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I paesi fuori luogo che non vogliono diventare borghi

di Gian Luca Diamanti - 29/07/2022

I paesi fuori luogo che non vogliono diventare borghi

Fonte: Appenniniweb

Salviamo i borghi, riempiamoli di soldi e buttiamo via i paesi. Anzi: trasformiamo i paesi in borghi, ma solo alcuni, solo i più fortunati quelli che meglio si adattano alla nuova narrazione. Sarà giusto? Oppure qualcosa ci sfugge? Cosa dobbiamo salvare davvero nelle aree interne d’Appennino? L’idea del borgo neo-romantica che abbiamo immaginato giù a valle, modernizzata con i pannelli fotovoltaici, la connessione superveloce per nomadi digitali e i localini per le apericene? Oppure potremmo provare a indagare, a capire e attualizzare la geosofia dei paesi, un pensiero maturato nei secoli, che ha generato, anche lì – soprattutto lì nei paesi – il senso umano dello spazio terrestre, il senso dei luoghi?

LA NAZIONE DELLE AREE INTERNE
Da Pietrapertosa a Fivizzano, da Montemonaco a Agnone, da Castel del Giudice a San Ginesio, da Visso all’Abetone, fino a Calitri e alle tante Civita e Cerreto: quanti sono i paesi d’Appennino? Contarli è quasi impossibile; altrettanto difficile è farsene un’idea generale, per quante sono le differenze, per quante sono le curve da fare per raggiungerli.
Eppure i paesi d’Appennino sono una nazione nella nazione: la nazione delle aree interne, traboccanti d’arte o abbandonati, ridotti a ruderi dai terremoti e dallo spopolamento, ricostruiti (male) dagli anni Settanta del secolo scorso, con gli infissi d’alluminio anodizzato e i blocchetti di cemento, che – comunque – era sempre meglio che vivere in un tugurio umido e senza servizi e almeno figli e nipoti può darsi che restano. Ma non sono restati: e nei paesi, che continuano a franare a valle, coi bar chiusi e pochi servizi, sono rimasti pensionati, migranti e qualche giovane coraggioso, mentre i ritornanti, spesso, sono solo quelli dei fine settimana o delle ferie estive. Poi ci sono i paesi per i quali è andata bene, per tanti e vari motivi: sono quelli che si sono riempiti di B&B, di resort, di alberghi diffusi e di negozi ad uso turistico. Una minoranza, non si sa quanto felice, che ha subito una straordinaria mutazione genetica, trasformandosi, secondo qualcuno piacevolmente, in borghi col bollino di qualità.

I BORGHI DI DELOITTE, SCAMARCIO E DEL PNRR
I borghi, già. Quelli fortunati dicevamo, i più belli d’Italia, i borghi antichi, incantati, cantati e decantati perfino – di recente – da Deloitte, una delle più importanti società di consulenza del mondo che, in tempi di straordinari e soprattutto appetibili investimenti da PNRR, ha ritenuto utile dedicare ai borghi italiani un po’ della propria attenzione e un mini-film con il titolo “Presto sarà domani” (GUARDALO QUI) dagli intenti visionari, ma dal retrogusto melenso, diretto da Michele Placido e interpretato da Riccardo Scamarcio e Carolina Crescentini con le musiche di Nicola Piovani.
Deloitte ci spiega come saranno i borghi del 2026 post PNRR, in un’Italia ormai modernizzata, l’Italia che ci mancava dice Scamarcio nel finale, interpretando un giovane che ha lasciato il borgo ed è diventato qualcuno negli Usa, ma che adesso, grazie alle trasformazioni digital-ecologiche del borgo antico/futuro, ritrova il suo orgoglio e la voglia di tornare. L’impressione è che quello di Scamarcio e di Deloitte sia un punto di vista da fuori, dall’alto.
“E il timore – come scrive OrticaLab  dopotutto era proprio questo, che il destino dei paesi fosse appaltato all’esterno, mentre la maggior parte delle volte i paesi e le comunità sperimentano, mettono in campo pratiche virtuose, impiegano tempi lunghissimi per diventare dei luoghi modello”.

LA DIFFERENZA TRA BORGO E PAESE
Ma se invece di immaginare i borghi delle transizioni ecologiche e delle favole (e di farci dei film), pensassimo di più ai paesi?
Se lo facessimo dovremmo provare a capire, innanzitutto, una differenza. La differenza tra borgo e paese.
Voilà la différence: il borgo, lo spiega abbastanza bene anche la Treccani, è un nucleo urbano chiuso nelle sue mura. Burg: il significato originario del nome, proprio dei popoli germanici, rimanda a quello di luogo fortificato, il villaggio fortificato, il gruppo delle abitazioni del popolo, contrapposto al castrum o castellum, dimora del signore.
Pagus, da cui deriva paese, pare essere quasi l’esatto contrario: indica uno spazio da abitare, da coltivare, sul quale allevare i propri animali, costruire percorsi, sentieri, reti con gli altri pagus. Sarebbe bello se qualcuno si ricordasse anche di un altro termine osco – ancor più antico – che nell’Appenino preromano era particolarmente condiviso e che potrebbe essere considerato l’antenato del pagus: il termine è Touta, ed era usato praticamente da tutti i popoli italici, dagli Umbri ai Sanniti. Questi popoli concepivano un’area territoriale dove la presenza di agglomerati urbani era più o meno accidentale.
Touta stava a rappresentare, allo stesso tempo, la tribù, la comunità e il territorio sul quale essa era stanziata. Pensate che questo termine di origine indoeuropea, Touta, è attestato in numerose famiglie linguistiche indoeuropee: antico irlandese tuath (“tribù, popolo”), gotico þiuda (“popolo”), lituano tautà (“popolo”), latino tota (“popolo di Roma” > “tutta Roma”, da cui totus, “tutto”). È attestato anche come etnonimo in area germanica: tedesco Deutsch (“tedesco”), latino Teutones (“Teutoni”). Per questo ci piace pensare che il paese derivi dal pagus che in qualche modo riporta alla touta: un’antica idea che considerava insieme la popolazione e il luogo.

IL PAESE-PAGUS SI NUTRE DEL SUO TERRITORIO
A cosa serve questa probabilmente noiosa digressione? Serve a dire che se il borgo è chiuso tra le sue mura, il paese no. Dal paese si guarda il paesaggio e i paesani se ne prendono cura. Il paesaggio nutre il paese, nello spirito e nella pancia. O almeno lo nutriva.
E qui sta il punto: per far rinascere un paese non serve farlo diventare un borgo, non basta cioè restaurare le sue case, le sue chiese, i suoi palazzi, trasformarli in alberghi diffusi, in ristoranti con prodotti tipici e utilizzare le cantine o le stalle dove i nonni mettevano legna e bestie, in simpatici negozietti di chincaglieria etnica. In questo modo si interviene sul nucleo urbano, ma si dimentica il territorio.
Il passato dei paesi era tormentato da mille problemi, dovuti allo sfruttamento, alla povertà, alla mezzadria. Tuttavia c’erano forme di mutuo aiuto, come gli usi collettivi, la collaborazione comunitaria, oggi praticamente sconosciute.
Se è impensabile, inopportuno e impossibile ripercorrere le strade di cento o mille anni fa, qualcosa il passato può però insegnarlo: il paese rinasce se gli si restituisce il rapporto con il suo territorio, possibilmente un rapporto comunitario. Il paese rinasce se smette di essere fuori luogo e se si riappropria di un rapporto economico e sacro con il suo luogo.
Così, in questo senso, il paese può e deve essere sede di studio e sviluppo di un’agricoltura e di un allevamento identitari rispetto al luogo e per questo di qualità; può essere sede di studio e di sviluppo di nuovi sistemi di vendita per i prodotti che prima potevano ambire solo a un mercato locale, di metodi innovativi di comunicazione e narrazione dei prodotti stessi. Su questo dovrebbero puntare normative e sostegni: non a vendere le case un euro l’una, né a far piovere milioni come in una lotteria.

PATTI NUOVI, SISTEMI ANTICHI
Servono un patto nuovo tra paese e territorio, normative specifiche per la gestione dell’agricoltura e dell’allevamento, per il miglioramento della qualità, della specificità e della commercializzazione, rivolte ai piccoli produttori residenti; serve che ai paesi e ai paesani venga delegata anche la gestione delle nuove forme di utilizzo del proprio territorio, a cominciare da quelle riguardanti i cosiddetti sport outdoor, ma più in generale tutte le forme di attività all’aria aperta che attraggono chi abita nelle città. I cammini, gli sport ciclistici, l’arrampicata, il parapendio, il torrentismo, possono essere praticati nei territori dei paesi e produrre ricchezza per i paesani. Ma se e quando ci saranno investimenti per infrastrutturare il territorio dei paesi con questi obiettivi, anche tramite PNRR, una delle condizioni da inserire dovrebbe essere, l’affidamento della gestione delle infrastrutture e dei servizi ai residenti per scongiurare il più possibile l’appalto esterno. Così le infrastrutture realizzate con i finanziamenti esterni potrebbero essere intestate ai residenti vecchi e nuovi seguendo le forme di gestione e gli esempi degli antichi domini collettivi, con la proprietà condivisa e una gestione comunitaria che contribuisca a convincere i paesani a prendersene cura in prospettiva.
Il patto potrebbe estendersi a nuove forme di collaborazione tra città e paesi (Appenniniweb.it ne aveva già parlato qui) affinché i paesi non siano solo residenza di agricoltori, allevatori, ma anche punto d’incontro, di scambio, di mercato, di beni e di servizi.  
Il patto infine potrebbe puntare su una digitalizzazione che non esalti il telelavoro e gli spostamenti virtuali (creando paesi di sradicati nomadi digitali), ma che contribuisca semplicemente a fornire servizi essenziali (scuola, sanità e cultura innanzitutto) ai residenti reali, a chi si integra nella comunità locale e che ad essa fornisce un contributo concreto e non virtuale.

I PAESI NON SONO FATTI SOLO DI CASE MA DI PAESAGGIO
Affacciato dal belvedere di Agnone guardo l’immenso paesaggio di una regione piccolissima come il Molise e immagino il grande Sannio. Lo stesso succede anche a casa, in Umbria: seduto con le gambe a penzoloni sul muretto di uno dei terrazzamenti di Cesi, piccolo paese attaccato alla montagna, posso abbracciare con lo sguardo l’intera valle ternana e, se mi volto, sono sovrastato da un’enorme quinta verde e bianca, di rocce a precipizio e di boschi di lecci che cominciano dove finiscono gli oliveti. E allora penso che i paesi non sono fatti di case e di chiese, ma soprattutto di panorami e di paesaggio. Non sono solo le vie e i vicoli, ma sono il territorio che controllano o che subiscono, quello col quale nutrivano anima e corpo. Quello che gli entra dentro. I paesi non sono come le città, non sono come la modernità: non bastano a sé stessi, non hanno la pretesa e la superbia di credere di essere una rappresentazione del tutto. Hanno bisogno di un territorio, di un cielo, delle loro fonti, di un bosco sacro da tempo immemore, delle loro chiese di campagna e di una rete di collegamenti con gli altri paesi; hanno bisogno di sentirsi dentro qualcosa più grande di loro, hanno bisogno di trovare un nuovo equilibrio tra il dentro e il fuori, hanno bisogno di paesani che si prendano cura del luogo e del suo paesaggio…oltre che dei soldi del PNRR.