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USA, o la Borsa o la vita

di Michele Paris - 07/03/2013


    


Tra l’entusiasmo a malapena celato dei media istituzionali d’oltreoceano, l’indice Dow Jones di Wall Street ha fatto segnare martedì il livello più alto della propria storia, superando il primato registrato nel 2007 alla vigilia della più devastante crisi economica e finanziaria che ha colpito il sistema capitalistico dagli anni Trenta del secolo scorso. Ben lontano dall’essere un motivo di celebrazioni, il record toccato dal Dow Jones prefigura la probabile esplosione di una nuova rovinosa bolla finanziaria nel prossimo futuro e dimostra in maniera inequivocabile la natura di classe delle politiche messe in atto dall’amministrazione Obama, responsabile in questi ultimi quattro anni di un colossale trasferimento di ricchezza a favore dell’oligarchia parassitaria americana.

Nonostante il Dow Jones tenga in considerazione soltanto il prezzo dei 30 principali titoli quotati a Wall Street, il fatto che abbia superato il precedente primato è altamente significativo della fiducia che pervade gli speculatori finanziari grazie agli interventi della politica di Washington e della Banca Centrale statunitense. Con prospettive di ulteriori picchi nei prossimi giorni, nella giornata di martedì il più vecchio indice della borsa di New York ha guadagnato lo 0,9%, chiudendo a 14.253,77 punti, vale a dire oltre il doppio rispetto al livello più basso mai toccato, risalente al marzo del 2009.

Il sostenuto “rally” della borsa americana in questi quattro anni è andato di pari passo con il peggioramento o quanto meno con il ristagno dell’economia reale, nonché soprattutto con il progressivo deterioramento delle condizioni di vita di decine di milioni di lavoratori, pensionati, giovani e disoccupati. Simbolicamente e forse non a caso, il record del Dow Jones è giunto inoltre a pochissimi giorni di distanza dall’entrata in vigore del cosiddetto “sequester”, cioè i tagli automatici alla spesa pubblica pari a 85 miliardi di dollari scattati in seguito al mancato accordo tra democratici e repubblicani per contenere il debito federale.

Questi tagli dovranno essere implementati entro la fine di settembre e andranno a colpire ancora una volta le fasce più povere della popolazione che fanno affidamento su programmi pubblici sempre più esili. Allo stesso modo, il livello ufficiale di disoccupazione negli Stati Uniti rimane a livelli allarmanti (7,9%) - mentre durante il precedente record del Dow Jones era abbondantemente al di sotto del 5% - e svariate ricerche condotte negli ultimi mesi indicano come le retribuzioni di lavoratori e classe media siano ai livelli più bassi da oltre mezzo secolo a questa parte.

In un clima di sfiducia generalizzata e di gravissimo affanno per la maggior parte della popolazione, appare perciò evidente che il motivo dell’impressionante recupero della borsa americana, e non solo, è legato pressoché interamente, come ha scritto mercoledì il New York Times, “all’enorme stimolo monetario offerto dalla Fed e dalle altre Banche Centrali”. Questo fatto conferma il totale scollamento tra il parassitismo finanziario e l’economia reale, risultato delle politiche di deregulation e della distruzione dell’industria manifatturiera negli Stati Uniti per consegnare alle banche e agli speculatori di Wall Street il ruolo di motore, sia pure artificioso, del sistema economico.

Secondo i dati della Banca dei Regolamenti Internazionali, infatti, a partire dalla fine del 2007 le cinque principali Banche Centrali del pianeta hanno immesso sui mercati qualcosa come 6 mila miliardi di dollari, ufficialmente per tenere a galla l’intero sistema economico. Più recentemente, da parte sua la Fed americana ha messo in atto un’aggressiva politica monetaria, definita “quantitative easing”, una pratica che consiste sostanzialmente nello stampare denaro per mettere a disposizione delle grandi banche una quantità virtualmente illimitata di fondi. La Fed, cioè, acquista attualmente azioni e titoli finanziari per 85 miliardi di dollari ogni mese (più di mille miliardi all’anno), consentendo agli investitori di Wall Street di continuare ad accumulare enormi profitti tramite rischiose operazioni finanziarie.

Una simile pratica, oltre a contraddire clamorosamente la pretesa delle classi dirigenti che non esistono risorse per sostenere i precedenti livelli di spesa pubblica, rischia di innescare una nuova bolla ancora più grande di quella esplosa nell’autunno del 2008 con il tracollo di Lehman Brothers, dal momento che un tale scenario lascerebbe esposte anche le stesse Banche Centrali che oltre quattro anni fa garantirono il salvataggio del sistema venendo in soccorso degli istituti sull’orlo del collasso.

Per questo motivo, il governatore della Fed, Ben Bernanke, solo qualche giorno fa ha confermato il persistere del “quantitative easing” fino a quando, a suo dire, il livello di disoccupazione non sarà sceso sensibilmente. La decisione di proseguire con questa politica monetaria ha ricevuto molte critiche all’interno della Fed proprio per i timori che essa possa alimentare una bolla distruttiva e, recentemente, soltanto l’ipotesi di una sospensione del “quantitative easing” ha fatto registrare una rapida discesa degli indici di borsa.

Questa stessa politica monetaria continua peraltro ad essere adottata anche da altre Banche Centrali nei paesi più avanzati, anche perché contribuisce alla svalutazione della loro moneta, rendendo più competitive le esportazioni a discapito dei rispettivi concorrenti, con il rischio però di scatenare una pericolosa guerra delle valute su scala globale. Il Giappone, in particolare, con il ritorno al potere del premier conservatore Shinzo Abe ha dato inizio in queste settimane all’immissione sul mercato di enormi quantità di denaro per “stimolare l’economia” sull’esempio della Fed americana.

Negli Stati Uniti, il rialzo artificioso del Dow Jones, ma anche degli altri indici di borsa più importanti, è da collegare dunque a quella che ancora il New York Times qualche giorno fa ha definito “l’età dell’oro per i profitti delle corporation”, saliti a livelli vertiginosi proprio in concomitanza con l’impoverimento delle masse.

A confermare l’allargamento senza precedenti delle disuguaglianze di reddito in America sono i dati ufficiali che indicano, ad esempio, come i profitti delle compagnie private nel terzo trimestre del 2012 abbiano fatto segnare il livello più alto dal 1950 in termini di percentuale del redito totale del paese (14,2%), mentre le entrate dei lavoratori dipendenti hanno sfiorato il punto più basso dal 1966 (61,7%). Inoltre, il fatturato delle corporation a partire dallo scoppio della crisi nel 2008 è cresciuto alla media annuale del 20,1% contro un misero 1,4% al netto delle tasse per il resto del paese.

A differenza di quanto generalmente scritto in questi giorni dai principali media americani, questa esplosione dei profitti non è giunta nonostante la disoccupazione ancora elevata o i tagli alla spesa pubblica che hanno frenato l’economia, bensì precisamente in conseguenza di tutto questo. Grazie ad una classe politica interamente al loro servizio, l’aristocrazia parassitaria statunitense sta infatti raggiungendo livelli di ricchezza mai visti, appropriandosi delle risorse sottratte a decine di milioni di persone che continuano a pagare a carissimo prezzo una crisi per il cui scoppio non hanno avuto alcuna responsabilità.