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Dalla Geografia Sacra alla Geopolitica del virus (I)

di Claudio Mutti e Daniele Perra - 08/08/2020

Dalla Geografia Sacra alla Geopolitica del virus (I)

Fonte: Azione Tradizionale

Professor Mutti, buonasera, lei può essere a tutti gli effetti reputato uno dei massimi esperti in geopolitica, materia a cui ha contribuito e tuttora contribuisce in maniera qualificata con la rivista “Eurasia”. Le chiederei, pertanto, di definire cos’è la geopolitica, soprattutto per i meno addetti ai lavori che ci stanno ascoltando.
Claudio Mutti – “Uno dei massimi esperti in geopolitica”!!! Ma per carità!!! Sono commosso per il cortese complimento, ma lo ritengo eccessivo ed immeritato. Io non sono affatto “uno dei massimi esperti di geopolitica”; sono solo un filologo prestato alla geopolitica. In realtà mi occupo di questa disciplina da due o tre decenni; nel 2004, non volendo lasciare a “Limes” il monopolio delle analisi geopolitiche, ho fondato con altri collaboratori “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”. In seguito ne ho assunto la direzione, portandola da quadrimestrale a trimestrale. Fino a questo momento ne sono usciti 59 numeri e il 60° è in preparazione.
Dunque: che cos’è la geopolitica?
“Geopolitica” è un termine di cui occorre chiarire il significato, perché ne viene fatto continuamente un vero e proprio abuso, attribuendogli contenuti semantici che non ha ed usandolo per lo più come sinonimo di “geografia politica”, di “relazioni internazionali”, “politica estera”, “geostrategia” ecc.
In realtà la geopolitica è un’altra cosa. La geopolitica può essere correttamente definita – ripropongo la definizione del prof. Emidio Diodato – come lo studio dell’insieme delle relazioni internazionali in una prospettiva spaziale e geografica, considerando l’influenza che i fattori geografici esercitano sulla politica estera degli Stati e le rivalità di potere su territori contesi tra due o più Stati, oppure tra diversi gruppi politici o movimenti armati.
Come fondatori della geopolitica vengono generalmente indicati due studiosi: il geografo ed etnologo tedesco Friedrich Ratzel (1844-1904), fondatore della geografia antropica, e il sociologo, politologo e geografo svedese Rudolf Kjellén (1864-1922).
L’inglese Sir Halford John Mackinder (1861-1947) e il tedesco Karl Haushofer (1869-1946) sono i due principali esponenti della teoria geopolitica nota come “continentalista”, secondo la quale confliggono tra loro, per lo più lungo l’asse est-ovest, due centri di potere mondiale: uno continentale ed uno marittimo, talassocratico.
Secondo Mackinder, che enuncia la sua tesi nel 1904, esiste una gigantesca fortezza naturale, inaccessibile alla potenza marittima: si tratta di quell’area, compresa fra l’Asia centrale e l’Oceano Artico, dalla quale si sono irradiate, fino al XVI secolo, le successive invasioni (di Unni, di Mongoli e Tartari, di Turchi) che hanno interessato la Cina, l’India, il Vicino Oriente e l’Europa. Il dominio di quest’area, che Mackinder chiama inizialmente “area perno” (“pivot area”) e poi “territorio cuore”, “territorio centrale” (in inglese “heartland”), garantirebbe il dominio della massa continentale eurasiatica e quindi del mondo. La formula continentalista di Mackinder è questa: “Who controls eastern Europe rules the Heartland; who controls the Heartland rules the World Island; and who rules the World Island rules the World”. Per dominare l’Eurasia bisogna impedirne l’unità continentale; quindi occorre interporre una barriera fra la Germania e la Russia.
Karl Haushofer riprende le vedute di Mackinder circa l’importanza fondamentale dell’Europa centro-orientale, ma ne rovescia le conclusioni politiche, poiché difende l’idea di un’alleanza russo-tedesca, un Kontinentalblock eurasiatico.
Se in passato il conflitto fra Germania e Russia ha favorito le potenze anglosassoni nella conquista dell’egemonia mondiale, un’alleanza russo-tedesca affretterebbe il crollo dell’impero britannico, che Haushofer riteneva comunque condannato, data la sua eccessiva estensione e la mancanza di un suo baricentro e data la vulnerabilità dell’Inghilterra nel caso di attacchi aerei provenienti dal continente.
Solo il crollo dell’impero britannico avrebbe consentito alla Germania di organizzare un nuovo ordine europeo e di patrocinare, d’intesa con la Russia, la nascita un nuovo ordine mondiale.
Alle teorie continentaliste di Mackinder e di Haushofer si contrappongono le teorie del potere marittimo. Qui il nome più celebre è quello del contrammiraglio statunitense Alfred Thayer Mahan (1840-1914), influente consigliere del presidente Theodore Roosevelt e citato da Carl Schmitt come “il più significativo rappresentante intellettuale dell’imperialismo americano”. Sulla linea di Mahan si colloca il teorico della scuola “marginalista”, l’americano Nicholas J. Spykman (1893-1943). Secondo Spykman il centro del potere mondiale non è l’Heartland, bensì il Rimland, il “territorio marginale”, cioè la fascia peninsulare e insulare che circonda la massa continentale eurasiatica, dalla Norvegia al Mediterraneo all’Asia meridionale alle Filippine al Giappone. La difesa degl’interessi statunitensi comporta necessariamente il controllo di quest’area e la sua frammentazione, perché la sua unificazione sarebbe disastrosa per gli Stati Uniti. Perciò alla formula continentalista di Mackinder Spykman contrappone la formula del potere peninsulare: “Who controls the Rimland rules Eurasia; who rules Eurasia controls the destinies of the world”. Per quanto riguarda in particolare l’Europa, Spykman assegna all’Inghilterra il compito di “impedire ogni integrazione del potenziale europeo e soprattutto di impedire che si giunga ad un’effettiva alleanza militare della Russia con la Germania. (…) Quest’ultima [alleanza] deve essere bilanciata dal potere della Francia da una parte e da quello dell’Europa orientale dall’altra, ma a nessuna di queste tre regioni deve essere consentito di ottenere un controllo completo”.

Ma che rapporto può avere la geopolitica con la “geografia sacra”?
Data la relazione della geopolitica con la dottrina dello Stato, mi sono posto da tempo una questione che finora non ha impegnato la riflessione degli studiosi. La questione è la seguente: è possibile applicare anche alla geopolitica la celebre affermazione di Carl Schmitt, secondo cui “tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati”? In altre parole, è possibile ipotizzare che la geopolitica rappresenti la derivazione secolarizzata, “laicizzata”, di idee collegate con concetti teologici connessi a quella che René Guénon ha chiamato la “geografia sacra”?
Gli amici di Raido mi hanno chiesto di scrivere la prefazione ad un libro di Daniele Perra su quella che l’autore, riproponendo l’espressione guénoniana, chiama per l’appunto “geografia sacra”. Ho colto così l’occasione per ipotizzare che il documento più antico della “geografia sacra” (e del simbolismo geografico) vada cercato nei poemi omerici, i quali vengono definiti dallo stesso Perra come “la prima (vera e propria) rivelazione religiosa dell’Europa”. In particolare, ho richiamato l’attenzione sul XVIII canto dell’Iliade, dove si trova la descrizione di un oggetto di fabbricazione divina – lo scudo di Achille fabbricato da Efesto – sul quale sono rappresentati in una sintetica cosmografia quegli aspetti dell’universo che per l’homo religiosus dell’antichità costituiscono altrettante teofanie.

Centro Studi Raido – Definita la geopolitica, è altresì opportuno inquadrare anche l’altra parte del terreno su cui ci muoviamo questa sera. Daniele, anche in virtù e sulla base dello studio che hai condotto per la redazione del capolavoro Dalla Geografia sacra alla geopolitica, cosa dobbiamo intende per geografia sacra, come nasce e si sviluppa? Ha princìpi in comune con la geopolitica?
Daniele Perra – Una prima ed esemplificata descrizione di ciò che si intende per “geografia sacra” può essere quella di “scienza tradizionale nella quale geografia visionaria[1] e geografia fisica (o materiale) si sovrappongono”. In quanto tale, questa peculiare scienza pertiene all’ambito del metafisico, col significato (come afferma Martin Heidegger) di “sovrasensibile che compenetra e domina tutto il sensibile”[2].
L’attualità internazionale rappresenta la più evidente manifestazione del rapporto segreto (e spesso negato) tra la geografia sacra e quella geopolitica che esamina il nesso tra l’azione umana ed il territorio. Le ragioni e l’esattezza di tale affermazione si possono dedurre da un’analisi (che vada oltre certi ben noti stereotipi propagandistici) di un avvenimento recente e di notevole rilievo: l’accordo pluridecennale di cooperazione strategica tra Iran e Cina.
Tale accordo è stato raggiunto intorno alla metà del mese di luglio e, oltre ad aver scatenato nuovi timori riguardo alla formazione di quell’asse islamico-confuciano percepito come minaccia esistenziale per l’“Occidente” a guida nordamericana (o quantomeno per la sua strategia di contenimento dell’ascesa di nuove potenze regionali), ha dato nuovo slancio al progetto di integrazione e cooperazione eurasiatica. In questo contesto, non si vuole insistere sul significato metastorico della ricostruzione di un’arteria di comunicazione e commercio tra le due estremità del vasto spazio che va dalla Cina all’Italia. Questo argomento è stato ampiamente trattato in un numero di “Eurasia” interamente dedicato alla Nuova Via della Seta (Numero 3/2019). Tuttavia, non è superfluo sottolineare come già il grande orientalista italiano Giuseppe Tucci riconobbe come l’intrinseca unità spirituale dello spazio eurasiatico fosse in qualche modo indissolubilmente legata ai rapporti (anche commerciali) tra le diverse civiltà che hanno abitato e abitano il continente. Così, ad esempio, affermava in un suo notevole studio sul Buddismo: “Nell’arte cinese di Wei soffia l’alito dell’arte greca che già aveva ispirato gli artisti indiani del Gandhara”[3].
Naturalmente, non sono mancate le critiche al suddetto accordo; sia in “Occidente” che da parte della “quinta colonna” presente all’interno della Repubblica Islamica. Le critiche, più o meno, sono sempre le stesse e riprendono i più diffusi luoghi comuni della sinofobia: svendita degli interessi strategici iraniani alla Cina; sottomissione al “subdolo” imperialismo cinese e così via.
Non si possono che nutrire seri dubbi sull’ipotesi che la Rivoluzione Islamica, dopo oltre quaranta anni di lotta contro l’imperialismo nordamericano per la propria autodeterminazione e sovranità, ceda apertamente a quella che viene definita come un’altra forma di imperialismo.
Nella Dichiarazione Congiunta, rilasciata nel 2016 al termine della visita di Xi Jinping a Teheran (dichiarazione che ha posto le fondamenta all’attuale accordo), si legge: “art. 1 – Both sides believe that under the current conditions of deepening multilaterization of the international order and globalization of the economy, the bilateral ties between Iran and China have gained strategic importance and the two sides regard each other as important strategic partners and thus designate the expansion of bilateral relations as a priority of their respective foreign policies”; “art. 5 – Both sides strongly support each other regarding issues pertaining to their core interests such as independence, national sovereignty, and territorial integrity. The Iranian side continues its strong commitment to the One-China policy. The Chinese side supports the Iranian side’s ‘Development Plan’ as well as increasing Iran’s role in regional and international affairs.”; “art. 7 – The Iranian side welcomes “the Silk Road Economic Belt and the 21st Century Maritime Silk Road” initiative introduced by China”[4].
Senza entrare nei dettagli della cooperazione strategica tra i due Paesi (che avrà anche un’ampia ramificazione in ambito militare a partire da ottobre), ciò che preme sottolineare è il fatto che tale accordo, lungi dal sottomettere Teheran ai voleri di Pechino, restituisce all’Iran una fondamentale centralità geopolitica non solo a livello regionale ma anche continentale. Io stesso, in un articolo pubblicato sul numero di “Eurasia” dedicato all’Iran (numero 2/2019 dall’emblematico titolo Oltre le Termopili) sostenni proprio che l’unica via percorribile per sfuggire al criminale regime sanzionatorio nordamericano sarebbe stata quella di andare oltre certe pulsioni autarchiche (ed oltre il mero ruolo di polo di attrazione geopolitica regionale) per assumere un ruolo centrale nella costruzione di una “Grande Eurasia”. Solo percorrendo questa via, Teheran avrebbe potuto proseguire (ed in effetti è ciò che sta facendo) nel compito storico assegnatole dalla Rivoluzione Islamica: restituire all’Iran la sua funzione strategica di “centro”.  Infatti, come ha affermato un importante hojjatoleslam, sempre sulle pagine di “Eurasia” e riprendendo un concetto chiave della geopolitica: “Il movimento religioso della Rivoluzione Islamica ha trasformato l’Iran nell’Heartland geostrategico”[5] .
Il concetto di Heartland, elaborato dal geografo britannico Halford Mackinder, come noto, ha dei lontani richiami tradizionali. Questo, infatti, individua nel controllo dell’area perno (lo spazio dell’Asia Centrale identificato come “cuore del mondo”) la chiave per il dominio e l’egemonia globali. Tuttavia, ciò che qui è fondamentale, al di là del modello geopolitico britannico, è l’idea, propria di una civiltà e cultura i cui legami con la Tradizione non sono ancora stati totalmente recisi (come quella iraniana), dell’“essere centro”. Questa sì, è un’idea profondamente connessa con una rappresentazione sacrale dello spazio che si ritrova all’origine stessa della civiltà iranica. Successivamente, magari, si avrà modo di analizzare quei sistemi cartografici medievali iranici che hanno una diretta discendenza dalla geografia sacra. Qui, preme sottolineare che l’altopiano iranico, sin dall’origine della sua civiltà, viene figurato come il “centro del mondo”. Una convinzione talmente diffusa nella cultura iranica che ha trovato notevoli riscontri nella poesia persiana sia mazdea-zoroastriana che in quella di epoca islamica. Recita il Sad-Dar (o Libro delle Cento Porte): “Il paese dell’Iran è più prezioso di ogni altro perché si trova al centro del mondo”. Lo stesso concetto è ripetuto nel testo medievale Haft Peikar (Le sette principesse) di Nizami Ganjavi in cui si afferma: “Il mondo è il corpo e l’Iran ne è il cuore”.
La convinzione (anche sacrale e spirituale) di “essere centro” è un prerequisito fondamentale dell’essere “polo” geopolitico: ovvero, della possibilità di poter esprimere la propria capacità di proiezione geopolitica lungo le direttrici dell’ampiezza e dell’esaltazione (per riprendere una terminologia legata anche all’esperienza profetica nell’Islam).
Tale convinzione è propria anche della cultura cinese tradizionale. In Cina, infatti, i punti cardinali sono cinque, non quattro: Nord, Sud, Ovest, Est e Centro. Il “centro”, in questo caso, è la Cina stessa, l’“Impero di Mezzo”. La capitale dell’Impero, ad esempio, era costruita in un luogo che, per la convergenza dei diversi climi e dei fiumi, doveva rivelarsi il più vicino possibile al centro del mondo. Anche lo Yin e lo Yang, principi fondamentali della cultura tradizionale cinese, nascondono dei connotati geografico-sacrali dai quali la Cina odierna ha mediato lo sviluppo del suo pensiero geopolitico. Questi, infatti, rappresentavano in qualche modo due campi disposti da una parte e dall’altra di un asse sacro attorno al quale si cristallizza la vita. L’Oriente è lo Yang (principio maschile), spazio del Sole (il Capo) sorgente e vittorioso; l’Occidente è lo Yin (principio femminile) e spazio dell’autunno, della decadenza, della “guerra”.
L’idea di centralità era propria anche della cultura europea originaria: quella greca. Il luogo dell’abitare del greco antico era ancora una volta il centro del mondo; né Occidente, né Oriente. Ad Ulisse che non riconosce immediatamente la sua Itaca avvolta dalla nebbia, Atena, travestita da giovane pastore, confida: “Moltissimi la conoscono, quanti abitano verso l’aurora e il sole, e quanti abitano dall’altra parte, verso la tenebra scura” (Odissea, Canto XIII, 239-241). Il talamo nuziale dell’eroe, ricavato da un albero d’ulivo, lungi dall’essere espressione dell’uomo tecnico, o faustiano (come hanno voluto interpretarlo in certe scuole di pensiero moderniste)[6], è immagine dell’Axis Mundi: un punto di collegamento tra cielo e terra. E lo stesso vagare di Ulisse per il mare (simbolo della materia) è la rappresentazione di un percorso sotto certi aspetti “iniziatico”: ovvero, dell’uomo “devoto agli dei” che ricerca quella “Patria” che è “origine”, centro del mondo e sempre prossima al sacro. Il Frammento 119 di Eraclito, in questo senso, è emblematico: “ἦθος ἀνθρώπῳ δαίμων”. Ovvero (secondo l’interpretazione di Martin Heidegger): “l’uomo in quanto uomo abita nella vicinanza del divino”. E sempre Heidegger, Nel suo studio su Hölderlin, immagina il percorso di ritorno verso l’origine come un viaggio ed una lotta attraverso il mare in tempesta: “l’andare alla fonte è, in quanto navigazione, un conflitto”[7].
L’identificazione dell’Occidente con lo spazio della “decadenza”, della tenebra o, addirittura del “demonico”, è un aspetto che accomuna tutte le civiltà tradizionali che hanno abitato (e in alcuni casi ancora abitano ancora) lo spazio eurasiatico.
Un richiamo a questa peculiare connotazione ci riporta ancora una volta all’attualità. È ben noto che i Cinesi misurano alla perfezione ogni singola parola in quanto questa implica sempre un’azione seguente. Così, ad esempio, quando il presidente cinese utilizza il termine “demone” per definire la crisi epidemica, indica qualcosa che arriva da “Occidente”: qualcosa di “straniero” che mette in pericolo la società e qualcosa che necessita una “guerra di popolo” per essere sconfitto e ridotto in condizioni di non poter nuocere. Di fatto, nella geografia sacra della Cina, ad Occidente si trova lo spazio del grande Kunlun (la montagna sacra già protagonista di una lirica di Mao Tse Tung) in cui abita Si Wang-Mou: la regina dell’Ovest che dalla sua caverna, scarmigliata come una strega, diffonde la peste sul mondo[8].
Centro Studi Raido – Professor Mutti, proprio in tema di geografia sacra e di geopolitica, negli ultimi mesi abbiamo visto come questa pandemia di Covid-19 abbia inciso molto nei rapporti tra gli Stati, sia in senso collaborativo, sia in senso conflittuale. Ancora una volta, vengono evocati episodi appartenenti alle nostre radici e alla nostra tradizione, di cui, nello specifico, un episodio dell’Iliade: Apollo, sdegnato dell’oltraggio che gli Achei hanno compiuto nei confronti del suo sacerdote, Crise, rapendone la figlia, Criseide, quale bottino di guerra, causa una pestilenza nel loro campo. Il concetto trasmesso è chiaro, al di là di dualismi limitati e limitanti: le epidemie quale ‘punizione divina’ all’arroganza dell’uomo, ma anche come occasione di riscatto per gli uomini stessi. Su tale base, è possibile delineare una “metafisica” e poi una “geopolitica” del virus?
Claudio Mutti – Se mi si permette una banalissima boutade, direi che se la Divinità avesse voluto punire l’arroganza dell’attuale umanità, avrebbe scatenato qualcosa di molto, molto più serio di un miserabile coronavirus…
Se invece vogliamo abbordare l’argomento della “metafisica del virus” sulla base delle indicazioni fornite dalla nostra antichità, occorre notare in primo luogo un eloquente fatto linguistico. Mentre in italiano col termine epidemia indichiamo la rapida diffusione di una malattia contagiosa, l’originaria parola greca ἐπιδημία può significare anche la presenza o l’apparizione di una divinità in un determinato luogo. È in questa accezione che Origene, ad esempio, usa il termine ἐπιδημία nel suo commento al Vangelo di Giovanni (6.57.293). D’altronde anche il termine pandemia è collegato ad un aggettivo, πάνδημος, che nel Simposio di Platone (Symp. 181a) e nel Simposio di Senofonte (Symp. 8,9) si trova attestato come epiteto di Afrodite.
L’epica e la tragedia greche hanno rappresentato diversi episodi di contagio epidemico. Si dirà che si tratta di “miti”; ma qui ci devono interessare proprio perché sono eventi mitici, quindi, in quanto tali, pregni di un significato “teologico”. È stata opportunamente citata l’Iliade, dove l’aedo descrive – nel primo canto del poema – la pestilenza seminata da Apollo nel campo degli Achei per punire la hybris di Agamennone, che ha oltraggiato il sacerdote del dio. Aggiungerò che nell’Edipo Re di Sofocle viene rievocata la peste di Tebe. Qui il contagio pestilenziale è visto come la manifestazione di una “divinità ignifera” (πυρφόρος θεός), una divinità richiamata dall’impurità (dal μίασμα) di un sovrano inconsapevolmente parricida e incestuoso, Edipo. Un altro evento analogo è registrato nella Biblioteca dello Pseudoapollodoro: la peste infuria nella primordiale Atene di Egeo e di Teseo dopo che Minosse ha pregato Zeus di vendicare la morte di suo figlio Andrògeo.
Nel primo di questi eventi epidemici, quello cantato da Omero, possiamo anche individuare alcuni elementi che attengono alla “geografia sacra”, nella fattispecie ad una geografia del culto apollineo sulla costa d’Asia. Crise, il sacerdote oltraggiato da Agamennone, nell’epíklesis della sua preghiera invoca Apollo mediante due epiteti. Il primo è Ἀργυρότοξος, “dio dall’arco d’argento”, epiteto di cui è evidente la relazione con la richiesta esplicitamente formulata al termine della preghiera: “Che i Danai paghino le mie lacrime con le tue frecce”, ossia con le frecce di Apollo seminatrici di peste. Il secondo epiteto apollineo è Σμινθεύς, usato dal sacerdote in maniera altrettanto intenzionale. Σμινθεύς deriva da σμίνθος, “topo”, perché Apollo proteggeva i prodotti agricoli dai topi; funzione, questa, per la quale il dio era celebrato in diverse isole litoranee dell’Asia Minore. Ma il topo è animale simbolo della peste; e se Apollo Σμινθεύς svolge un ruolo apotropaico nei confronti dei morbi epidemici, egli può anche provocarli e diffonderli. D’altronde altri epiteti di Apollo sono Ἀλεξίκακος (“che allontana i mali”) e, ancora più esplicito, Λοίμιος (“pestilenziale”).
Dov’è qui l’elemento di geografia sacra? Si trova anch’esso nell’epíklesis della preghiera di Crise, dove vengono enumerati i luoghi della Troade sui quali Apollo esercita una particolare protezione: la città di Crisa, luogo di provenienza del sacerdote, la città di Cilla e l’isoletta antistante di Tenedo. Ma questa geografia apollinea arriva a comprendere anche Rodi, che nel suo antico calendario aveva un mese chiamato Σμίνθιος, perché era consacrato ad Apollo Σμινθεύς.
Nell’antica religione romana, una funzione analoga a quella di Apollo Σμινθεύς è svolta da Marte, il dio combattente, che nel Carmen Arvale (risalente al IV o al V secolo a.C.) viene esortato a tener lontana la pestilenza. “Neve lue(m) rue(m), Marmar, sins incurrere in pleoris”, dice il testo, in un latino che risultava difficilmente comprensibile ai Romani dei secoli posteriori, ma che dovrebbe significare, più o meno: “No, pestilenza e rovina, o Marte, non permettere che aggrediscano il popolo”. Consentitemi di citare il verso successivo di questa arcaica preghiera romana: “Satur fu fere Mars, limen sali, sta ber ber”. Il significato, all’incirca, è questo: “Sii sazio (sottinteso: per le nostre offerte), o feroce Marte; balza sul limitare [del campo] e resta fermo lì!” Limen, liminis infatti è il limitare, la soglia. Ma limen ha un evidente rapporto di parentela con limes, un termine che è stato acquisito dal lessico geopolitico.
In origine il termine limes indicava una linea divisoria tracciata fra le porzioni di terreno assegnate ai coloni; in seguito “il suo valore si allargò a indicare più precisamente una strada militare, fortificata, anzi l’insieme stesso delle fortificazioni distese ai confini dell’impero (limes imperii), là dove questi non erano segnati dal mare o da un fiume, cioè da una ripa”[9]. La dimensione sacrale della nozione di limes diventa evidente allorché si considera che supremo tutore dei limes era un dio, Terminus, quello che secondo Ovidio (Fasti, II, 659) segna i confini di popoli e città e grandi regni: “Tu populos urbesque et regna ingentia finis”.
Attraverso la comparazione dei materiali indoiranici, Georges Dumézil ha mostrato che il nome Terminus, prima di essere applicato ad una divinità autonoma e particolare, corrispondeva ad una caratteristica qualità del dio sovrano adorato dai popoli indoeuropei: quella di supremo tutore dei limiti territoriali.
Insomma, la funzione di Terminus era analoga a quella che il rito dei Fratres Arvales riconosceva a Marte in quanto protettore delle messi e dell’abitato agricolo, esortandolo a prender posto sulla “soglia” (limen) dell’ager Romanus per proteggerlo dalle pestilenze e da altre calamità.
A questo punto possiamo chiederci: se nella visione del mondo delle civiltà tradizionali è possibile intravedere un rapporto fra le pestilenze e la geografia sacra, in che senso è possibile parlare oggi di “geopolitica del virus”?
Nel 1942 apparve sulla rivista “Das Reich” un articolo di Carl Schmitt intitolato Beschleuniger wider Willen (Acceleratori involontari). L’articolo fu tradotto due mesi dopo per la rivista “Lo Stato” diretta da Carlo Costamagna, verosimilmente da Julius Evola che lo intitolò La lotta per i grandi spazi e l’illusione americana. Secondo Schmitt, che in quell’articolo citava per la prima volta il concetto paolino di katéchon, entrato successivamente anch’esso nel lessico geopolitico, “gli storici e i filosofi della storia dovrebbero prima o poi indagare e descrivere le diverse figure di ‘forze frenanti’ (Aufhalter) e i diversi tipi di ‘rallentatori’ (Verzögener) della storia universale”. Quanto invece alle forze definibili mediante il termine “acceleratori” (Beschleuniger), esse sono rappresentate da coloro i quali, dice Schmitt, “senza alcuna particolare autoconsapevolezza, avanzano con la loro nave nel vortice della storia”. Non si tratta, conclude il giurista, né di grandi propulsori né di grandi rallentatori, “ma possono finire solo come acceleratori ‘involontari’ (Beschleuniger wider Willen)”.
Schmitt pensava all’azione svolta dagli uomini politici; tuttavia io credo che si possa concordare sul fatto che un ruolo di rallentatore o di acceleratore può essere svolto anche da un evento impersonale, privo in quanto tale di “particolare autoconsapevolezza”, quale un’epidemia.
Per esempio, la peste scoppiata ad Atene nell’estate del 430 ebbe un momentaneo effetto di “rallentatore” (Verzögener) sulla guerra del Peloponneso, perché l’esercito ateniese inviato a Potidea fu costretto a ritirarsi, dal momento che 1500 soldati su 4000 furono falcidiati dal morbo. Inoltre il trauma causato dall’epidemia mise a rischio il rapporto fra il demos e il suo capo (“mettevano Pericle in stato d’accusa per averli persuasi a fare la guerra”, dice Tucidide) e indusse gli Ateniesi a compiere un tentativo, che però risultò vano, di porre termine al conflitto. Fu solo l’impegno di Pericle a dissuadere gli Ateniesi dal fare marcia indietro e a convincerli a proseguire la guerra.
Si parva licet componere magnis, il Coronavirus è stato invece un “acceleratore involontario”. Assegnando all’ultimo numero di “Eurasia” il titolo Il virus acceleratore, si è voluto significare che la cosiddetta “crisi sanitaria” ha esercitato un molteplice effetto geopolitico, accelerando molti processi che erano già in corso da tempo: processi politici, sociali, economici, giuridici. Daniele Perra può testimoniare che non avevo preventivamente concordato coi collaboratori di “Eurasia” la scelta del titolo Il virus acceleratore; anzi, non la comunicai a nessuno di loro prima di avere raccolto tutti gli articoli che essi mi inviavano. Perciò rimanevo stupito dalla nostra convergenza di vedute ogniqualvolta mi perveniva un loro contributo, dal momento che quasi sempre vi trovavo espresso il concetto della accelerazione provocata dalla crisi sanitaria.
Così, occupandosi degli effetti prodotti dall’evento epidemico sulle relazioni internazionali, questo numero di “Eurasia” ha messo in particolare rilievo il fatto che la già esistente tensione fra Stati Uniti e Cina ha subito un’accelerazione notevole, tanto che molti osservatori sono stati indotti a preannunciare l’inizio di una nuova “guerra fredda”, analoga a quella che a suo tempo contrappose gli USA all’URSS. Pensiamo soltanto alle dichiarazioni rilasciate in maggio da Trump sul “virus cinese” (“the Chinese virus”) e sulla “peste cinese” (“the plague from China”); esse hanno preannunciato un ulteriore passo di Washington, che, ripescando dal lessico della vecchia guerra fredda la stantia definizione di “mondo libero” – ha lanciato un accorato appello per costituire un’alleanza internazionale anticinese. “Il mondo libero deve trionfare su questa nuova tirannia – ha detto Pompeo ai giornalisti inglesi alcuni giorni fa – Speriamo di poter costruire una coalizione che comprenda la minaccia e agisca collettivamente (…) Vogliamo che ogni nazione capisca la libertà e la democrazia”, ovviamente; eccetera eccetera. Insomma, è stato accelerato quel processo che, facendo della Cina un avversario geopolitico degli USA in Africa, in Asia ed in Europa, porterà verosimilmente ed auspicabilmente al definitivo tramonto dell’unipolarismo statunitense.
Daniele Perra, in particolare, nel suo articolo La dicotomia Occidente-Oriente alla luce della crisi pandemica, sostiene che la “rottura” epidemica potrebbe rappresentare un’opportunità per la Cina, in quanto, scrive, “l’ampliamento della Nuova Via della Seta potrebbe accelerare il rafforzamento della cintura di sicurezza eurasiatica attorno all’Heartland geopolitico dell’Asia Centrale, ossia nello spazio in cui l’attività di destabilizzazione nordamericana ha costituito la principale minaccia al processo di cooperazione continentale negli ultimi decenni”. Quanto agli Stati Uniti, essi potranno “prolungare la fase di inerzia prima dell’inevitabile disgregazione”, poiché, scrive ancora Perra, “la diffusione del virus nei Paesi dell’Europa meridionale (Italia e Spagna) e le inevitabili tensioni tra questi e le istituzioni UE consentono di accelerare il processo di divisione dell’Europa partendo dalle aree periferiche”.