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Ripartire dalla Terra

di Guido Rossi - 19/11/2014

Fonte: L'intellettuale dissidente


Prima conferenza economica “agrinsieme”, per prospettare un agroalimentare competitivo. Proposte e dialogo tra rappresentanti di settore e molti ministri. Numerosi i validi suggerimenti, ma rimangono degli importanti dubbi non sollevati.

  

L’agricoltura è tradizione, patrimonio, identità. La cura dei nostri campi è dunque coltura e cultura, ed in quanto tale neanche lontanamente definibile quale semplice attività economica.  Si pensi al ruolo centrale dell’imprenditore agricolo nella lotta al dissesto idrogeologico (ed il primo pensiero va certamente ai tanti -non soltanto agricoltori- che hanno subito e vanno subendo danni incredibili e lutti dovuti a piogge, terremoti ed altre calamità).

Se dovessimo ad ogni modo concentrarci sulla sua mera capacità di produzione, l’agricoltura rappresenta da sola più del 14% del Pil italiano, ed è uno dei pochi settori ad aver “tenuto” in un periodo incerto come quello che stiamo vivendo. Questo ovviamente non significa che i nostri agricoltori non abbiano risentito della crisi, anzi, giacché la generale diminuzione del reddito (e sappiamo chi “ringraziare” a riguardo) ha comportato –fra gli altri- un notevole calo dei consumi alimentari.

Nel corso della prima conferenza “agrinsieme” (organizzata da Confagricoltura, Cia ed Alleanza delle Cooperative ieri presso l’Auditorium Conciliazione) è stata ampliamente sottolineata l’importanza strategica del settore agricolo, da sempre sottovalutato. Questo tenendo poi nella dovuta considerazione che i consumi alimentari nei Paesi in via di sviluppo vanno incrementando, laddove l’Italia rimane concentrata su mercati “maturi” (con poche potenzialità) come l’Europa ed il Nord America.

«Poco male», si penserà, «quantomeno nel “food” non abbiamo rivali». Il pensiero è lecito, ché sul piano qualitativo in pochi possono eguagliarci, tuttavia chi esporta maggiormente –guarda un po’- sono paesi come la Germania e Francia. Si tratta di Nazioni i cui agricoltori vantano oltretutto redditi ben maggiori dei contadini nostrani (francesi e tedeschi si aggirano sui 40.000€ annui rispetto ad italiani e spagnoli che superano appena i 20.000€). Ma come mai Stati che al massimo possono offrire wurstel e crauti (Germania) o al più formaggi e vini decisamente sopravvalutati (Francia) riescono a raggiungere posizioni ben più competitive dell’eccellenza italica? Secondo l’economista Denis Pantini questo “gap” competitivo si spiegherebbe in parte per le importanti sinergie tra politiche della PAC (Politica Agricola Comune) ed accesso al credito, all’estero ben più sviluppate e facilitate che nel Bel Paese.

Sicuramente nel caso italiano sono più i soldi che mandiamo in Europa rispetto ai fondi che riusciamo ad ottenere (per quanto riguarda l’accesso al credito, di fatto negato dalle nostre banche, si stenda invece un velo pietoso). Ciononostante proprio la PAC offre una prima perplessità. Infatti a questa politica comune dobbiamo buona parte dei nostri problemi. L’apertura ad un mercato “libero” da protezioni doganali, se da una parte ha facilitato l’esportazione dei nostri prodotti in mercati stranieri, dall’altra ha “spinto” i nostri prodotti agricoli in una vasta area in cui a vincere è il prodotto più competitivo (dunque meno costoso), non quello migliore.

E la PAC, nata già negli anni Sessanta, è stata e continua ad esser concepita quale sostegno agli imprenditori più produttivi, dunque che producono maggiormente. Un premio pertanto difficilmente spettante ai piccoli-medi imprenditori della Penisola, che pur sono produttori d’alto prestigio. Si pensi allora alle pericolosissime ripercussioni di una apertura del mercato ben maggiore, come quella pianificata dal TTIP (il Trattato Transatlantico). Se Paesi come la Germania esportano maggiormente è perciò solamente per le sleali politiche competitive da essi portate avanti (come la moneta unica, ma questa è un’altra storia). Quindi bisogna stare attenti quando si suggerisce quale necessità per un cambiamento di rotta “l’internazionalizzazione” (più di così?) del nostro mercato.

Altri suggerimenti sono invece evidenti e veramente essenziali, come lo snellimento del “mostro” burocratico, tanto che il ministro Poletti sostiene ci sia il bisogno di «rendere il Paese meno faticoso». Anche perché molte volte l’eccessiva legislazione può essere solamente uno scoglio, addirittura: «troppe norme in materia ambientale non tutelano affatto l’ambiente», come dichiara il ministro Galletti. Semplificazione dunque, nel lavoro e nella sicurezza. Ma anche rispetto del territorio, che come continua il ministro dell’ambiente: «basterebbe ognuno “si occupasse del proprio giardino” per far scattare una molla culturale». Effettivamente, per dirne una, se ognuno curasse il proprio territorio si eviterebbero i sopracitati disastri idrogeologici. E lo stesso semplice ma efficace concetto è parimenti estendibile al piano culturale, economico, e soprattutto sociale. Flessibilità, agevolazione e sostegno. Queste in definitiva le chiavi della giornata, ma prima ancora identità: «noi non stiamo esportando all’estero solo dei marchi, ma cultura. Per farlo dobbiamo però salvaguardare i nostri prodotti, e sostenerli con orgoglio! (ministro Lorenzin)».