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Benjamin Netanyahu, il bene e il male

di Daniele Perra - 31/10/2023

Benjamin Netanyahu, il bene e il male

Fonte: Daniele Perra

Le parole di Benjamin Netanyahu su “asse del bene contro asse del male”, “popolo della luce contro popolo delle tenebre”, non dovrebbero sorprendere più di tanto quelli che si occupano di storia e geopolitica del Levante senza paraocchi ideologici. Queste, infatti, appartengono al retroterra culturale di quello che si pretende “Stato ebraico” ed hanno pure un loro corrispettivo nelle elucubrazioni pseudoteologiche del cosiddetto “sionismo cristiano” (a questo proposito si possono vedere gli articoli “Messianismo e imperialismo” e “Grandi risvegli e figli della luce”, pubblicati entrambi su www.eurasia-rivista.com). Purtroppo, in Occidente (per un misto di motiviazioni ideologiche, geopolitiche e propagandistiche) si tende a sminuire il ruolo del fanatismo messianico che storicamente contraddistingue la società israeliana e che, almeno a partire dal 1967, è stato apertamente sdoganato (mentre prima rimaneva sempre sottotraccia, sebbene già Ben Gurion affermò che l'aggressione all'Egitto del 1956 fosse votata a ristabilire i confini dei Regni di Davide e Salomone). Ad esempio, subito dopo essere arrivato a Gerusalemme Est dopo l'occupazione israeliana (proprio nel 1967), il rabbino capo dell'Esercito sionista Schlomo Goren rilasciò una dichiarazione assai simile a quelle attuali di Netanyahu: “lo spirito di Dio cammina adesso di fronte all'esercito israeliano su una colonna di fuoco per illuminarci la strada verso la vittoria”. Sulla stessa linea d'onda furono le parole di un altro rabbino Zvi Yehuda Kook: “il Regno di Israele viene ricostruito. L'intero esercito israeliano è santo”. Yehuda Kook era figlio di Abraham Kook, migrato in Palestina nel 1904, il quale sosteneva la tesi che il sionismo, per quanto molti dei suoi esponenti fossero laici e socialisti, aveva natura sacra e la sua esistenza fosse segno di imminente redenzione. In altri termini, il sionismo era una “attivazione della storia” e, nello specifico, un'attivazione dell'era messianica: una preparazione all'avvento del Messia. Questo, dunque, significava “forzare la mano di Dio”: un approccio non molto dissimile dal “messianismo blasfemo” dei vari Sabbatai Zevi o Jacob Frank che, in epoca moderna, fecero dell'apostasia (la falsa conversione all'Islam o al Cristianesimo) uno strumento di “teologia del male” (diffondere impurità e caos nel mondo per costringere il divino ad un intervento).
A loro volta i citati “sionisti cristiani” (in molti casi “reborn christians”, o “risvegliati”, prodotto della diffusione di teorie proprie al protestantesimo anglosassone) sostengono l'idea che il ritorno in potenza degli ebrei in Terra Santa acceleri in qualche modo il Secondo Avvento di Gesù Cristo.
Va da sé che la stessa guerra del 1967 venne interpretata in termini messianici (sei giorni come quelli impiegati da Dio per la creazione). Una guerra che, è bene ricordarlo, come affermato da Yithzak Rabin (allora Capo di Stato Maggiore dell'esercito israeliano), fu una mera aggressione ai Paesi vicini. In un'intervista a Le Monde del febbraio 1968, questi dichiarò: “Nasser non voleva la guerra e noi ne eravamo al corrente”. Dello stesso avviso era Menachem Begin (New York Times, 1982), allora ministro del governo di unità nazionale: “le concentrazioni dell'esercito egiziano nel Sinai non implicavano un imminente attacco […] Fummo noi a decidere di attaccarlo”. Proprio Rabin, tra l'altro, fu assassinato da un fanatico religioso. La sua colpa era quella di aver intavolato un processo di pace che avrebbe reso ai Palestinesi una pur ridotta parte dei territori occupati (di “terra ebraica redenta”). Eppure, sempre Rabin dichiarò senza mezzi termini di “spezzare le braccia” ai ragazzi che durante la prima Intifida tiravano pietre ai blindati sionisti. Ciò non gli impedì di venir maledetto da alcuni rabbini che contro di lui pronunciarono la celebre “pulsa di nura” (“frustata di fuoco” in aramaico) che ne invocava la morte. Altri si limitarono a dibattere se Rabin fosse un “moser” (un ebreo che dà ai gentili illegalmente proprietà ebraiche e che, dunque, può essere ucciso dopo un processo) o un “rodef”(un ebreo che facilita l'omicidio di un altro ebreo e che, di conseguenza, può essere ucciso senza processo).
Niente affatto sorpendenti (quanto prive di fondamento) anche le tesi di Netanyahu sul presunto coinvolgimento del Gran Muftì Hajj Amin al-Hussein nella preparazione della “soluzione finale” con la Germania hitleriana. In realtà, l'influenza del Gran Muftì sui vertici nazionalsocialisti tedeschi è stata storicamente esagerata proprio per far ricadere sul popolo palestinese una parte della responsabilità per le politiche antigiudaiche del Terzo Reich. E nonostante i suoi sforzi per mobilitare arabi e musulmani alla causa nazionalsocialista, il Muftì ottenne assai poco in cambio  (fatta eccezione per qualche vaga promessa). Netanyahu, inoltre, non sembra ricordare il “Patto Haavara” con il quale i sionisti, nei primi anni di Hitler al governo della Germania, ottennero l'appoggio di Berlino per far migrare migliaia di ebrei tedeschi in Palestina. La stessa Berlino, così facendo, sperava sia di liberarsi del “problema ebraico” (nonostante personalità come Alfred Rosenberg considerassero il sionismo alla stregua di una “organizzazione a delinquere”), sia di indispettire gli inglesi (stesso errore compiuto in tempi diversi sia da alcuni esponenti del fascismo italiano che da Stalin). Interessante, infine, la figura di Vladimir Jabotinsky, ispiratore del sionismo revisionista di cui il Partito di Netanyahu è in qualche modo erede. Jabotinsky è stato a lungo considerato un “fascista”. Ad onor del vero, la sua mistica dell'“ebreo nuovo” (prono verso la violenza) da opporre all'“ebreo diasporico” si mescolava ad una dottrina apertamente liberale che portò il già citato Begin, una volta arrivato al potere nel 1977, ad implementare politiche economiche di stampo liberista ispirate da Milton Friedman e dalla Scuola di Chicago. Begin, dunque, con Thatcher e Reagan entra di diritto nel pantheon delle odierne destre “occidentali” imbevute di pseudoreligiosità e liberismo economico.