Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / I Soldi e la Roba

I Soldi e la Roba

di Pier Paolo Dal Monte - 19/10/2022

I Soldi e la Roba

Fonte: Frontiere

Un raccontino di Giovanni Verga, contenuto nella raccolta “Novelle rusticane”, narra la storia di un certo Mazzarò, il quale, pur provenendo da una condizione di estrema miseria, era riuscito ad accumulare un enorme fortuna: latifondi a perdita d’occhio, granai, frutteti, migliaia di capi di bestiame. Insomma, una cornucopia di “roba”.

Nonostante tutta questa ricchezza, Mazzarò era rimasto, come si suol dire, coi “piedi per terra” e non era montato in superbia, continuando a badare assai più alla sostanza che alla forma, spregiando i titoli onorifici che gli altri parevano in dovere di tributare a chi fosse in possesso di cotante fortune.

Poiché egli aveva pensato a lungo al “significato della roba”, egli sdegnava il denaro, ben conscio del fatto ch’esso non fosse roba ma, tutt’al più, un astratto segno della roba, roba virtuale (se così si può dire) ed adoperava tutto il denaro di cui veniva in possesso per acquistare terreni ed armenti.

In questo, l’immaginario Mazzarò era simile ad un altro personaggio, questo realmente esistito, ovvero Serafino Ferruzzi, il quale, quando gli fu rivolta la domanda su come egli investisse il suo denaro (ciò che quelli à la page definirebbero “liquidità) egli rispose che lo investiva acquistando terreni, “perché di terra non ne fanno più”

Il mondo di ieri e quello di poc’anzi conservavano contezza di quella sorta di assolutismo termodinamico che la roba reca con sé. Non aveva ancora trionfato la dittatura del segno, il feticismo della notazione, l’idolatria della sineddoche monetaria, che avrebbe portato a confondere l’esistente con la sua metafora creando una sorta di ontologia surrogata che ha annichilito la percezione de “lo gran mare dell’essere”.

Il mondo esibito, quello che permea i nostri giorni, ha nutrito quest’illusione, mescolandola ai sogni di pristina purezza, i quali, tramite varie distopie tecno-illuminate (dal famigerato Club di Roma in poi) hanno gettato i semi della delirante illusione di poter continuare, secondo gli stessi criteri e gli stessi scopi e, al contempo, cambiare tutto.

“Tutto cambi, affinché nulla cambi”.

Da lungo tempo, il mondo delle fiabe ha preso il posto della realtà, dando luogo a quel regno incantato, lastricato dalle luccicanti illusioni del progresso, nel quale si crede alla realizzazione di un’utopia economica che possa prescindere da qualsivoglia base tangibile e, distillata dalla brutale concretezza della materia, possa divenire pura quintessenza, un lapis philosophorum che abbatterà ogni limite, moltiplicando il denaro con il denaro nella sua immateriale ed aritmetica purezza e, affrancando il segno dalla barbara fisicità, potrà realizzare lo stato edenico, nel quale scorreranno immateriali fiumi di latte e miele e l’immateriale lupo pascolerà con l’immateriale agnello.

Perché, dunque, affidarsi alla produzione di beni materiali, questo relitto del passato, dato che lo scopo di quest’operazione è la mera moltiplicazione del segno?

Non è, forse, meglio ottenere questa moltiplicazione attraverso la magia finanziaria?

Non è, forse, più elegante liberarsi della prosaica materia ed ottenere quel profitto, da tutti agognato, attraverso la mera moltiplicazione dei numeri, la forma quintessenziale dell’economia, quella che risiede nel mondo delle idee platoniche dove il denaro distillato e smaterializzato, potrà crescere indefinitamente attraverso processi autopoietici? Non è forse più signorile emanciparsi dall’arretratezza della sfera produttiva, dalla sua avvilente trivialità, fatta di ingranaggi, frastuono, macchine trasudanti olio, maestranze sudate, insoddisfatte e riottose, e volare verso l’empireo della finanza, con la sua promessa di ricchezza senza fine?

E così, negli ultimi decenni, la struttura economica, dei paesi industrializzati, si è progressivamente ritirata dalle tradizionali attività produttive per affidarsi, in misura sempre maggiore, a questo tipo di economia quintessenziale, baloccandosi nell’illusione che essa potesse diventare indipendente dalla materia e dai problemi che questa comporta (esaurimento delle risorse, inquinamento, ecc.), nella beata illusione che il sistema potesse reggere e prosperare creando valore di scambio con attività fantomatiche: le varie  “new economies”.

Purtroppo, “la materia ha la testa dura” e non esiste alcun pasto che sia gratis, almeno dal punto di vista termodinamico e, anche se, oggi, la rappresentazione del mondo è fatta di eggregore e fantasmi, non lo è affatto nella più prosaica fattualità,  perché, ogni consorzio umano è, in primo luogo, una struttura materiale, popolata da esseri viventi che interagiscono in  modo complesso e, per ciò stesso, è soggetta ad un processo metabolico che non è riducibile ad un modello econometrico, ma si manifesta nel modo illustrato dalla seguente figura, nella quale, le frecce perpendicolari rappresentano il processo metabolico, propriamente detto, ovvero le componenti materiali ed energetiche necessarie per il “metabolismo sociale”, mentre le frecce orizzontali ne sono la mera rappresentazione economica, ovvero la metafora del processo, in termini di valore di scambio.

La così detta “civiltà occidentale avanzata”, locuzione che allude al suo considerarsi l’avamposto del moto del progresso materiale e sociale, una sorta di battistrada verso il “sol dell’avvenire”, ha, in tempi recenti, dovuto sottostare ad una serie di bruschi risvegli.

L’ultimo di questi determinato, peraltro, dalla sua hybris pasticciata, è stata l’illusione di “affamare la bestia”, nella fattispecie l’orso, comminando, alla Russia, sanzioni, la cui natura principalmente monetaria[1], aveva scopo di provocare una condizione di miseria e morte, che avrebbe dovuto portare alla cacciata del despota cattivo. Tuttavia, questo intento, è rimbalzato siccome una palla elastica scagliata contro un muro.

Anche un infante, non particolarmente dotato, può comprendere che, per riuscire ad “affamare” qualsivoglia entità, individuale o collettiva che sia, bisogna privarla del grano, del burro e, possibilmente, dei cannoni; chiudere i rubinetti delle fonti energetiche e di approvvigionamento dei beni essenziali, in breve, ostacolarne, fino a bloccarlo, il processo metabolico necessario per la sopravvivenza, e non, come è avvenuto, cambiare di segno a delle notazioni contabili[2] o rapinare, sic et simpliciter, le riserve monetarie depositate in banche estere.

Quale bizzarro processo mentale ha portato a pensare che si potesse ridurre alla fame chi dispone del 12% delle terre emerse e ha i granai pieni, i depositi ricolmi di burro e cannoni e dovizia di ogni bene sul suolo e sotto il suolo (beni che, incidentalmente, sono necessario al metabolismo sociale di coloro i quali hanno imposto le sanzioni)?

Queste vicende ci forniscono un esempio, in corpore vili, circa la natura della crisi che stiamo attraversando che, come scrivemmo in quest’articolo ha un’origine diversa e assai precedente rispetto agli eventi “bellici” di questi ultimi mesi, ed è il risultato di tante illusioni epistemiche annidate nella visione del mondo della modernità.

Una di queste è, senza dubbio riconoscibile nel feticismo del segno, al quale abbiamo accennato, che si manifesta in maniera totalizzante, tanto da aver sostituito ogni altro criterio di interazione col mondo.

Esso si manifesta, in maniera assai evidente, nel linguaggio: nei tempi moderni, si usa definire il “ben-essere” in termini di ricchezza e, quest’ultima, in termini esclusivamente monetari. Quest’equivoco origina dalla cosiddetta “scienza economica”, scienza quanto mai triste e dai caratteri assai poco scientifici, la cui versione moderna si manifestò in ambiente anglosassone, che ne impose il lessico al resto del mondo e alle diverse lingue, che, per lo più, si limitarono a traslare i significati dei termini inglesi di riferimento, in maniera piuttosto semplicistica.

Il termine italiano “ricchezza”, in inglese suona come “wealth” (”riches” è piuttosto desueto), il cui significato primario è “stare bene”, così come “health” indica l’essere sano.

In una società più semplice della nostra, come quella di Mazzarò, nella quale il contatto con la materia (inclusi quei tipi di materia dai quali si ricava un flusso di energia) era più “diretto”, ciò che era considerato ricchezza, era costituito dai beni indispensabili e utili per la conservazione ed il miglioramento delle condizioni di vita.

La nostra civiltà moderna, è sempre stata dominata dal feticcio quantitativo che, muovendo dalle “qualità primarie” galileiane, ha compiuto una totale reductio ad mathematicam dell’esistente. Dalle qualità primarie al dominio totale del valore di scambio, il passo fu breve e, da allora, la quantità ha dominato il mondo: la disponibilità di simboli equivalenti di ricchezza, il tanto avere, in termini di cifre, è diventato segno della compiutezza dell’essere (il fatidico ben-essere).

Il tipo di ricchezza materiale così pregiata da Mazzarò (“tutti i beni preziosi e deliziosi”)[3], fu sostituito dalla mera notazione numerica che, della ricchezza, era metafora contabile. Quest’ultima, mediante l’allucinazione finanziaria, si è, via, via, moltiplicata, per gemmazione, dando vita ad una sinistra progenie che ha partorito simboli di simboli e metafore di metafore(ovvero i famosi e famigerati derivati: futures, CDO, CDS, ecc.).

Questo universo di allucinazioni non è altro che un modo assai complicato di significare una congerie di astrazioni (titoli di vario genere) che, alla fin fine, conferiscono il potere legale di rivendicare una quantità di beni di corrispondente valore. Come scrisse George Simmel:

Il denaro è solo una rivendicazione nei confronti della società. Una nota di credito sulla quale manca il nome del debitore […] La liquidazione di ogni obbligazione privata in denaro, significa che la comunità si assume questa obbligazione nei confronti del creditore[4]

Frederick Soddy, premio Nobel per la chimica nel 1921, per la scoperta dell’isotopia, introdusse la definizione di “ricchezza virtuale”[5] intendendo, con essa, la quantità di ricchezza “reale” (materiale o immateriale)[6] che gli individui e la comunità si astengono dal possedere (o dal fruire), allo scopo di disporre del simbolo di questa.

Dall’altro lato, la comunità, nel suo insieme, è legalmente vincolata a fornire, al portatore di denaro, beni o servizi equivalenti al valore nominale di quest’ultimo (materia futura, energia futura, tempo futuro).

Se riflettiamo in termini termodinamici o, per dirlo in maniera più semplice, in termini materiali, questo ragionamento suggerisce che il denaro non rappresenti una quantità di ricchezza positiva ma negativa, siccome un carico che, pur essendo misurato dalla bilancia secondo il peso che è in grado di sollevare, cionondimeno, imprime una spinta verso il basso.

Se trasponiamo questo concetto al binomio denaro/ricchezza, possiamo constatare che, nel momento in cui si effettua uno scambio, il titolo che dà diritto ad una generica rivendicazione di beni, passa dal compratore al venditore, quindi, questo titolo, continua a circolare indefinitamente: esso rappresenta un credito, un pagherò, in termini di beni e servizi, che è dovuto, dalla comunità, nel suo assieme, al portatore del titolo. Pertanto, il denaro, ben lungi dal poter essere considerato come ricchezza, dovrebbe, viceversa, essere valutato come un debito espresso in beni materiali di valore equivalente.

Questo aspetto che, di primo acchito, potrebbe risultare un po’ criptico, diventa assai evidente nei casi, nei quali, vi è una relativa carenza di beni da acquistare, ovvero le situazioni nelle quali si viene a determinare l’inflazione da carenza di offerta che, nei casi peggiori, può sfociare in iper-inflazione. Queste evenienze possono essere illustrate con un esempio tratto dalla fisiologia: nelle situazioni nelle quali vi è una scarsa pressione parziale di ossigeno (altitudine), è facile che l’organismo vada in “debito di ossigeno”, anche se l’apparato respiratorio è perfettamente in grado di effettuare scambi gassosi efficaci. Il mezzo di scambio (polmoni) rimane inalterato ma la materia, oggetto dello scambio, è scarsa (in senso relativo)[7].

In un’epoca di scarsità indotta, in termini di materia ed energia, come quella che viviamo attualmente[8], non è particolarmente importante la quantità di denaro che viene scambiata (che, peraltro è alla basse del concetto di “Prodotto Interno Lordo”)[9], specie nel momento, in cui, la più parte degli scambi, consiste in prestazioni “immateriali” (il tanto celebrato “terziario avanzato”), perché le basi di qualunque processo economico -e dell’esistenza stessa di qualunque sistema umano- sono rappresentate dal processo metabolico illustrato dalla figura, di cui sopra.

Questa “ricchezza metabolica”, che è ciò che consente la sopravvivenza del sistema, è essenzialmente il prodotto della trasformazione dell’energia disponibile in forme utili per sostenere il metabolismo sociale, ovvero le condizioni di esistenza della comunità e del singolo.

Da questo punto di vista, il denaro non è altro che il dispositivo che consente questo tipo di relazione[10]: esso, in quanto equivalente universale di ciò che è disponibile sul mercato, suprema sineddoche dell’esistente, è anche ciò che determina le aberrazioni della moderna ontologia sociale, in quanto rappresenta un dispositivo, la cui disponibilità dipende dall’indirizzo stabilito dai rapporti di forza dominanti e, pertanto, determina anche le sperequazioni esistenti, non solo per ciò che riguarda il “funzionamento” sociale, ma anche nello stabilire la divisione del potere tra “dominanti” e “dominati”, nonostante le illusioni di democrazia sfoggiate nel discorso pubblico.

I moderni feudatari non necessitano di milizie in armi (se non, eventualmente, di quelle di cui dispongono coloro che detengono il “monopolio della forza”) dato che, le loro milizie sono, de facto, costituite dal potere d’acquisto.

Se osserviamo il corso della storia, dal punto di vista “termodinamico”, possiamo constatare che, in misura preponderante, essa è mossa dall’esigenza di assicurarsi le risorse per la sopravvivenza individuale e della comunità di riferimento.

Le civiltà complesse hanno avuto la possibilità di sorgere solo nel momento in cui la disponibilità di risorse, della comunità, consentì che, una parte della popolazione, potesse occuparsi di attività che non fossero direttamente implicate nel sostenere il “metabolismo sociale” (fondamentalmente, fornire cibo e fonti energetiche per la cottura e il riscaldamento), onde poter creare gli apparati amministrativi indispensabili per la gestione di una società di quel tipo (governo, burocrazia, edilizia, manifattura), della creazione di “grandi opere” collettive (canali di irrigazione, strade, città) e di sostenere il commercio su lunghe distanze (approvvigionamento e distribuzione di materie prime non presenti nella zona), in breve:  di organizzare la divisione del lavoro.

Questo, oltre alla specializzazione, ha condotto anche ad una “stratificazione sociale”, la cui conseguenza è stata la “cristallizzazione” della tendenza, da parte delle classi dominanti, di “estrarre” ricchezza da coloro che la producono, tramite l’esazione di tributi, di vario genere, o lo sfruttamento, più o meno coatto (schiavitù, servitù), del lavoro altrui, tramite il controllo dei mezzi di produzione[11].

Nel quadro cognitivo e normativo del capitalismo -sistema quanto mai complesso-  ancorché il denaro sia una necessità imprescindibile, esso rappresenta il dispositivo che consente di realizzare questo sfruttamento, senza bisogno di mezzi di coercizione fisica (come nel caso dei feudatari o della criminalità organizzata), in quanto aliena dal produttore il diritto di usufruire di ciò che produce, in cambio di un generico titolo di rivendicazione, il cui valore e la cui “produzione” sono definiti in un quadro normativo e da un “mercato” (la cui mano è invisibile solo perché non la si vede), determinati dai rapporti di forza di cui sopra e, dunque, apre la strada ad ogni tipo di abuso, tra i quali, il più importante è quella sorta di schiavitù, determinata dal “potere monetario” (latu sensu), alla quale è soggetta la più parte della popolazione.

Il braccio armato di questo potere, ovvero ciò che è conosciuto, sotto il nome di “finanza”, è il principale attore nel definire l’allocazione di mezzi monetari, anche tramite la creazione di “bolle”, mediante le quali si trasferiscono ingenti quantità di “denaro virtuale” a vantaggio di entità che, coloro che controllano i meccanismi speculativi, hanno scelto di privilegiare[12]. Questo denaro, ancorché virtuale, in fase di creazione, possiede, comunque, il proprio valore di acquisto, nei confronti di beni reali (materia, energia, tempo) presenti nel mondo.

Da questo punto di vista, il “vecchio” Serafino Ferruzzi e il “nuovo” Bill Gates, sono accomunati dalla passione per ciò che di più materiale esiste: la terra, avendo convertito buona parte del loro potere d’acquisto virtuale in ingenti estensioni di terreno reali.

Tuttavia, vi è anche un altro aspetto, da tenere in considerazione: il feticismo del valore di scambio, non riguarda solo questi aspetti, per così dire, “concreti”, ma consiste in una vera e propria relazione allucinatoria tra il mondo dell’essere e quello del divenire, nella quale l’essente è sostituito dal possibile che, come qualunque possibile, non è mai reale, bensì, virtuale. Non è mai certo che l’uovo di oggi possa trasformarsi nella gallina di domani: le uova, si sa, sono materia fragile, così come lo sono le promesse che il denaro incarna. È dunque esiziale che, ciò che era nato, semplicemente, allo scopo di costituire «una misura comune»[13], ovvero un criterio intersoggettivo di valore, per consentire gli scambi, abbia conquistato il dominio totale sulla produzione e riproduzione della vita. Come scrisse John Ruskin, descrivendo, ironicamente, una sorta di paradiso (o inferno) crematistico:


Il capitale non produce nulla se non altro capitale, come un bulbo che produca solo bulbi e mai un tulipano, come un seme che diventi seme e mai pianta[14]

Il breve excursus che riguardava le “sanzioni” alla Russia, dovrebbe aver reso chiaro che la ricchezza materiale  e quella monetaria (ancorché si pretenda che, la seconda, possa essere sineddoche perfetta della prima), costituiscono domini descrittivi non equivalenti e, in gran parte, incommensurabili (anche se si dà per scontato che si possa sempre commensurarli), poiché la ricchezza materiale obbedisce sempre alle leggi della termodinamica, che, molte volte, si contrappongono, in modo piuttosto evidente a quelle che governano il mondo virtuale del valore di scambio. Un esempio particolarmente eclatante, di questa contrapposizione, è quello che, da una parte vede l’incremento “spontaneo” del debito virtuale, che sottostà all’emissione di moneta (esogena o endogena che sia) e, dall’altra, l’aumento spontaneo di entropia.

Tuttavia, vi è un altro aspetto, da tenere in considerazione, forse quello più importante, per ciò che riguarda quella comunità estremamente complessa che è il sistema-mondo. Come abbiamo visto, poiché il denaro è fondamentalmente un indicatore di valore astratto e, come tale, soggetto all’arbitrio di varie entità, tra le quali, il “mercato”, i vari quadri normativi che ne regolano l’esistenza e il flusso, la speculazione (che non è altro che la fattispecie essenziale[15] del mercato), esso non solo è soggetto ai rapporti di forza, ma li crea, così come genera abbondanza e carestia.

Quello che era l’equivalente universale, atto a consentire gli scambi, è diventato il supremo arbitro dell’esistenza e, forse, è un bene, almeno dal punto di vista cognitivo, che, in questi tempi ultimi, almeno in quella parte di mondo che si identifica con la definizione di “occidente collettivo” (che, di fatto, è costituito dai paesi della NATO, della UE e dell’anglosfera) sia stato sottoposto ad un “bagno di realtà”, il quale ha mostrato, in corpore vili, che il significato basilare del sintagma “valore di scambio” si manifesta, appunto, nello scambio.

Se non vi è abbastanza “roba” da scambiare il valore dell’equivalente universale si riduce drasticamente, se non vi è nulla da scambiare, esso viene magicamente ad annullarsi.


[1] Questo comprende anche la rapina delle riserve russe depositate nelle banche occidentali

[2] O inibire la fruizione di servizi fantasmatici che, oggi sono il perno dell’economia della fuffa (Amazon, Netflix e simili idiozie)

[3] Proverbi: 24,3-4

[4] George Simmel, Philosophy of money, London 1978 (Leipzig, 1900)

[5] Cfr. Frederick Soddy, Wealth, Virtual Wealth and Debt, Britons Publishing Company, London 1931

[6] Come, ad esempio, il tempo lavorativo

[7] La scarsità è sempre da intendersi in senso relativo, ovvero come carenza di beni nel momento e nel luogo in cui se ne ha bisogno.

[8] Ma, in fondo, tutta la storia del capitalismo è una storia di scarsità indotta, in misura piò o meno severa

[9] Nonché dell’imposizione fiscale diretta

[10] Che implica il rendere disponibile l’energia, laddove serva, ossia acquistarne le fonti e distribuirne il flusso.

[11] Tra questi vi è il possesso della terra che, un tempo, costituiva l’unico mezzo di produzione.

[12] Si pensi, ad esempio ai miliardari della “new economy” i quali dispongono di un valore che è, fondamentalmente il frutto di mere “bolle”, dei quali i casi “Amazon” (nato come una sorta di “Postal Market” informatico) e Tesla, sono solo gli esempi più eclatanti

[13] Aristotele, Etica Nicomachea, 1133 a.

[14] John Ruskin, Unto this last. Essay IV: Ad Valorem, Ward Lock and C., London, 1912

[15] Inteso nel senso di “relativo all’essenza”.