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Emilio Salgàri in uno scontro western di civiltà

di Andrea Pozzoli - 15/04/2020

Emilio Salgàri in uno scontro western di civiltà

Fonte: Andrea Pozzoli

Sullo sfondo di un’America appena uscita dalla Guerra di Secessione e dalla vergogna della schiavitù, avversata dall’arsura agostana, una sparuta carovana di uomini senza nulla da perdere solca le sterminate praterie occidentali nord-americane avversate dalle scorribande pellerossa, inseguendo il sogno di far fortuna e prestando fede ad una soffiata su un luogo ancora sconosciuto dove forse potranno estrarre l’oro... le prime pagine delle Avventure fra le pelli-rosse di Emilio Salgari (1900) – ad oggi leggibile su Wikisource in attesa di una nuova edizione –  introducono in modo forse prevedibile, in quanto – inutile negarlo – stereotipato, al mondo del Far West. L’aspettativa nei confronti della trama che deve ancora dipanarsi potrebbe, dunque, già definirsi e perdere inesorabilmente di attrattiva: qualcuno già immaginerà, infatti, che da un momento all’altro la minaccia indiana, bidimensionale nel suo essere riproposta sempre uguale a se stessa, calerà assetata di sangue sui poveri malcapitati. Tuttavia, val la pena scavare preventivamente un po’ a fondo rispetto alla genesi di questo romanzo davvero poco conosciuto, per rendersi immediatamente conto di implicazioni non banali che certamente concernono ma vanno anche al di là della mera trama.

 Avventure fra le pelli-rosse è una riduzione di un ben più ampio antecedente americano, Nick of the woods or The Jibbenainosay: a Tale of Kentucky, pubblicato da Robert Montgomery Bird nel 1837, citato nel 1883 in Vita sul Mississippi di Mark Twain e meritevole di essere ricordato perché uno dei primi romanzi del genere western, di cui contribuì a fissare stile e caratteri. L’effetto riduzione si percepisce immediatamente nella lettura della versione salgariana, così rapida e incalzante, quasi sintetica, sfrondata com’è da tutto ciò che può appesantire e rallentare il ritmo narrativo. Unica eccezione a questa operazione è rappresentata da due capitoli centrali che nell’originale non sono contemplati: il XII e il XIII costituiscono, infatti, una compiaciuta auto-concessione di Salgari, il quale non poté trattenersi dall’aggiungere una sortita nella vastità immensa delle praterie del nord America per dare più respiro ad un’epica fuga dalle pelli-rosse. Ben altro, tuttavia, potrebbe far storcere il naso all’appassionato lettore salgariano. L’opera del Montgomery Bird divenne nota ai tempi per aver descritto la figura del pellerossa con i peculiari caratteri dispregiativi del selvaggio, la cui inciviltà si manifesterebbe nei tratti dell’ignoranza, della propensione alla violenza, della bassezza morale, in modi rasenti la bestialità e in un linguaggio rozzo e primitivo che ne vale come ulteriore prova di inferiorità antropologica. Lo scrittore americano si collocò, dunque, ben distante da una particolare concezione che in quei decenni si era diffusa in tutto il mondo occidentale a motivo dell’autorità intellettuale rappresentata da Jean-Jacques Rousseau, il quale – nel Dicours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes (Discorso sull’origine e sui fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini) del 1755 – mise in dubbio che la disuguaglianza fosse “autorizzata dalla ragione”[1]: un presupposto tutto da dimostrare che lo contrappose alle conclusioni di Thomas Hobbes, che nel suo Leviathan del 1651 aveva codificato lo stato di natura nel principio del Bellum omnium contra omnes, la guerra di tutti contro tutti. Ebbene, per descrivere l’uomo selvaggio, ovvero l’uomo nel suo stato di natura, il filosofo francese assume come “principi anteriori alla ragione”[2] l’istinto di conservazione e “una ripugnanza naturale a veder perire o soffrire qualunque essere sensibile, e soprattutto i nostri simili”[3]. Oltre che a porre le basi per la ridefinizione del cosiddetto “diritto naturale”, tali principi pre-razionali lo portano a negare la concezione intellettualistica per cui “i selvaggi siano cattivi solo perché non sanno che cosa voglia dire essere buoni”[4], nonché a sostenere a buon diritto che per una loro naturale predisposizione alla virtù

 [...] ciò che impedisce loro di fare il male non sono né lo sviluppo dell’intelligenza né il freno della legge, ma la calma delle passioni e l’ignoranza del vizio: Tanto plus in illis proficit vitiorum ignoratio quam in his cognitio virtutis[5].

 Dal canto suo, nel rappresentare l’uomo selvaggio in modo disprezzabile agli occhi dei lettori civilizzati, lo scrittore di Nick of the woods intendeva rispondere al ben diverso paradigma da cui erano scaturite, invece, le opere del contemporaneo e conterraneo James Fenimore Cooper, autore delle cinque Leatherstocking Tales, i Racconti di Calza-di-cuoio, pubblicati tra il 1826 e il 1841 e di cui The last of the Mohicans, L’ultimo dei Mohicani, lo ha reso celebre anche in Italia, soprattutto a seguito dell’omonima versione cinematografica. In effetti, il Cooper stava proponendo ai propri lettori figure di pellerossa di grande spessore, in cui l’uomo bianco potesse riconoscere virtù eroiche ed umane di cui difficilmente si potesse sminuire la levatura e la cui origine – in aderenza alle teorie rousseauiane – era da ravvisare nel loro rapporto armonico con la natura, dalla quale non si erano mai distaccati, conservando la propria dignità di esseri umani e preservandosi dai vizi dell’uomo civilizzato. Quante volte, infatti, i nativi americani dei suoi romanzi hanno modo di dimostrare un livello di civiltà superiore all’uomo bianco di allora e di oggi? Quando Occhio-di-Falco, Grande Serpente e Cervo Agile sono sulle tracce dell’irochese Volpe Astuta, rimaniamo stupiti di come i giovani pellerossa, a differenza di quelli bianchi, osservino un rispetto reverenziale per gli anziani, lasciando che parlino con l’autorità che solo l’esperienza degli anni può conferire e attendendo in silenzio e pazientemente di vedersi dare la parola, che potrebbe non essere loro concessa, pur avendo qualcosa da dire.

 “È  straordinario che abbia tenuto per sé l’informazione così a lungo” borbottò al suo fianco Duncan. “Sarebbe stato ben più straordinario se avesse parlato senza autorizzazione. No, no; i giovani bianchi, che prendono la loro sapienza dai libri, e valutano la loro sapienza dalle pagine che hanno letto, possono credere che la loro scienza sia, come le loro gambe, migliore di quella del padre; ma dove l’esperienza è tutto ciò che conta, il sapiente impara a conoscere il valore degli anni, e li rispetta come meritano!”[6]

 Inoltre, negli ultimi capitoli, quando Delaware e Uroni si riuniscono nelle proprie rispettive capanne delle assemblee, si comprende quanto sia importante per un nativo americano stare in silenzio prima di parlare, soprattutto in pubblico, perché ciò che verrà detto avrà un peso e, quindi, delle conseguenze. Così, prima di discutere di qualsiasi problema che minacci la serenità delle loro tribù, un profondo silenzio cala sugli uomini rossi raccolti a parlamento e, solo dopo che il fumo dei calumet si è fatto denso sulle loro teste, il più anziano sente di poter rompere quell’assorta e doverosa riflessione e avviare il dialogo:

 Spettava unicamente ai più vecchi e ai più esperti tra gli uomini, sottoporre alla tribù l’argomento della riunione. Fin tanto che un uomo di tale rango non avesse scelto di farlo, nessuna impresa d’armi, nessun dono naturale, nessuna rinomanza di oratore, avrebbero giustificato anche la più lieve interruzione. Nell’attuale occasione, il guerriero anziano che aveva il privilegio di parlare restava in silenzio, apparentemente oppresso dall’importanza dell’argomento. Il silenzio che precede sempre le deliberazioni di un’assemblea era durato molto più a lungo del solito; ma nessun segno d’impazienza o di stupore era sfuggito ai presenti, nemmeno al più piccolo dei ragazzi[7].

 Anche lo sguardo che i nativi americani di Cooper rivolgono alla natura rivela una profondità spirituale che l’uomo bianco, con tutte le sue razionalistiche sovrastrutture filosofiche, difficilmente ormai è in grado di eguagliare: per i pellerossa, infatti, è chiaro come lo era al santo di Assisi che ogni elemento naturale sia sacro poiché, essendo segno evidente dell’opera creatrice del Grande Spirito, il Grande Manitù, va rispettato, preservato e non depredato come fanno gli europei.

 “Libro! Cosa può avere a che fare uno come me, che sono un guerriero della foresta, anche se puro sangue, con i libri? Non ne ho mai letto che uno solo [...]”. “Come si chiama quel libro?” domandò David, che aveva capito male ciò che intendeva l’altro. “È aperto davanti ai vostri occhi [...] e chi lo possiede non è avaro del suo uso. Ho sentito dire che vi sono uomini che leggono i libri per convincersi che Dio esiste. Io non so se c’è qualcuno nelle colonie capace di disonorare le opere di Dio, fino a ridurre a materia di dubbio fra mercanti e preti quel che è così chiaro nella foresta”[8].

 Se ciò non bastasse, la trama stessa de L’ultimo dei Mohicani converge tragicamente nel momento in cui, pur avendo subito indicibili privazioni a causa degli uomini pallidi, un’intera tribù è disposta a dissotterrare l’ascia di guerra per liberare una ragazza bianca, Cora, tenuta in ostaggio in un villaggio confinante e della cui morte Uncas, l’ultimo dei Mohicani, sarà disposto a ottenere vendetta a costo della propria vita. Per giunta, le esequie che a Cora rivolgerà il padre Munro, un colonnello scozzese di fede cristiana, riveleranno da parte sua nei confronti del popolo rosso un ecumenismo per lui inedito fino a quel momento:

 “Dite a queste donne, gentili e buone, che un uomo vecchio e dal cuore spezzato le ringrazia. Dite loro che l’Essere, che tutti noi adoriamo, sotto nomi diversi, terrà conto della loro carità; e che non è lontano il tempo che ci vedrà tutti riuniti intorno al suo trono, senza distinzioni di sesso, di rango, di colore”[9].

 Se il ritratto delle pelli-rosse proposto da James Fenimore Cooper era così sfacciatamente benevolo, addirittura super partes, tanto che a più riprese i suoi personaggi affermano rousseaianamente che sia contro la ragione fare distinzioni di razza, non ci si poteva che aspettare che Robert Montgomery Bird – di tutt’altro avviso – rispondesse in modo tenace con una rappresentazione divergente. Ma Emilio Salgari, colui che aveva dato vita alle vicende di Sandokan e dei suoi tigrotti, di Tremal Naik e di Kammamuri, di Darma e Surama, come poté dedicarsi ad un’opera così ideologicamente viziata dagli abominevoli pregiudizi dell’uomo bianco? Gli fu forse imposto o almeno richiesto dalla casa editrice Paravia? O fu egli mosso da un interesse innocente nei confronti di un romanzo che, tutto sommato, aveva avuto il merito di contribuire all’avvio e al successo del genere western e di cui poteva dunque servirsi, ai fini dell’arte, come chiave d’accesso ad un mondo tanto remoto per noi italiani?

Tale ipotesi è non solo quella più auspicabile, ma è anche la più probabile, giacché, procedendo con la lettura del romanzo, si mette in luce un aspetto che, a questo punto, non è per nulla marginale: l’odioso pregiudizio colonialista di Robert Montgomery Bird non trova alcuna sponda in Salgari, la cui culturale lontananza dall’autore americano gli rende del tutto eteroclite tali bassezze. Di ciò, tuttavia, certo non si stupisce il lettore salgariano, il quale ha più volte saggiato quanto la varietà antropologica sia sprone all’indagine seriamente incuriosita e sapido nutrimento di imperdibili descrizioni.

 Per avere un riscontro della tesi appena formulata, basta procedere ad una lettura comparata dell’opera americana del 1837 e della sua riduzione italiana del 1900. Le prime pagine di Nick of the Woods presentano al lettore una geografia del West in cui ci si riferisce al nativo americano con espressioni quali “lurking foe"[10] (nemico in agguato), “enemy at once brave and cruel, resolute and wily” (nemico ad un tempo coraggioso e crudele, risoluto e subdolo), “evils” (demoni), “noisy barbarians” (barbari chiassosi), “wandering barbarian” (barbaro vagabondo), “red niggurs” (negri rossi) e “Injuns” (storpiatura dispregiativa di Indians). Non stupisce, dunque, che le carovane degli uomini bianchi partiti alla volta dell’ovest siano “well armed” (bene armati) tanto da avere la “appearance of an army” (l’aspetto di un esercito), perché il loro obiettivo presuntuoso e orgogliosamente dichiarato è quello di conquistare e possedere le terre ora in mano ai selvaggi (“The rich fields [...] to be possessed, were first to be won”). È chiaro come una descrizione dei nativi americani tanto negativamente connotata nel lessico fosse funzionale nella retorica di Montgomery Bird a giustificare la violenza a cui i bianchi si stavano preparando: affinché gli indiani potessero meritarsi la foga sanguinaria del conquistatore venuto dall’est, era necessario che apparissero come demoni spaventosi costantemente in agguato per uccidere, razziare e scotennare senza ragione. È così che lo scrittore americano postula i principi fondativi di una precisa visione del mondo e della storia. Del resto, nella prefazione l’autore fuga ogni possibile dubbio circa la sua concezione del selvaggio nordamericano: se, da una parte, si scusa per la crudezza delle illustrazioni che ritraggono i pellerossa intenti in atti di violenza, dall’altra, sottolinea come esse contribuiscano a negare la possibilità che le loro gesta sanguinarie possano essere considerate eroiche.

 We owe, perhaps, some apology for the hues we have thrown around the Indian portraits in our pictures – hues darker than are usually employed by the painters of such figures. But we confess, the North American savage has never appeared to us the gallant and heroic personage he seems to others. The single fact that he wages war – systematic war – upon beings incapable of resistance or defence – upon women and children, whom all other races in the world, no matter how barbarous, consent to spare, has hitherto been, and we suppose to the end of our days will remain, a stumbling-block to our imagination; we look into the woods for the mighty warrior, the “feather-cintured chief”, rushing to meet his foe, and behold him retiring laden with the scalps of miserable squaws and their babes. Heroical? Hoc verbum quid valeat, non vident[11].

 L’incipit salgariano, invece, imbocca subito una via diversa, in quanto colloca la storia in un’epoca posteriore di più di settant’anni, successiva alla Guerra di secessione e all’abolizione della schiavitù, così che l’autore possa riferirsi all’uomo di colore, che accompagna i due fratelli protagonisti, commentando “che, probabilmente, aveva subito gli orrori della schiavitù”[12]: una frase semplice e apparentemente innocua, ma foriera di un giudizio storico molto chiaro. Quanto diverso risulta, invece, il tono con cui il Bird si riferisce al servo di colore, per il quale “whatever distaste he might have for the adventure, this was an order, like all others, to be obeyed without murmuring”[13] (“qualsivoglia disappunto egli provasse per i rischi che era chiamato a correre, quello era un ordine come tutti gli altri, a cui era tenuto ad obbedire senza fiatare”). In linea con la differente prospettiva adottata dall’autore italiano, la minaccia pellerossa è rappresentata a tinte ben più attenuate rispetto all’antecedente americano; infatti, “le orde dei comanci e degli apachi” sono semplicemente “numerosissime”[14], le “scorrerie degl’Indiani” sono solo “frequenti” e Salgari non si spende oltre in una aggettivazione che li possa rendere prematuramente invisi al lettore. Certamente, la minaccia non viene meno e quindi “non bisogna fidarsi di loro” perché, come ammonisce il capitano del forte presso cui i protagonisti cercano ospitalità, “da un momento all’altro possono mettersi in campagna e scorrazzare le praterie per fare raccolta di capigliature”. Nonostante questo, Salgari riesce implicitamente a trasmettere al lettore la percezione di un paradosso, cioè che, venuta meno la demoniaca e sanguinosa ferocia dei nativi, la prerogativa della violenza ingiustificata debba ricadere inevitabilmente nelle mani dell’uomo bianco, che si crede dalla parte della ragione: il capitano del fortino è, infatti, significativamente soprannominato il “Terrore delle pelli-rosse” e racconta con grande fierezza di come il proprio figlio quattordicenne sia già stato in grado di uccidere due guerrieri comanci e di prenderne lo scalpo, senza che questi lo avessero provocato o minacciato. Chissà se Salgari ebbe mai modo di scorrere le pagine di Rousseau, tuttavia pare quasi di sentire gli echi del Dicours quando, parlando degli uomini bianchi che si persuadono di poter spargere il sangue altrui senza subirne le conseguenze, afferma che

 per sostenere dei pretesi diritti di Dio – e cioè i loro interessi – erano tanto meno rispettosi del sangue umano quanto più si illudevano che il loro sarebbe stato sempre rispettato[15].

 Un’ulteriore presa di distanza da parte di Salgari si ravvisa nella presentazione di un personaggio che si rivelerà importante nella trama a venire, ovvero Abel Doc (Abel Doe nella versione originale), un bianco catturato dai comanci e divenuto ben presto loro capo. Il Bird non lesina un linguaggio colorito e risentito per l’affronto perpetrato nei confronti della razza bianca:

 “[...] Abel Doe, turned Injun himself [...]. Now that’s enough, you see, to make the poor thing sad and frightful; for Abel Doe is a rogue, thar’s no denying, and every body hates and cusses him, ad is but his due; and it’s natteral , now she’s growing old enough to be ashamed of him, she should be ashamed of herself too [...]. A bad thing for her to have an Injunized father; for, it it warn’t for him, I reckon my son Tom, the brute, would take to her and marry her”[16], [17].

 “[...] Abel Doe divenne Indiano egli stesso [...]. Ora questo è già sufficiente, lo vedete voi stesso, a rendere quella povera ragazza triste e timorosa; poiché Abel Doe è un furfante – non si può negare – e tutti lo odiano e lo maledicono, perché se lo merita; ed è naturale che, ora che è cresciuta abbastanza per vergognarsi di lui, ella si vergogni anche di se stessa [...]. È un brutto affare per lei avere un padre indianizzato (Injunized), giacché, se non fosse per lui, sono sicuro che mio figlio Tom, il bruto, la prenderebbe con sé e la sposerebbe”.

 A cui val la pena subito raffrontare la versione salgariana:

 Era la figlia d’un carissimo amico del capitano, Abel Doc, il quale aveva avuto la disgrazia di essere stato fatto prigioniero dagl’indiani comanci. Per un caso particolare, Doc, invece di cercare di fuggire, aveva abbracciata la causa dei suoi vincitori, dimenticando completamente sua figlia ed altresì obliando l’amicizia che aveva contratta col capitano. Si diceva anzi che i comanci, avendolo conosciuto intrepido, l’avessero elevato alla dignità di gran capo; [...][18].

 Così, mentre nel Bird il personaggio di Abel Doe è fin da subito un criminale da odiare e maledire e la cui figlia prova vergogna per lui e per se stessa e non merita di essere chiesta in moglie, nemmeno da un bruto, in Salgari questo misterioso Abel Doc – il cui caso non è infame, ma “particolare” – esercita un fascino immediato, giacché nel suo passaggio dalla parte degli indiani il lettore non ravvisa né malizia né corruzione, ma qualcosa che richiede di essere meglio indagato prima di essere giudicato. Se, per l’americano, Abel è un “furfante”, per l’italiano egli è, invece, un “intrepido”; se per l’uno si tratta di un “padre indianizzato” e, dunque, degenerato, a cui si è indotti a guardare con disprezzo, per l’altro egli è un uomo meritevole di essere “elevato alla dignità di gran capo” e che il lettore non vede l’ora di conoscere.

 Anche il personaggio di Nick of the Woods da un punto di vista formale è presentato dai due autori in modi non dissimili, in quanto in entrambe le versioni egli è una figura misteriosa che si aggira per le praterie e per i boschi giustiziando e scalpando gli indiani e lasciando come proprio marchio di riconoscimento una croce incisa con il coltello sul petto delle vittime. Nei confronti di questo Jibbenainosay[19] (traducibile come “Spirit-that-walks”[20]), chiamato anche Shawneewannaween[21] (“lamento degli Shawnee”), è, tuttavia, la diversità di sguardo che rende ragione di un atteggiamento più caloroso e simpatetico da parte del Bird e più freddo e distaccato da parte di Salgari. Così, mentre nel primo le vittime di Nick vengono trovate dilaniate come se avessero combattuto contro Satana (“as if he might have fou’t old Sattan himself!”[22]), nel secondo alla somiglianza è preferita – almeno nel modo di esprimersi – una esplicita identificazione con il Maligno, poiché Scibellok – questo è il nome che Salgari gli attribuisce – è considerato un diavolo, “il diavolo dei boschi”[23]. Inoltre, nell’originale statunitense, il colonnello Bruce mostra un’evidente approvazione (“it’s a good sign when you find his mark”) e una chiara gratitudine (“many thanks to him”) nei confronti dell’assassino, a cui augura buona fortuna (“good luck to him!”) perché veglia su di loro (“keeping a sort of guard over us”) e perché, pur essendo un diavolo, è paradossalmente amichevole e, quindi, non è un vero e proprio demonio (“devil, though a friendly one to all but Injuns”[24]). Nella riduzione italiana, invece, non si ravvisano apprezzamenti di sorta; non perché Linthon, il capitano del forte, non guardi con favore alla protezione ricevuta – sarebbe inverosimile, piuttosto perché ciò che sta a cuore al nostro narratore è far concentrare il lettore sul senso di mistero suscitato da questo personaggio: “Non si sa precisamente se sia un bianco o una pelle-rossa. Vi sono alcuni che lo credono uno spirito infernale”[25]. A riprova di ciò, l’astuto autore italiano fa sostenere al proprio capitano che nessuno l’abbia mai visto, mentre l’incauto americano si concede che qualche scorridore delle praterie l’abbia scorto aggirarsi nelle foreste, in parte privandolo, così, dell’aura di mistero che lo circonda.

 Al di là delle differenze che si possono riscontrare fra gli omologhi personaggi delle due opere, ciò che resta è come Salgari si sia sottratto alla sterile dialettica tra civiltà messa in campo dal Bird, poiché nei suoi racconti e, dunque, anche in questo romanzo, per lui l’uomo bianco o pellerossa, moderno o primitivo, civilizzato o selvaggio che sia, è semplicemente uomo e dunque dotato della facoltà di scegliere liberamente il bene o il male. Una responsabilità, quella della libertà, a cui francamente nessuno può sentirsi sottratto, ma che Robert Montgomery Bird non considera alla portata degli uomini selvaggi:

 [...] honor, justice, and generosity, as characteristics of the mass, are refinements belonging only to an advanced stage of civilation[26].

 [...] l’onore, la giustizia e la generosità, come caratteristiche della massa, sono raffinatezze proprie di un grado avanzato di civilizzazione.

 E, infatti, mentre negli ultimi capitoli il nostro Salgari lascia che il racconto galoppi a briglia sciolta verso un finale strappa applausi con grancassa e colpo di piatti, l’autore d’oltreoceano trova, invece, il tempo di soffermarsi a commentare come i pellerossa, nella segretezza dei propri villaggi, siano usi abbandonare i freni inibitori che si sforzano di mantenere di fronte all’uomo bianco, perché non è più necessario “cover the nakedness of their own inferiority”[27], “celare la nudità della propria inferiorità”. Non solo, ma si attarda persino ad attribuire l’inclinazione alla violenza dell’uomo bianco all’esempio dei nativi americani, su cui – con infantilismo disarmante – fa ricadere ogni responsabilità:

 It was, and is, essentially a measure of retaliation, compelled, if not justified, by the ferocious example of the red-man. Brutality ever begets brutality; and magnanimity  of arms can be only exercised in the case of a magnanimous foe[28].

 Era, ed è, essenzialmente una forma di ritorsione, costretta, se non giustificata, dal feroce esempio del pellerossa. La brutalità sempre genera brutalità; e la generosità delle armi può essere esercitata solo nel caso di un nemico altrettanto generoso.

 Parole odiose se lette oggigiorno, ancorché giustificabili dal periodo storico, ma che, tuttavia, rivelano come il Montgomery Bird sia dimentico del fatto che la storia che egli stesso ha intrapreso a raccontare, così traboccante di uccisioni, ferimenti, tradimenti, raggiri, ricatti e violenze d’ogni genere, non abbia altra causa scatenante che la cupidigia dell’uomo bianco alla quale sono immuni persino i suoi tanto vituperati pellerossa, che, invece, non conoscono la malia che la ricchezza sa esercitare sui visi pallidi.

 L’analisi di Avventure fra le pelli-rosse, pertanto, apre certamente ad un primo livello di lettura meramente narrativo – o infra-narrativo – che consente la formulazione di giudizi sull’opera in base alle categorie narratologiche di trama e intreccio, spessore psicologico dei personaggi, ritmo diegetico e simili. Tuttavia, impone inderogabile un secondo livello di lettura di carattere metanarrativo, in cui il nostro Salgari, così provinciale se considerato nel vasto panorama della letteratura occidentale, risulta capace di trascendere l’odiosa questione della razza posta dal Bird e ricollocare l’urgenza del giudizio ad un livello più alto, quello della libertà del cuore, che determina non la razza, ma la “specie” a cui l’uomo appartiene. Così, quando il suo Scibellok si troverà ad uccidere un altro uomo bianco come lui e che si sarà rivelato essere la causa di ogni male compiuto nel romanzo, egli potrà dire: “Gli uomini della tua specie non meritano la grazia da Scibellok. Muori, furfante!”[29].

 La sensibilità dimostrata da Salgari è, dunque, tanto moderna da anticipare di decenni la franchezza storiografica che ridistribuirà le colpe e le responsabilità di quanto accaduto ai confini della cosiddetta “civiltà”. Ancora nel 1939, infatti, nell’ormai archetipico Ombre rosse di John Ford (Stagecoach), il ruolo dei pellerossa – come rivela già il titolo – è costantemente quello di presenze inquietanti che si stagliano contro il cielo come sagome silenti e immobili in cima ad un’altura, in attesa di poter calare sulla diligenza come rapaci assetati di sangue. E il carattere iconico dell’urlo liberatorio “Arrivano i nostri!”, presente in così numerose opere cinematografiche, è pari soltanto all’ingenua parzialità di vedute che porta con sé, per la quale noi siamo i buoni e loro i cattivi.

 Come Robert Montgomery Bird e molti successivi scrittori e registi western potevano contare sul favore di un pubblico compiacente poiché condivideva la loro prospettiva, forse anche Salgari ritenne di poter scommettere sulla complicità che i suoi lettori gli avrebbero di buon grado accordato, così ben abituati a non giudicare secondo le categorie esteriori di aspetto, lingua, cultura e provenienza, ma in base a quelle interiori qualità che in modo innato e, quindi, naturale sono alla portata di ogni uomo senza distinzioni e di cui ognuno è responsabile.

 Poco meno di mezzo secolo più tardi, Giovanni Luigi Bonelli – appassionato reo confesso delle opere dello scrittore di Verona – farà propria questa lezione salgariana nel concepire il personaggio e la saga di Tex Willer, il cui debito è evidente ai lettori più avveduti (foss’anche soltanto per il vistoso parallelismo con Abel Doc, uomo bianco assurto alla dignità di capo dopo la cattura). Non è un caso, infatti, che il suo fedele compagno Kit Carson prenda esplicitamente non solo il nome e la sembianza, ma tutta intera l’identità di un uomo che storicamente si distinse per la propria clemenza e il proprio favore accordato al popolo rosso, anche se questo gli richiese di ignorare comandi divergenti giuntigli dall’alto. Così, al di là di un’arguzia elementare e di un’ironia un po’ alla buona e alla portata di un’Italia – almeno agli inizi – ancora poco più che contadina, vi si percepisce il gusto particolare per una certa enfasi emozionale ed eroica, la predilezione tutta bonelliana per una descrittività narrativa ampiamente affidata alla parola scritta e ben lontana dallo stile cosiddetto “compresso” di tanta parte della produzione fumettistica degli ultimi decenni; nonché un’ampiezza e una libertà di vedute che si sottraggono anch’esse a sterili ideologiche dicotomie tra civilizzati e selvaggi, buoni e cattivi, per cogliere, invece, in ciò che è diverso un’occasione imperdibile di fascino e meraviglia.

 Ebbene, Emilio Salgari non avrà lasciato il segno nella letteratura alta, dal cui canone viene, dunque, a torto estromesso, tuttavia, a dispetto di tanti intellettuali, maestri e finanche genitori benpensanti che con veemenza mettevano in guardia i ragazzi dal leggerne le opere (che, pertanto, venivano lette di nascosto), egli ha fatto scuola almeno in un ambito popolare come il fumetto, che – nel caso di Tex Willer – è in grado di richiamare lettori di tutte le età e di ogni livello intellettuale.

 Un’opera minore e per lo più scivolata nell’oblio come Avventure fra le pelli-rosse si inserisce, dunque, in una filogenesi culturale storicamente e geograficamente ampia e articolata, dalle variegate implicazioni ideologiche ed estetico-letterarie, nella quale, nondimeno, spicca per una sua peculiarità genuina Emilio Salgari, il quale ancora una volta vale assolutamente la pena di essere letto e riproposto.

[1] J.-J. Rousseau, Origine della disuguaglianza, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 2017, p. 13.

[2] Ib., p. 31.

[3] Ibidem.

[4] Ib., p. 61.

[5] Ibidem (trad.: “In loro l’ignoranza dei vizi giova tanto più che in questi la conoscenza della virtù”, Giustino, Historiae, lib. II, cap. II).

[6] J. F. Cooper, L’ultimo dei Mohicani, Fabbri Editori, Bergamo, 2001, p. 314.

[7] Ib., p. 422.

[8] Ib., p. 180.

[9] Ib., p. 499.

[10] R. M. Bird, Nick of the Woods. A story of the Early Settlers in Kentucky, Forgotten Books, London, 2018, pp. 2-14.

[11] Ib., p. V – “Dobbiamo forse delle scuse per le tinte di cui abbiamo disseminato i ritratti degli Indiani nelle nostre illustrazioni – tinte più fosche di quelle solitamente utilizzate dai pittori di tali rappresentazioni. Ma confessiamo che il selvaggio nord-americano non ci è mai sembrato il valoroso ed eroico personaggio che pare ad altri. Il solo fatto che intraprenda una guerra – una guerra sistematica – contro esseri incapaci di resistere o difendersi – contro donne e bambini, che tutte le altre razze nel mondo, non importa quanto siano barbare, consentono di risparmiare, è stato finora, e siamo persuasi che lo rimarrà fino alla fine dei nostri giorni, un ostacolo alla nostra immaginazione; cerchiamo nelle foreste il potente guerriero, il capotribù cinto di piume, precipitarsi allo scontro con il suo nemico e lo vediamo ritornare carico degli scalpi di misere squaws e dei loro bambini. Eroico? Non vedono ciò che significa questa parola” (Cicerone, De Officiis).

[12] E. Salgari, Avventure fra le pelli-rosse, Wikisource, Capitolo I.

[13] R. M. Bird, Nick of the Woods. A story of the Early Settlers in Kentucky, Forgotten Books, London, 2018, p. 175.

[14] E. Salgari, Avventure fra le pelli-rosse, Wikisource, Capitolo I.

[15] J.-J. Rousseau, Origine della disuguaglianza, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 2017, p. 24.

[16] La particolare compitazione dell’inglese parlato risente del tentativo da parte del Bird di rappresentare una pronuncia significativamente difforme dalla dizione corretta, la quale non sarebbe alla portata del livello intellettuale dei personaggi coinvolti.

[17] R. M. Bird, Nick of the Woods. A story of the Early Settlers in Kentucky, Forgotten Books, London, 2018, p. 30.

[18] E. Salgari, Avventure fra le pelli-rosse, Wikisource, Capitolo II.

[19] R. M. Bird, Nick of the Woods. A story of the Early Settlers in Kentucky, Forgotten Books, London, 2018, p. 31.

[20] Ib., p. 32.

[21] Ib., p. 33.

[22] Ib., p. 31.

[23] E. Salgari, Avventure fra le pelli-rosse, Wikisource, Capitolo II.

[24] R. M. Bird, Nick of the Woods. A story of the Early Settlers in Kentucky, Forgotten Books, London, 2018, pp. 31-34.

[25] E. Salgari, Avventure fra le pelli-rosse, Wikisource, Capitolo II.

[26] R. M. Bird, Nick of the Woods. A story of the Early Settlers in Kentucky, Forgotten Books, London, 2018, p. 200.

[27] Ibidem, p. 277.

[28] Ib., p. 268.

[29] E. Salgari, Avventure fra le pelli-rosse, Wikisource, Capitolo XXVII.