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Come l’Italia si giocò il ruolo di grande potenza

di Francesco Lamendola - 13/02/2019

Come l’Italia si giocò il ruolo di grande potenza

Fonte: Accademia nuova Italia

Il club della grandi potenze, nella prima metà del XX secolo, comprendeva l’Italia, specialmente dopo la scomparsa dell’Austria-Ungheria e la partecipazione italiana alla vittoria dell’Intesa nella Prima guerra mondiale. La decisione del nostro Comando Supremo di rinviare per più di quattro mesi l’offensiva sul Piave, dopo l’insuccesso austriaco nella Battaglia del Solstizio del giugno 1918, ebbe il suo peso nel far apparire come non decisiva la vittoria sul fronte italiano, mentre la verità è che essa fu realmente decisiva. Infatti la Germania si arrese – l’ammissione è del generale Ludendorff – quando, in seguito al crollo dell’Austria, si trovò con il fianco meridionale scoperto e l’esercito italiano in condizioni di proseguire la marcia da Trento e Bolzano, attraverso il Brennero, fino al cuore della Germania stessa. Il ritardo nell’offensiva finale compromise fatalmente la posizione della delegazione italiana a Versailles, indebolendo la forza diplomatica dell’Italia, sicché Orlando e Sonnino vennero trattati come parenti poveri da Clemenceau, Lloyd George e Wilson, liberi ormai di disporre del mondo a loro piacimento. Ad ogni modo, qualche anno dopo l’Italia ottenne la parità negli armamenti navali con la Francia, per cui la Marina italiana entrò nel gruppo delle cinque marine da guerra più potenti del mondo. Alla vigilia della Seconda guerra mondiale, sia la Germania che l’Unione Sovietica si erano rialzate dal tracollo di vent’anni prima ed erano di nuovo potenze di prima grandezza; e benché l’Italia non potesse certo sostenere un confronto sul piano della forza militare o industriale con simili giganti, pure il possesso di una grande marina, unito alla conquista dell’Impero, ne faceva comunque una delle grandi potenze mondiali, sicché il 27 settembre del 1940 l’Italia poté firmare il patto Tripartito con la Germania e il Giappone su un piano di assoluta parità formale con esse. Del resto, nemmeno il Giappone possedeva le materie prime strategiche, e quanto all’industria, era ben lungi dal poter competere con quella statunitense, o russa, o britannica. I capi politici e militari del Giappone avevano però una cosa che faceva difetto ai loro colleghi italiani: una chiara concezione strategica per fare del loro Paese una grande potenza non solo nominale, ma effettiva. La grande marina giapponese era destinata ad essere gettata nella lotta senza riguardi, ma badando unicamente alla meta da raggiungere: il dominio del Pacifico. E quel dominio, a sua volta, aveva una ragione precisa: assicurare alla madrepatria le materie prime strategiche per rendere il Giappone autonomo dal punto di vista industriale, a cominciare dal combustibile. I capi politici e militari dell’Italia, invece – e questa è una precisa responsabilità del fascismo – si cullarono nello status teorico di grande potenza e pretesero di fare una politica da grande potenza, senza avere non solo i mezzi di una vera grande potenza, ma senza averne neppure una chiara concezione strategica. Le trasvolate atlantiche di Italo Balbo, ad esempio, avevano creato l’impressione che l’Italia fosse all’avanguardia nella nuova arma aerea; invece, quando si arrivò al dunque, si vide che era stata curata l’apparenza, ma non la sostanza, che è fatta di continui aggiornamenti tecnologici. I nostri aerei che andarono a bombardare l’Inghilterra apparvero agli alleati tedeschi come veri pezzi da museo; e a subire l’incursione degli aerosiluranti a Taranto fu l’Italia, la cui flotta subì un colpo durissimo, proprio come gli Stati Uniti subirono quella di Pearl Harbor, con la differenza che l’Italia, come il Giappone, aveva scelto di entrare in guerra contro un nemico già impegnato nella lotta, ma, a differenza del Giappone, non aveva saputo sfruttare il fattore sorpresa. Se i capi politici e militari dell’Italia avessero avuto una chiara concezione strategica, avrebbero sferrato subito, nell’estate del 1940, il colpo su Malta, che avrebbe reso la marina italiana padrona del Mediterraneo, proprio come i giapponesi sferrarono subito il colpo su Singapore: la flotta britannica di Gibilterra e quella di Alessandria si tenevano già pronte a evacuare il Mediterraneo. Non lo fecero quando si resero conto che l’Italia aveva dichiarato guerra, ma non aveva nessuna voglia di farla. Se l’Italia avesse preso Malta e Suez nei primi mesi di guerra, l’intero conflitto avrebbe avuto un andamento completante diverso, a noi molto più favorevole.

Ma per essere una grande potenza, bisogna che i capi possiedano una mentalità da grande potenza; cosa che non solo non avveniva, ma la realtà era tutto il contrario: una bella fetta delle classi dirigenti faceva il tifo per il nemico e si augurava la sconfitta dell’Italia. Questo obiettivo accomunava la grande borghesia finanziaria e industriale e la dirigenza dei partiti di sinistra, comunisti e socialisti, più i cattolici; in altre parole, nel 1940 esisteva già la convergenza d’interessi che avrebbe portato alla Repubblica democratica e antifascista del 1946, un brutto compromesso tra forze politiche e sociali diversissime, accomunate solo da una cosa: l’odio e il disprezzo per la propria Patria e il desiderio di mettersi al più presto possibile all’ombra di un protettore straniero: gli Stati Uniti per le classi dirigenti borghesi, l’Unione Sovietica per i dirigenti e i militanti socialisti e comunisti. Fra parentesi, il quadro non è mutato: quel senso di odio e disprezzo per la propria Patria e quel servile desiderio di mettersi al riparo di un potere straniero sono rimasti, sono solo cambiati gli schieramenti: ora a sostenere gli Stati Uniti (e l’Unione Europea) sono i gruppi dirigenti di sinistra, più il vertice della Chiesa cattolica (questa è la grande novità, si fa per dire), mentre a guardare con speranza alla Russia sono i gruppi populisti e sovranisti, considerati come espressioni della destra. Ma su una cosa sono tutti d’accordo: che l’Italia non sa far da sola; non può far da sola; non può, per esempio, uscire dall’UE e neppure dall’euro, perché da sola non conterebbe nulla (come se attualmente contasse qualcosa): mentalità auto-svalutativa che è l’esatto contrario di quel che si richiede a un popolo, anche a un grande popolo, come lo è il popolo italiano, per essere una grande potenza. Il nodo della questione è tutto qui: se la Germania è in procinto di ottenere un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, mentre l’Italia no, la vera ragione è questa, non il fatto che l’economia tedesca va più forte di quella italiana (il che dipende in gran parte dai meccanismi truffaldini dell’euro, voluti dalla BCE appunto per favorire la Germania e penalizzare l’Italia). E se l’India ha potuto trattenere per anni i nostri due marò come non avrebbe osato fare con un altro grande Paese europeo, ad esempio la Francia, non è perché l’Italia ha una minor forza militare della Francia, ma perché l’Italia, anche se avesse una forza militare rispettabile, non avrebbe la propensione ad usarla. Lo si è visto nel caso della marina, quando l’Italia aveva una delle maggiori marine al mondo, appunto nel 1940. Vale la pena di rievocare quella vicenda, perché è la chiave per capire tante cose, anche del presente.

Dicevamo che il pre-requisito essenziale per essere una grande potenza è quello di ragionare da grande potenza. Se un Paese ha una grande marina, ma non sa o non vuole usarla, come è accaduto nel 1940; se preferisce giocare al risparmio e attendere che a vincere la guerra siano i suoi alleati, ciò crea fatalmente le condizioni perché quel Paese venga retrocesso, a guerra finita, al rango di potenza secondaria, perfino indipendentemente dall’esito della guerra. La Germania è uscita distrutta dalla Seconda guerra mondiale, ma è di nuovo il primo Paese d’Europa e sta per avere un seggio permanente all’ONU: questa è la prova che l’essenziale non è vincere o perdere, ma avere una classe dirigente che crede fermissimamente nel destino della propria Patria. Credere nel destino significa saper rischiare anche la cosa più preziosa, e tale era il caso della nostra flotta nel1940. Pur senza il radar e con molti altri difetti (la mancanza di addestramento al combattimento notturno, per esempio) la flotta italiana del 1940 era magnifica, ed era costata molti quattrini. Fu un errore non gettarla decisamente nella lotta; fu un errore non impegnare lo scontro decisivo con la flotta britannica - la Francia era già uscita di scena, e con lei la sua flotta -; ma l’errore peggiore di tutti fu quello di consegnarla, l’8 settembre del 1943, senza averla gettata nella battaglia finale. Battaglia finale che essa, probabilmente, avrebbe perduto: ma il solo fatto di combatterla avrebbe salvato all’Italia il rango di grande potenza, almeno in senso morale; e quando c’è quello, il futuro è ancora aperto a tutte le possibilità. Mentre quando ci si arrende come l’Italia si è arresa, e quando si consegna una flotta come la flotta italiana si è consegnata, si perde ogni diritto a essere stimati dalle altre nazioni e bisogna rassegnarsi al ruolo di nazione secondaria. Le cose stanno così: era la flotta a fare dell’Italia una grande potenza, ma quella flotta bisognava usarla da grande potenza, a costo di perderla (come il Giappone perse la sua a Midway). Persa la flotta, l’Italia ha perso il rango di grande potenza; ma il male più grande è come l’ha persa, cioè consegnandola senza combattere e vanificando, così, il lungo sacrificio di tanti coraggiosi marinai.

Una delle migliori ricostruzioni del clima in cui L’Italia ha consegnato la sua flotta, e con ciò stesso non solo ha perduto il rango di grande potenza, ma si è giocata il suo futuro di nazione rispettata e autorevole nel consesso delle altre nazioni, lo abbiamo trovato nel libro di Enrico Cacciari Due guerre per una sconfitta, (Palermo, Cusimano Editore, 1967, pp. 224-226):

 

La resa della nostra marina ebbe conseguenze politico-militari di indubbio valore per le sorti della guerra; e ciò perché essa rappresentò per gli alleati l’immediato beneficio di diventare, da un’ora all’altra, padroni del Mediterraneo e perché consentì loro di intensificare con l’accresciuta disponibilità di naviglio, la lotta nel Pacifico contro il Giappone. Commentò allora il Primo Lord dell’Ammiragliato che “la capitolazione della flotta italiana significa una svolta decisiva nella guerra marittima. L’equilibrio delle forze marittime si è completamente spostato e noi saremo in grado di concentrare tutte le nostre in Estremo oriente in soccorso della Cina”. Tutto questo non poteva sfuggire alla valutazione degli Stati Maggiori delle nostre navi, composti da uomini scelti per cultura e intelligenza, educati alla scuola severa del dovere e animati dalle leggi dell’onore di una lunga tradizione marinara, che combatterono una tremenda battaglia interiore prima di risolversi a prendere il partito che presero soltanto perché ingannati dagli uomini di Roma.

Questo va detto, questa va ricordato. Gli anglo-americani ottennero la nostra flotta con il bluff che precedette la firma della capitolazione e per l’aiuto di coloro che, della capitolazione artefici, vollero a tutti i costi perfezionare il loro delitto.  E va detto e va ricordato, non fosse altro per trovare in noi la forza per insegnare ai nostri figli la necessità di smentire concretamente quanto Smith [Walter Bedell Smith, capo di Stato Maggiore del comandante in capo alleato, l’americano D. Eisenhover] nell’occasione ebbe a dire: che, cioè, “con la consegna della sua flotta, l’Italia era sparita dalla scena politica e non avrebbe potuto mai più ritornare ad essere una grande potenza”.

E veniamo al racconto delle peripezie che portarono le nostre navi a Malta.

Il 6 settembre, tre giorni dopo la forma dell’armistizio, l’ammiraglio De Courten, che dell’avvenuta capitolazione era edotto, impartiva telegraficamente questi ordini alle nostre squadre navali di Taranto e de La Spezia: predisporsi ad attaccare un grosso convoglio nemico in presunta rotta su Salerno; tentare ad ogni costo di impedire lo sbarco delle fanterie; le navi da battaglia, ove non fosse loro riuscito di prendere contatto con le grosse unità nemiche, dovevano portarsi sulla costa – magari affondandosi – e di là porre fine all’ultimo colpo contro il convoglio.

Con questi ordini – impartiti con la coscienza di non farli eseguire – logico che i nostri equipaggi, la mattina dell’otto settembre, pensassero unicamente allo scontro che, tra poche ore, li avrebbe messi di fronte all’avversario da essi mai temuto. Sempre in quella mattinata, gli ammiragli di squadra erano stati convocati a Roma da De Courten il quale confermò gli ordini, raccomandò di stare all’erta, ma non fece cenno alcuno di quanto era stato combinato a Cassibile.

Gli ammiragli comandanti delle Squadre erano appena rientrati in sede che la radio inglese, americana e italiana – annunciavano la capitolazione. Ma gli anglo-americani, come continuazione del bluff iniziato a Lisbona, cominciarono a barare e furono diffuse, sempre via radio, comunicazioni atte ad ingannare gli stati maggiori delle nostre navi ai quali già da Roma cominciavano a pervenire strani messaggi-ordine.

Tra le notizie che gli alleati si affrettarono a diffondere, a proposito della resa della Marina, nell’evidente preoccupazione di un auto-affondamento della nostra flotta, era quella rassicurante sulla sorte delle nostre unità che garantiva esse non sarebbero state considerate né prigioniere, né bottino di guerra. Un proclama dell’ammiraglio Cunningham, trasmesso quasi in continuazione dalla radio di Algeri e di Malta, esortava i nostri equipaggi ad eseguire gli ordini ricevuti per poter concorrere - diceva lui – ad assicurare l’approvvigionamento dell’Italia affamata. Alle menzogne degli alleati si aggiunse l’inganno di Roma; telegrafò il Supermarina agli ammiragli di portare la squadra a Malta; ma raccomandava e assicurava: “per ordine del re eseguite lealmente le clausole dell’armistizio, siate certi che la bandiera non sarà ammainata e ricordatevi che dalla vostra obbedienza dipendono le sorti della Patria”.

Abbiamo già avuto occasione di parlarne nelle pagine precedenti: negli alti comandi della nostra marina si era purtroppo annidato il tradimento. La struttura del telegramma sopra riferito dà la misura della capacità e del grado di fellonia di questi uomini indegni che ben sapevano come ricattare sentimentalmente l’animo leale dei nostri marinai. Con quell’oscura dizione “ricordatevi che dalla vostra obbedienza  dipendono le sorti della Patria”, essi riuscirono ad insinuare, nella mente e nel cuore dei nostri equipaggi, il dubbio, poiché la salvezza della Patria era per essi preminente sopra ogni altra valutazione.

 

Il tradimento, quindi, ci fu, ma fu più politico che militare; non degli ammiragli in mare - ricordiamo il valoroso ammiraglio Begamini, che si sacrificò con la Roma, ma che certamente non avrebbe accettato di condurre la sua corazzata a Malta, una volta compreso che di una resa si trattava, e di una resa ignominiosa, senza condizioni – ma piuttosto degli ammiragli ben piazzati sulle loro poltrone, a Roma, presso Supermarina. In altre parole, il tradimento era parte integrante della nostra classe dirigente, e non solo della casta navale e militare, ma dei finanzieri, dei grandi industriali e dei diplomatici di carriera: tutti interessati a saltar giù dal carro del perdente e ad assicurarsi un posto su quello del vincitore. L’ammiraglio De Courten, che ingannava deliberatamente comandanti ed equipaggi e li spediva a Malta, ad arrendersi, quando già sapeva che l’Italia, tramite il generale Castellano, aveva firmato l’armistizio di Cassibile, offre un esempio del clima torbido che regnava nelle alte sfere politico-militari di un Paese impegnato strenuamente in una guerra gigantesca, che già aveva avuto centinaia di migliaia di morti e lottava disperatamente per la vita e per la morte, cioè per sopravvivere come nazione indipendente e sovrana.

Enrico Cacciari sostiene che, se comandanti ed equipaggi avessero saputo che la meta dell’ultima crociera era Malta, si sarebbero rifiutati di sottostare a una tale umiliazione: che avrebbero scelto o di affrontare il nemico in un’ultima battaglia, se la resa non era ancora stata firmata, oppure di autoaffondarsi, se la resa era già stata firmata. Certo, è possibile vedere le cose in questo modo. Noi, però, invece di arrischiare ipotesi su quel che avrebbe potuto essere, preferiamo restare sul terreno dei fatti; e osserviamo che, per una marina degna di questo nome, la marina di una grande potenza, non vi è spazio per il “dubbio” adombrato dal menzognero telegramma di Supermarina, nel senso che non è nemmeno pensabile una “salvezza della Patria” che prescinda dall’onore delle sue forze armate. Vi sono cose che una nazione non può sacrificare, se vuol conservare la stima di se stessa e degli altri, e l’onore è la prima fra esse. Supermarina scelse le navi senza onore, e alla fine l’Italia perse sia l’onore che le navi. Le navi, dopotutto, sono pezzi di lamiera muniti di motori e cannoni: non hanno un’anima. L’anima della flotta è la volontà di coloro che la guidano in battaglia: perché le navi sono fatte per essere usate, non per essere risparmiate in vista di giochetti politici e furberie da quattro soldi. L’Italia, al tavolo della pace, fu trattata come meritava; a nulla valse che De Courten, tardivamente, chiedesse che la flotta rimanesse, intatta, all’Italia, in considerazione della sua co-belligeranza: gli alleati se ne infischiarono di promesse e blandizie ormai superate, e se la spartirono. E neppure allora essa ebbe la fierezza di auto-affondarsi.  Il dottor Goebbles, che era un uomo intelligente, in quei giorni scriveva sul suo diario: Gli italiani non vogliono essere una grande potenza. Giudizio esattissimo. Ma una mentalità da grande potenza non s’improvvisa; e un popolo che per secoli, come diceva Mussolini, è stato incudine, non diviene martello da un giorno all’altro. E qui torniamo al presente. Gli italiani sono stati abituati a pensare che l’Italia, da sola, non può farcela, che non conta nulla; che può essere qualcosa, che può avere una ripresa economica, solo restando in un’alleanza, che sia la NATO o l’UE. Perciò, se capita un governo che vuol fare gli interessi dell’Italia, e non della NATO o della UE, subito una parte degli italiani, e la maggior parte della classe dirigente, si mette a fare il tifo contro di lui, e a dar ragione ai poteri stranieri. Si arriva al punto che l’ultrasinistra, tramite il Manifesto, difende il neocolonialismo francese, pur di dar torto a Di Maio sulla questione del franco africano; mentre la solita magistratura di sinistra mette sotto inchiesta il ministro dell’Interno, reo di aver difeso i confini, proibendo lo sbarco all’ennesimo barcone di clandestini. Si spiega così la nostra irrilevanza internazionale. Ed ecco la Francia attaccare la Libia, poi alimentarne il caos, per soffiarci il suo petrolio sotto il  naso...