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Archeologia della strage di Bologna

di Filippo Facci - 24/04/2021

Archeologia della strage di Bologna

Fonte: Filippo Facci

Chi se ne frega della strage di Bologna: a pensarlo - si parla del processo, anzi dei processi - non è più solo il qualunquista o il disinformato, ma anche il cittadino informatissimo che nei decenni abbia seguito tutte le peripezie di una sorta di mondo a parte – la procura di Bologna – dove si insegue un modello di giustizia archeologica: più passano i decenni e più si riposizionano i fossili della bacheca giudiziaria.
In pratica: la strage della stazione di Bologna è del 1980 (85 morti e 200 feriti) e non se la ricorda un 30-40enne perché non era nato, non se la ricorda un 40-60enne perché era un ragazzino: mentre oggi, in compenso, il ragazzino è diventato un vecchio esattamente come il neofascista Gilberto Cavallini, che fu condannato all'ergastolo nel gennaio 1990 anche se aveva la barba bianca e rese ergastolani tutti noi, prigionieri della giustizia «fine processo mai» che peraltro spiega cosa significa rinunciare alla prescrizione.
Già in quel gennaio 1990, tuttavia, dalla sentenza apprendevi che si aprivano «nuovi scenari» e che perciò, ormai, c'è da «attendere giustizia» come si attende l'altro mondo. E’ con questo spirito positivo che abbiamo accolto il processo ri-ri-ri-ri-iniziato ieri a Bologna davanti alla Corte di assise, con imputati, questa volta, l’ex terrorista di Avanguardia nazionale Paolo Bellini (capelli pochi, e bianchi)  che è accusato di essere il quinto esecutore dell’attentato, in concorso con i Nar già condannati (Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini in via definitiva, più il citato Cavallini in primo grado) oltre all’ex carabiniere Piergiorgio Segatel (accusa di depistaggio) e l’amministratore di condominio Domenico Catracchia (accusa di false informazioni al pm) mentre è riuscito a scamparla l’ex capo dei servizi segreti Quintino Spella (accusa di depistaggio) grazie a un furbo espediente dilatorio: è morto a gennaio.
Ancor più in pratica, il modello di giustizia archeologica – già adottato anche nel caso Ruby-Berlusconi – prevede che ogni volta si faccia un processo che mandi alla sbarra coloro che (si pensa) abbiano ostacolato il processo precedente (a parere della sentenza precedente) ergo la catena è infinita. Già nelle motivazioni della condanna di Cavallini, a gennaio 1990, la Corte d'Assise aveva indicato 12 testimoni da denunciare per «false testimonianze finalizzate a depistare un processo penale in materia di strage». Quindi di processi ce ne saranno anche altri.
Tutto questo è «fortemente desiderato dai familiari delle vittime», ha detto l’avvocato che ne rappresenta l’Associazione: e che cosa pensiamo di questo genere di associazioni non è riportabile. Ma lasciamo parlare l’avvocato: «È stata una strage che ha tentato di sabotare la democrazia italiana, che ha colpito le vittime, la città e l’Italia intera… Un processo ai mandanti: questo è il punto fermo da cui oggi iniziamo, un processo che si preannuncia articolato, lungo, ma anche un ritmo d’udienza serrato». Fate con comodo, sono passati solo 41 anni ed è un fatto che l’opinione pubblica (informata) non abbia mai creduto neppure al primo anello della catena, quello, cioè, in cui la magistratura bolognese ha cominciato a tenersi stretto uno scenario rigorosamente «fascista» in cui ha creduto e crede solo lei.
La sentenza di condanna dei neofascisti Fioravanti, Mambro e Ciavardini (cui aggiungere Cavallini) resta forse la sentenza ritenuta meno credibile tra tutte quelle sugli anni di piombo, un po’, facendo un parallelo coi processi per mafia, come i primi processi per la strage di via D’Amelio. Parlamentari, intellettuali, giornalisti e associazioni di destra e di sinistra (quelle di sinistra anche di più, paradossalmente) hanno più volte sostenuto tesi innocentiste o alternative come per nessun altro grande processo: terminato, in questo caso, senza che fossero indicati né complici né movente né mandanti.
C'è una dichiarazione di Fioravanti che a proposito fa ancora riflettere: «Ringrazio i giudici bolognesi perché hanno esagerato talmente tanto che, alla fine, veniamo chiamati a rendere conto solo di una cosa che non abbiamo fatto e non di quelle che abbiamo commesso veramente (numerosi omicidi, ndr) e quindi veniamo perdonati per le cose che abbiamo fatto davvero, perché discutiamo all'infinito di un'altra cosa; è un paradosso».
Anche Cavallini, a gennaio 1990, era stato il linea: «Sono pentito di quello che ho fatto, ma di quello che non ho fatto non mi posso pentire. Dico, anche a nome dei miei compagni di gruppo, che non abbiamo da chiedere perdono a nessuno». Sulla loro innocenza si firmano appelli da anni, ma procura è troppo impegnata negli infiniti sequel che non risparmiano un covo dei Nar a Roma in via Gradoli (avete letto bene, in via Gradoli: forse gli affitti erano scontati per i Nar e le Br) e insomma abbiamo capito: non ci sarà pace sinché «lo Stato» non salirà nettamente sul banco degli imputati come in tutti i processi mafio-terroristici della più recente giustizia archeologica. In pratica, a Bologna, si raccoglie il testimone di procura della guerra fredda, dopo che anche in Sicilia – con la traballante «trattativa» Stato-mafia – avevano decisamente perso colpi. Una cosa però è vera: manca ancora un collegamento Gelli-Covid-P2.