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Se questa è una crisi morale, non ne usciremo con strumenti solo economici

di Francesco Lamendola - 16/10/2013



 

Nemmeno ora, mentre la crisi finanziaria ed economica ci attanaglia e ci sta mordendo a sangue; nemmeno ora, che il clima da campagna elettorale permanente ha reso tutti ancora più loquaci e ancora più saccenti del solito – politici e politologi, economisti e tuttologi, opinionisti e pseudo-intellettuali d’ogni risma e d’ogni bandiera –, nemmeno ora abbiamo sentito fare una riflessione seria e delineare una via d’uscita realistica dal vicolo cieco in cui siamo finiti, perché nemmeno ora si è avuto il coraggio di andare alla radice del problema e riconoscere che quella che stiamo vivendo è essenzialmente, e prima di ogni altra cosa, una crisi morale.

È anche una crisi produttiva; una crisi dei consumi; una crisi del sistema bancario, dominato dal signoraggio, e di quello assicurativo; una crisi occupazionale; una crisi, insomma, materiale; ma, prima di tutto e in origine, essa è stata, ed è tuttora, una crisi morale: una crisi della persona, una crisi della mente e del cuore, della professionalità e degli affetti, della famiglia e della scuola, dell’intelligenza e della cultura, della spiritualità e della fede.

C’è stato uno scadimento complessivo: del senso del lavoro fatto bene; del rispetto dovuto a se stessi e al prossimo; della scrupolosa osservanza degli impegni presi; dell’attitudine ad affrontare sacrifici per raggiungere obiettivi; della disponibilità a mettersi in discussione, a correggersi, a perfezionarsi; della dedizione nei confronti delle persone che diciamo di amare; della correttezza nei confronti di quelle che ci permettono di lavorare; della consapevolezza che nulla nasce dal niente, che per ottenere qualunque cosa bisogna impegnarsi; che la filosofia “del tutto e subito” e del “minimo sforzo col massimo rendimento” è una filosofia da piccoli cialtroni di provincia, buona per i personaggi cinematografici alla Alberto Sordi.

Abbiamo visto, o addirittura vissuto in prima persona, il disamore verso i propri genitori, il proprio compagno o la propria compagna di vita, i propri figli, i propri datori di lavoro e i propri dipendenti, i propri vicini di casa e i propri colleghi. In nome di un individualismo esasperato, di una ricerca del vantaggio ad ogni costo, di una affermazione del proprio io meschino su tutti gli altri e contro tutti gli altri, abbiamo seminato confusione, disordine, improvvisazione, cose mal fatte, situazioni ambigue, relazioni instabili, senso di precarietà, smarrimento morale, cattivi esempi - specialmente nei confronti dei bambini e dei ragazzi.

Abbiamo perduto la chiarezza intellettuale e morale, perché abbiamo smesso di considerarci persone inserite in una rete di relazioni virtuose e abbiamo inseguito la funesta illusione di poterci affermare a dispetto degli altri, vedendo negli altri dei concorrenti o dei nemici da sgominare, oppure dei mezzi per raggiungere i nostri scopi, per ottenere il nostro piacere, per favorire il nostro interesse; abbiamo creduto che una società di atomi impazziti, che fanno e disfano continuamente quel che avevano incominciato, inseguendo ogni umore passeggero, ogni capriccio momentaneo, ogni più piccola occasione di vantaggio e di egoistica utilità, potesse continuare a funzionare come prima, potesse continuare a esistere come nulla fosse.

Abbiamo tollerato o approfittato di situazioni scandalose di inefficienza, furberia, corruzione: che un primario di ospedale, per esempio, possa fare anche il professore universitario, e presentarsi davanti agli studenti senza passione e senza interesse, sapendo di avere già un doppio stipendio garantito, e trasmettendo poca cultura e pochissima dirittura morale; oppure che una classe di amministratori e di politici di professione seguitasse a predicarci e ad imporci sacrifici sempre più duri, senza però mai ridurre, essa, i propri privilegi, nemmeno di poco, nemmeno pro forma.

Sono cose che si pagano.

La società ha smesso di funzionare: la famiglia di educare, la scuola d’insegnare, l’economia di produrre, i giornali d’informare, i politici di governare, gli amministratori di amministrare: da tempo ci si è abituati a vivere di rendita, sfruttando i piccoli e i grandi privilegi, occupando poltrone al solo scopo di bloccarne l’accesso ad altri, magari più preparati e più onesti, magari più motivati ed energici.

Sono venute meno le idee: basta ascoltare gli sproloqui dei sedicenti esperti nei salotti televisivi, per capire che si è smesso di pensare; oppure basta assistere ad un esame di stato in una scuola pubblica o privata, per capire come si è smesso di ragionare con la propria testa. Si ripetono frasi fatte, formule politicamente corrette, insulsaggine che piacciono a tutti perché impastate nella più abietta demagogia e ispirate al conformismo più triviale.

L’importante è alzare la voce, zittire l’interlocutore, far vedere che si è aggressivi, furbi e ”vincenti”, secondo il pessimo esempio di Mamma Tivù; l’importante è avere, al posto delle idee, un corpo seducente da esibire il più possibile, una posizione economica da sbattere in faccia al prossimo, una facilità di parola per lasciare ammutolito chi ci ascolta; insomma l’importante è avere dei surrogati appariscenti delle idee e, soprattutto, apparire: apparire spregiudicati, apparire in gamba, apparire sicuri di sé. Anche se non si saprebbe nemmeno se per imboccare la strada giusta si deve andare a destra o a sinistra. Ma a chi importano cose del genere?, sono solo dettagli. Non ha importanza dove si vuole andare, quel che conta è far vedere che si va decisi.

Lo fanno in piccolo le singole persone, ciascuna nel proprio ambito; lo fa, in grande, la società intera: non c’è un progetto, né di educazione delle nuove generazioni, né degli obiettivi che si vogliono raggiungere, né del modo in cui ci si propone di conseguirli. Si improvvisa, si pasticcia, ci si dimena un po’: se la va, la va, se no ci penserà qualcun altro. Altri rimedieranno ai nostri errori, altri si assumeranno la responsabilità di gestire le conseguenze dei nostri pasticci, della nostra incompetenza, delle nostre omissioni.

Se i genitori non hanno tempo da dedicare ai figli, perché devono andare in palestra o dalla parrucchiera, allora ci penseranno i nonni. Se gli studenti non hanno la maturità per scegliere in maniera responsabile la facoltà universitaria da frequentare, se passano da una facoltà all’altra senza concludere niente, se perdono gli anni e intanto si preoccupano più del divertimento che dello studio, ci penseranno papà e mamma a pagare la retta, a pagare il vitto e l’alloggio, a pagare anche la discoteca e le vacanze. Se il muratore non ha spalmato bene la malta sui mattoni, se l’idraulico non ha messo giù bene le tubature dell’acqua, se l’elettricista ha aggiustato male la televisione; se il dentista ha curato il dente del paziente in fretta e alla bell’e meglio, se l’architetto ha progettato la casa così così, se il commercialista ha sbagliato nel compilare la dichiarazione dei redditi del suo cliente: ebbene pazienza, ci penserà qualcun altro, rimedierà qualcun altro, se la sbrigherà qualcun altro. Qualcun altro provvederà, qualcun altro aprirà il portafoglio, qualcun altro sopporterà inconvenienti e disguidi.

Se il postino non ha voglia di suonare il campanello per far firmare la raccomandata, se ficca l’avviso di giacenza nella cassetta della posta e tira dritto perché ha fretta di terminare il suo giro, quell’utente dovrà recarsi alle poste a farsi consegnare il pacco: e peggio per lui se è un anziano, se è un disabile, se è una persona che ha problemi a trovare qualcuno che l’accompagni. Se il professore non ha voglia di affaticarsi per far capire la quinta declinazione al suo alunno o per fargli apprendere le equazioni di secondo grado, ebbene pazienza: la famiglia del suo alunno manderà il ragazzo a prendere lezioni private, pagherà, si arrangerà in qualche modo, così che altri facciano quel che lui non ha fatto. Se il barista allunga il latte con l’acqua, se l’agricoltore eccede con i pesticidi, se l’industriale manda gli scarichi della sua fabbrica di vernici nel torrente più vicino, per risparmiare sui depuratori o sullo smaltimento dei rifiuti inquinanti, ebbene pazienza: a bere un cappuccino un po’ annacquato non è mai morto nessuno; a mangiare un grappolo d’uva stracarica di sostanze chimiche nemmeno, tutt’al più qualche disturbo, cosa volete che sia; e quanto ai torrenti inquinati chi se ne frega, uno più, uno meno, che differenza vuoi che faccia - e poi, così, si crea lavoro per le aziende specializzate nella depurazione e tutti son contenti.

Che poi debbano pagare i cittadini, che debba pagare la comunità, e che in quella comunità ci sono anche pensionati che vivono con trecento euro al mese, be’ insomma, che cosa si pretende: se il vaso si rompe, qualcuno lo dovrà pure aggiustare, ma in fondo queste cose ci sono sempre state; e allora perché fare i moralisti, perché fare i guastafeste, perché mettere in discussione pratiche consolidate, abitudini inveterate, modi di fare vecchi come il mondo?

Eppure no, non sono vecchi come il mondo. Al tempo dei nostri nonni costituivano una eccezione: e chi se ne macchiava, era bollato moralmente e professionalmente. Certi sbagli si pagavano: si veniva licenziati, senza tanti compimenti e senza sindacati che difendessero le cause sbagliate – per esempio, quella d’un impiegato postale che fa la cresta sulle operazioni degli utenti; oppure quella d’un primario di ospedale che sbaglia la diagnosi o che sbaglia l’intervento chirurgico in maniera clamorosa, imperdonabile, e manda il paziente all’altro mondo; oppure, ancora, quella d’un capitano della marina mercantile che porta la sua nave sugli scogli e si mette in salvo sulle scialuppe prima di tutti gli altri, senza dare ordini, senza prendersi cura dell’equipaggio e dei passeggeri, mentre la gente si butta in acqua terrorizzata.

Adesso chi sbaglia non paga, o paga poco e tardi, e intanto trova il modo di farsi riassumere e di provocare altri danni: non si vergogna, non si sente responsabile, ha sempre un avvocato pronto a difendere la sua causa, magari negando l‘evidenza. Perfino l’assessore corrotto, perfino il sindaco che si fa la villa e la crociera ai Tropici con il pubblico denaro, stornandolo dalla sua destinazione ufficiale per favorire se stesso e i suoi amici, i suoi parenti, la sua amante: perfino simili personaggi, pescati con le mani nel sacco, trovano il modo di puntare il dito contro qualcun altro, di fare la voce grossa, di presentarsi in televisione a far vedere che non hanno paura di niente e di nessuno, che non devono rimproverarsi proprio nulla, che non hanno sbagliato affatto, che sono pronti a querelare chiunque osi affermare il contrario.

Non è venuta meno solo la professionalità, non è venuta meno solo la moralità: è venuta meno anche la dignità. Siamo circondati da persone sfrontate, che non arrossiscono di nulla, che tengono la testa alta anche quando dovrebbero sparire in un angolo, cambiar mestiere, espatriare, cercare di farsi dimenticare da tutti; persone che sfruttano persino le disgrazie altrui, o da loro stessi provocate, per farsi pubblicità, per rilasciare interviste a pagamento, per candidarsi a condurre qualche spettacolo sul piccolo schermo. Non hanno idee, non hanno competenze, non hanno un codice morale e non hanno neppure il senso del limite, il senso del ridicolo, il senso del grottesco: hanno solo un io gigantesco, ipertrofico, debordante.

Questa è la crisi morale che stiamo attraversando: tutte le sue manifestazioni materiali, delle quali ogni giorno ci parlano queste tristi cronache da basso impero, non ne sono che le logiche, inevitabili conseguenze.

Ed è da qui che dobbiamo ripartire, se ancora ne siamo capaci, per uscirne; se ancora ne abbiamo la voglia, oltre che la capacità. Se questa non è solo una crisi economica, ma prima di tutto una crisi morale, non ne usciremo con strumenti di tipo soltanto economico: ne usciremo con una rigenerazione morale – e sarà una cosa lunga -, o non ne usciremo più. In ogni caso, non vedremo la luce fuori del tunnel prima di qualche decennio, come minimo. Siamo preda delle invasioni barbariche, un mondo sta morendo e un altro dovrà sorgere dalle sue macerie: questa volta, però, la barbarie non viene dall’esterno, o non viene solamente dall’esterno, ma risale dalle profondità più segrete del nostro essere. I barbari siamo noi; barbarici sono gli oggetti che abbiamo adorato, i feticci davanti ai quali ci siamo prostrati, gli altari sui quali abbiamo celebrato i nostro sacrifici.

La bruttezza di cui ci siamo circondati, è degna di barbari; e lo sono anche l’insensibilità, il cinismo e l’opportunismo con i quale ci siamo corazzati. Ci siamo disumanizzati: adoratori delle cose, siamo diventati copie e appendici di esse: l’operaio è diventato un subalterno della macchina; la bella donna è diventata un manichino vivente, su cui possano risplendere i vestiti firmati, i gioielli, le acconciature fastose; il calciatore famoso è divenuto un prolungamento del pallone, una occasione di spettacolo e di guadagni, un volto da imprestare alla pubblicità. Tutto ha un prezzo, tutto è in vendita, ma niente ha un senso, né un valore.

E invece dobbiamo ripartire da qui: dal senso e dal valore; dall’umiltà e dal sacrificio; dall’amore…