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Il futuro è nostro

di Diego Fusaro - Claudio Gallo - 14/10/2014

Fonte: La Stampa

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Partendo dal mito della caverna di Platone, Diego Fusaro invita con Il domani è nostro a credere in un futuro migliore
  
Bisognerebbe smettere di chiamare Diego Fusaro «giovane filosofo», nonostante abbia soltanto 31 anni. Dopotutto ha ormai diversi libri di successo alle spalle, come il bestseller filosofico Bentornato Marx! e Il futuro è nostro, appena uscito da Bompiani. Seguace indipendente di Hegel, Marx e Gramsci, docente all’Università San Raffaele di Milano, critica radicalmente la nostra società, senza risparmiare «la falsa coscienza» della sinistra. Un atteggiamento che nel mondo della fine della storia conferisce un caratteristico sentore di zolfo



«Il futuro è nostro» parte dalla caverna di Platone per dire come il singolo non deve rinunciare a desiderare un mondo più vero e più giusto, un’aspirazione che si realizza compiutamente nella dimensione sociale. Ma non ci aveva spiegato Popper che Platone era una specie di proto-nazista? 

«Si può essere liberi solo se libera è la società. L’essere liberi, con buona pace delle retoriche neoliberali, non è questione meramente individuale. Metafora dell’unione inscindibile di verità e liberazione, la caverna di Platone ci insegna che il compito della filosofia non arresa all’esistente è affrancare l’umanità dalle catene ideali e materiali, dalle ideologie e dalla schiavitù che domina in un mondo che continua a proclamarsi libero. Dalla sua prospettiva liberale, Popper demonizzava Platone, Hegel e Marx come precursori dei totalitarismi: io li recupero integralmente, mostrando come non vi sia società meno “aperta” e più totalitaria di quella capitalistica. Essa ci imprigiona nella caverna e ce la fa amare, illudendoci che essa sia il solo mondo possibile. Oggi, complice l’ideologia dominante, il sistema si presenta come “gabbia d’acciaio” da cui non è possibile evadere: occorre, allora, tornare a pensarlo come caverna da cui si può uscire; a patto, naturalmente, che si comprenda la natura autenticamente falsa e totalitaria del mondo in cui siamo prigionieri, anziché continuare a viverlo come un destino ineluttabile o come il trionfo della libertà».  

Lei individua in Robinson Crusoe la figura emblematica dell’individualismo che domina la nostra società: perché dovremmo sentirci naufraghi su un’isola deserta? 

«Robinson è il paradigma del soggetto moderno. E’ incapace di intrattenere relazioni autentiche con l’altro: la sola forma relazionale che egli conosce e pratica è quella incardinata sull’utile e sul tornaconto personale, ai danni del povero Venerdì di turno. La nostra è, oggi, una società di Robinson isolati ed egoisti, incapaci di instaurare relazioni con l’altro. In riferimento al mondo moderno Hegel parlava di “sistema dell’atomistica”, a sottolineare come – oggi più di ieri – viviamo nel tempo della morte del legame comunitario. Il mio libro è un tentativo di reagire a tutto questo, ripartendo da Hegel e da Aristotele, e dunque dall’idea dell’uomo come animale politico e comunitario».  

La percezione generale è che il nostro mondo sia il più libero e tollerante della storia, perché lei sostiene invece che la democrazia occidentale sarebbe il più perfido dei totalitarismi? 

«È il totalitarismo perfettamente realizzato, il più subdolo e ingannevole: infatti, illude i suoi sudditi di essere liberi. Quale totalitarismo – rosso o nero – sarebbe riuscito a piazzare nelle tasche dei suoi sudditi un telefono cellulare? Quale sarebbe riuscito a schedare tutti i suoi sudditi, come accade oggi con Facebook e Twitter? Nell’odierno gregge omologato della società di massa, ognuno fa ciò “liberamente”, pensando di essere libero di compiere quel gesto intimamente necessitato dalle logiche del sistema. È una gabbia d’acciaio in cui puoi fare tutto ciò che vuoi, fuorché pensare una società diversa e batterti per la sua realizzazione. Quando un mondo storico riesce a convincere i suoi abitatori di essere il solo mondo possibile, allora può allentare la presa sui corpi, perché è “totale” quella sulle anime».  

Lei individua nella Russia di Putin un polo di resistenza all’omologazione globale. L’attuale società russa non sembra però esattamente un modello da esportare. 

«Putin non è Lenin (purtroppo!): e tuttavia dispone di autonomia strategica e di armi di dissuasione di massa. Per questo, pur con tutti i suoi manifesti limiti, la Russia ha oggi il compito di appoggiare il più possibile gli Stati resistenti all’impero americano, ponendosi essa stessa come Stato che resiste: con la potenza russa, è come se al ritratto stilizzato del presidente americano Obama accompagnato dall’asserto yes, we can si affiancasse un’analoga immagine di Putin, a sua volta associata alla scritta no, you can’t».