Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Il confronto tra colonialismo inglese e italiano

Il confronto tra colonialismo inglese e italiano

di Francesco Lamendola - 16/11/2013

 

 

 

 

Un luogo comune è passato alla storia, non solo alla storia dei vincitori, ma anche alla storia dei vinti: che l’amministrazione coloniale britannica, temprata e perfezionata in quattro secoli di vicissitudini e sperimentata in ogni angolo del globo terracqueo, sia stata, nel complesso, la migliore che mai potenza europea abbia messo a punto nei confronti delle popolazioni indigene; mentre quella italiana, durata poco più di cinquant’anni ed esercitata su un impero di dimensioni e risorse piuttosto limitati, non sia in grado di reggere neanche lontanamente il paragone con l’efficienza e la correttezza dell’altra.

È solo una leggenda auto-celebrativa, fabbricata dai vincitori; ma una leggenda che si è insediata sul palco delle verità consolidate e indiscutibili e che è stata fatta propria anche dai neutrali e dagli sconfitti, o dagli ex sconfitti: a ricordarci quanto sia vero che la storiografia non è quella specie di scienza esatta, o quasi, che certi suoi positivistici estimatori vorrebbero farci credere, ma, talvolta, la sfacciata propaganda di chi, di tempo in tempo, detiene il potere. E a detenere il potere è chi ha vinto l’ultima guerra: non importa se tale guerra si sia conclusa da un mese o da un secolo; è da lì che prende forma la nuova geopolitica ed è da lì che nascono tutte le rappresentazioni create per legittimare l’esercizio del potere di turno.

Prendiamo il caso della caduta delle colonie italiane nel corso della seconda guerra mondiale e, in particolare, della conquista delle Tripolitania da parte dell’Ottava armata britannica dopo la battaglia di El Alamein – battaglia, fra parentesi, che ha permesso al generale Montgomery di crearsi la fama di grande stratega, mentre egli la vinse puramente e semplicemente con la superiorità schiacciante degli uomini e dei mezzi a sua disposizione, superiorità che attese pazientemente per dei mesi, e senza aver raggiunto la quale non osò incominciare la propria offensiva, oltretutto con una copertura aerea che assicurava al suo esercito una protezione totale dai cieli, contro un nemico stremato e a corto persino di acqua potabile.

Quando le autorità britanniche si sostituirono a quelle italiane a Tripoli, il 23 gennaio 1943 – dopo poco più di un trentennio di amministrazione italiana – si poté vedere all’opera la filosofia di governo dei vincitori e di che natura fossero le loro grandi promesse ed i loro roboanti proclami in fatto di libertà, democrazia e giustizia. Spoliazioni ai danni dei residenti italiani e cinico disprezzo verso la popolazione araba, oltre che frequenti angherie nei confronti degli Ebrei del ghetto: questo fu quel che i vincitori mostrarono sin dalle prime ore e dai primi giorni della loro occupazione. E si noti che la città era stata loro consegnata senza colpo ferire, proprio perché il Comando italiano aveva voluto risparmiare agli abitanti inutili sofferenze e affinché venisse assicurato fino all’ultimo istante, prima dell’arrivo delle avanguardie britanniche, il mantenimento del massimo ordine e della massima sicurezza, impedendo violenze e saccheggi.

A passare la mano ai nuovi occupanti fu delegato un funzionario italiano con una buona esperienza di cose coloniali, Alberto Denti di Pirajno, il quale ebbe l’opportunità – come la ebbero tutti gli abitanti di Tripoli, italiani e indigeni – di fare un immediato raffronto tra i metodi dell’amministrazione britannica e quelli della passata amministrazione italiana. Dal paragone, quella che non esce bene è la prima: i Britannici avevano bensì la forza e l’assoluta padronanza del campo, eppure si abbandonarono a continue vessazioni nei confronti degli abitanti inermi, oppure le tollerarono, precisamente allo scopo di ricordare a tutti, e specialmente ai nativi, chi fosse il nuovo padrone.

Si vide poi che non si trattava di un atteggiamento temporaneo, dettato o suggerito dalle circostanze contingenti della conquista militare, ma della applicazione fredda e metodica di una filosofia coloniale ben radicata e applicata con successo, si fa per dire, nelle terre dello sterminato impero britannico: quella di far pesare costantemente il bastone del padrone sugli indigeni e di disinteressarsi completamente del loro stato di benessere materiale, della loro sicurezza, della loro elevazione a maggiori livelli di prosperità e di integrazione sociale. A dispetto della retorica del “fardello del’uomo bianco” e della faticosa, ma necessaria missione civilizzatrice che quest’ultimo si era assunto, la realtà è che i Britannici non hanno mai considerato il benessere delle popolazioni indigene, o l’innalzamento del loro livello di esistenza materiale e spirituale, come qualcosa che li riguardasse minimamente: che un certo numero di loro morisse letteralmente di fame, mentre la madrepatria inglese prelevava le materie prime e ogni genere di risorse dai Paesi sfruttati, era cosa perfettamente naturale o che ad essi appariva tale.

Che, viceversa, il Governo fascista spendesse parecchio denaro per sovvenzionare istituzioni caritative musulmane, volte ad alleviare la miseria della popolazione araba, era una cosa che riusciva semplicemente incomprensibile ai “corretti” funzionari britannici, i quali vi sospettarono il paravento di chissà quale frode ai loro danni. Come! Un governo europeo, QUEL governo, per giunta: l’esecrabile governo fascista - contro il quale si era mobilitata la crociata mondiale per la libertà capeggiata da Sir Winston Churchill -, che spendeva fior di quattrini per venire in aiuto alla povertà della popolazione indigena, per alleviare l’indigenza di quei miserabili straccioni arabi? Impossibile, impensabile, assurdo. Doveva esserci qualcosa sotto, qualche inconfessabile furberia mirante a prendere per il naso proprio loro, i gloriosi vincitori dell’Ottava armata di Sua Maestà britannica!

Ed ecco la testimonianza di vita vissuta lasciataci da Alberto Denti di Pirajno - medico, funzionario, scrittore, che ebbe l’incarico dal Comando italiano di consegnare ordinatamente la città di Tripoli in mano all’esercito avanzante del generale Montgomery e che poi scontò tre anni di campo di concentramento in Kenya - nel suo prezioso libro di ricordi «Incantesimi neri» (Milano, Mondadori, 1959, pp. 304-08):

 

«La proprietà privata era salvaguardata dalle leggi di guerra e – garanzia ancor più sicura – dalla parola del generale Montgomery. Ma gruppi di bei giovanottoni biondi dall’aria spavalda e sportiva entravano senza cerimonie nelle case e chiedevano sorridendo qualche bella poltrona per i loro circoli, oppure trovavano che la mobilia della sala da pranzo sembrava fatta apposta per la mensa del loro battaglione, o, ancora, confidavano che la sala convegno dei sottufficiali mancava di un pianoforte. Non si poteva dire di no a ragazzi così simpatici che domandavamo un favore con tanta buona grazia e che spesso per evitare ai proprietari le noie del trasporto si presentavano con un autocarro vuoto. C’era solo da caricarlo: uno scherzo per dei giovanotti così robusti.

Quando parlai di queste razzie a un pezzo grosso del Quartier Generale mi rispose che se quei bravi figlioli si fossero comportati diversamente nessuno si sarebbe reso conto che gli inglesi erano i padroni della città. Nel pomeriggio le vie del centro erano invase da una tale folla d’ubriachi che la popolazione si chiudeva nelle case e sprangava le porte. Durante la notte nei sestieri musulmani, nel ghetto, nelle strade deserte per il coprifuoco le pattuglie di ascari sudanesi a furia di battere col calcio dei fucili contro i portoni si facevano aprire ed entravano nelle case. La visita inaspettata terrorizzava le famiglie arabe e mentre le donne si nascondevano e un ragazzino veniva spedito a chiamare il capo quartiere, gli uomini nel cortile parlamentavano con gli invasori: “O fratelli, perché entrate di notte nelle case dei credenti?”. Nella Hara, il ghetto di Tripoli, le urla salivano al cielo spesso per far capire ai liberatori che mai avevano sofferto simili vessazioni prima di venir liberate, le donne rifugiate sui tetti gridavano: Viva l’Italia! Nelle case italiane i negri pretendevano esaminare i documenti che non sapevano leggere, sputavano in faccia alle donne, chiedevano se la casa ospitasse “bastardi di Mussolini” e si ritiravano dopo aver raccolto qualche oggetto come ricordo della serata. Il colonnello Miller capo della polizia mi disse che tutto ciò era deplorevole: d’altra parte se un esercito che conquista una città non fosse “rather tough”, piuttosto duro, la popolazione non capirebbe chi è il vincitore. Il colonnello A. R. White accusato di trattare gli italiani con eccessiva mitezza era stato rimpatriato con un preavviso di tre ore. Negli uffici della prefettura lo sostituì il colonnello Auckland parente di un autorevole baronetto esponente del partito laburista. Quando lo informai che l’ufficiale di polizia addetto al Municipio si divertiva a prendere a legnate i rivenduglioli arabi e a calci le bancarelle dei mercatini, ammise che qualche volta i poliziotti erano un poco ruvidi, “ma credetemi” mi disse sorridendo indulgentemente con l’aria dell’esperto che istruisce un profano: “credetemi: i nativi non riescono a capire chi è il padrone se il padrone non si fa riconoscere a suon di legnate” e con una risata scoprì generosamente la sua dentiera equina. Le forze armate britanniche occupavano il territorio con una strapotenza di uomini e di mezzi che dava loro un’assoluta sicurezza; avevano l’incontrastato dominio dell’aria; la cortina di fuoco d’una perfetta difesa antiaerea li metteva al sicuro da ogni sorpresa dal cielo; nel porto distrutto che la perizia dei tecnici della Royal Navy aveva riaperto in pochi giorni al traffico affluivano le navi cisterna a rifornire le divisioni corazzate le unità motorizzate e gli stormi dell’8a Armata. E in un paese dove la volatilizzazione d’ogni resistenza, la preponderanza numerica e la superiorità dell’armamento conferivano loro un predominio incontrastato, i vincitori, i padroni, gli uomini che dettavano la legge erano schiacciati da un complesso d’inferiorità così soverchiante da vivere ossessionati dal timore che la popolazione non si accorgesse che gli inglesi avevano vinto e gli italiani avevano perduto.

Ma oltre che da un complesso d’inferiorità la linea di condotta dell’amministrazione britannica era dettata da concezioni assolutamente estranee a quelle che avevano costantemente informato gli atti dell’amministrazione coloniale alla quale appartenevo: un’amministrazione che sempre aveva considerato le popolazioni coloniali come aggregati da guidare a forme superiori e più civili d’esistenza, e mai come armenti umani da sfruttare. L’O.E.T.A. si era impadronita delle casse di tutti gli uffici: e ciò era nel suo diritto. Aveva incamerato i fondi della Croce Rossa: e su questo ci sarebbe stato assai da discutere. Ma quando bloccò i due milioni di lire che l’amministrazione dei beni “auqàf” teneva in deposito presso la Cassa di Risparmio, non potei esimermi dal farmi portavoce della indignazione della popolazione musulmana. Poiché istanze e memoriali rimanevano senza risposta mi decisi a parlarne col segretario generale. Il segretario generale mi fissò cin occhi acquosi ed un’aria leggermente annoiata. Era un uomo allampanato e scolorito che si muoveva con studiata lentezza quasi temendo che un movimento un po’ brusco potesse spezzare le sue membra stecchite. Dopo che gli ebbi minutamente spiegato che i beni “auqàf” erano beni lasciati in eredità o donati da musulmani, che il loro godimento era costituito in perpetuo a scopo d’assistenza e di beneficenza, che l’amministrazione di tali beni era affidata a un Consiglio composto esclusivamente da musulmani, parve svegliarsi. Aggrottò le ciglia e strinse le labbra con una espressione sospettosa: certamente il subdolo italiano lo voleva abbindolare. “Voi vita assistenza, beneficenza. Ma noi abbiamo trovato molto denaro. E perché?  Perché questa istituzione riceveva sovvenzioni dal Governo italiano. Sicuro. Il Governo italiano dava denaro: denaro fascista. Voi non potete negare questo. Potete esser così gentile” e si piegò sulla scrivania sgranando sul mio viso un paio d’occhi che quarant’anni di intrepide bevute avevano reso mucillaginosi: “potete esser così gentile da spiegarmi perché il Governo italiano dava tanti denari a questa istituzione?” Ricominciai la spiegazione. L’amministrazione dei beni “auqàf” non aveva finalità politiche: si occupava unicamente del’assistenza e della beneficienza a favore dei musulmani poveri. L’istituzione possedeva un suo patrimonio immobiliare, ma il reddito era molto modesto, tanto modesto, che non bastava a soccorrere una popolazione numerosa e assai povera. “Poveri? Ma tutti i nativi sono poveri. Siete mai stato in Egitto?” “Ci sono stato: ma i poveri della Tripolitania sono più poveri degli egiziani che hanno ben altre risorse. In questo paese nelle annate di siccità e di cavallette, se i beni “auqàf” sovvenzionati dal Governo non venissero in aiuto ai meno abbienti, molta gente morirebbe di fame”. “E voi perché non la lasciate morire?” Capii allora che le sue concezioni coloniali differivano in modo così radicale dalle mie che sarebbe stata vana fatica cercare un terreno d’intesa. Chiesi venia al mio emaciato interlocutore per aver interferito nella condotta politica della sua amministrazione: l’onesto burocrate ignorò l’ironia delle mie scuse, arrossì vivamente e sorridendo mi tese la mano: “Niente affatto, niente affatto. Non dovete dire così. Apprezziamo molto la vostra competenza e ogni vostro suggerimento a favore delle popolazioni sarà accolto con simpatia. Ma voi non perdete di vista la delicatezza della nostra particolare situazione, non è vero? I nativi devono capire che noi siamo i vincitori. Sono sicuro che un coloniale come voi si rende conto di questa necessità.”

La guerra toglie molte illusioni. Ecco perché in questo secolo in cui tanto si è combattuto e si combatte per la fratellanza dei popoli, per la democrazia, contro l’imperialismo, per liberare le nazioni dal bisogno, dalla tirannia, dalla disoccupazione, per ricostituire l’ordine, per far trionfare la rivoluzione, le generazioni che hanno partecipato a tanti conflitti sono scettiche e disingannate.»

 

Quelle donne ebree che si rifugiano sui tetti, mentre gli ascari sudanesi scorrazzano per il ghetto, insultano i suoi abitanti e rubano a man salva; quelle povere donne spaventate, ma coraggiose, che gridano con quanto fiato hanno in gola, in faccia ai brutali vincitori: «Viva l’Italia!», sono la testimonianza commovente e ingiustamente dimenticata di come non tutto fosse male nell’amministrazione coloniale italiana, nei suoi metodi, nelle sue finalità; né tutto fosse bene, come oggi si vorrebbe far credere, nell’amministrazione coloniale britannica.

Non si vuole, con questa osservazione, negare che vi siano state pagine oscure ed episodi crudeli, presenti, del resto – se si vuole essere onesti - nella storia coloniale di tutte le potenze europee; semplicemente, si vuole riportare in luce una prospettiva storiografica chiusa troppo in fretta, una esperienza storica liquidata troppo sommariamente, sotto il peso infamante di una irrevocabile condanna morale che, forse, l’Italia non ha meritato.