà sembra sempre più un film. Ma basti chiedersi chissà perché queste “star” del cinema o della canzonetta non abbiano mai posato accanto ai corpi straziati delle vittime del loro datore di lavoro: non sanno dove si trovano le “Repubbliche delle Banane” del Centro America? Qualcuno spiega loro dove stanno l’Iraq e l’Afghanistan? Ma come, vanno in Sudan e si perdono la Costa D’Avorio? E la Palestina, non sarebbe perfetta come ‘set cinematografico’?

In tutta questa vomitevole storia di manipolazione spinta all’estremo, c’è poi un aspetto davvero inquietante: come essi stessi ammettono, lo stesso “arresto” del divo di turno è stata una sceneggiata. Che pensare dunque degli agenti di una Polizia di Stato che, inviati evidentemente da un superiore, si sono prestati a recitare questa parte? D’altra parte che simili pantomime avvengano in America non deve sorprendere: lì la finzione è istituzionalizzata, e tutti i politici prima di ogni altra cosa sono dei consumati attori. Infatti nel ‘filmetto’ a tema sudanese è rientrata anche la scenetta dell’incontro dello stesso divo appena “liberato” (!) con lo “staff della Casa Bianca”

Purtroppo, avanzando la nostra alienazione e il nostro sfaldamento esistenziale, non solo l’America, ma anche l’Europa, l’Italia, esprimono sempre più, direi quasi esclusivamente, non degli statisti - uomini col senso dello Stato – bensì dei teatranti degni di un cabaret, sempre pronti a scattare al “ciak si gira” del regista a stelle e strisce.

Ci si alza e si esce dalla sala, all’unisono, come comparse di una commediola, alla prima parola del “cattivo” di turno; si chiudono ambasciate in Paesi che non ci hanno fatto alcun male; si riconosce immediatamente uno Stato-fantoccio in mezzo ai Balcani (il Kosovo) e non si riconoscono altre realtà statuali (l’Abkhazia, ad esempio) solo perché si trovano nell’orbita di Mosca (e il Badrone non vuole).

Tutta questa finzione, questo recitare dalla mattina alla sera, proclamare il contrario di quello che si pensa ed inscenare l’opposto di quel che si vuol fare non va bene. Non va bene perché non fa bene. Non si raccomanda forse ai bambini che “non si dicono le bugie”? Perché come uno cresce ne fa una regola di vita? L’abitudine inveterata alla menzogna incallita è una malattia del cuore.

Già, ma com’è possibile non mentire se tutta questa “società moderna” è basata sull’apparenza, tanto che vi è chi l’ha felicemente definita “società dello spettacolo”? In questa galleria di spettri e di ombre cinesi, e mai di uomini veri, non si poteva non arrivare anche a questo punto: che l’inizio di una guerra – una realtà, magari spiacevole, ma che fa parte del mondo, checché ne pensino i “pacifisti” - non venga sancito da una “dichiarazione”, da una lettera virilmente e responsabilmente consegnata da un rappresentante ufficiale di uno Stato ad un altro considerato comunque degno di rispetto. Oggi, invece, nell’era delle “operazioni di polizia internazionale” in cui vi è solo da acciuffare qualche “bandito”, si ritira alla chetichella l’ambasciatore prima dell’aggressione, come se non si avesse il coraggio di guardare in faccia il “nemico”, e il via libera all’attacco lo si dà con un vile e surreale “ciak si bombarda!”.