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Il futuro dei Cinque stelle è diventare come il partito Radicale?

di Marco Tarchi - 28/09/2020

Il futuro dei Cinque stelle è diventare come il partito Radicale?

Fonte: Domani

Una delle possibili evoluzioni del Movimento, per reagire all’attuale crisi, è accontentarsi di essere una forza politica minore, con alcune analogie con il partito Radicale
Sarebbero fuori dalle alleanze di governo ma capaci di fungere da ago della bilancia tra le opposte coalizioni, influenzando in modo decisivo le scelte su temi cruciali di loro interesse.
Ci sono però molte differenze: i Cinque stelle al momento mancano di un leader forte, non hanno l’appoggio delle élite, sono piccoli per declino e non per natura e hanno perso la loro natura trasversale.
Scostandosi dalla gran parte dei commenti di questi giorni sulle conseguenze de calo del Movimento Cinque Stelle nella tornata elettorale regionale, Piergiorgio Corbetta, che con i libri da lui curati per l’Istituto Cattaneo si è dimostrato uno dei più acuti osservatori del “partito di Beppe Grillo”, ha pronosticato e forse suggerito per i Cinque Stelle un destino che li avvicinerebbe al partito Radicale dell’epoca di Marco Pannella: quello di accontentarsi di essere una forza politica minore – a suo avviso non più in grado di toccare il 10 per cento dei voti – e non inserita in alleanze di governo ma capace di fungere da ago della bilancia tra le opposte coalizioni, influenzando in modo decisivo, e talora determinando, le scelte del parlamento e dell’esecutivo su temi cruciali di suo interesse.
L’ipotesi è suggestiva e interessante. Suscita però alcune perplessità per le non poche diversità che caratterizzano i due soggetti chiamati in causa. In primo luogo, il partito Radicale non ha mai dovuto scontare il trauma di un riflusso dei consensi tanto vertiginoso quanto lo era stato l’ascesa nei favori degli elettori.
Ha sempre fluttuato fra l’1,07 e il 3,45 per cento ed è rimasto un partito di élite, incoraggiato e lodato proprio da alcuni settori delle élite, intellettuali ma anche politiche ed economiche.
Non è mai giunto ad attrarre (salvo casi isolati e noti) aspiranti a carriere istituzionali di primo piano capaci di costituire un ceto politico professionale – ruolo che Pannella ha riservato a sé e ad una ristretta cerchia di fedelissimi.
Viceversa, il Movimento Cinque stelle ha attratto e immesso nel circuito prima parlamentare e poi di governo un sostanzioso gruppo di “uomini (e donne) nuovi” che non ci hanno messo molto tempo per rendersi conto delle prerogative della carica raggiunta e ad affezionarvisi, percorrendo a tappe forzate l’itinerario che fa, degli iniziali “credenti”, dei veri “carrieristi”, per usare la felice formula politologica coniata a suo tempo da Angelo Panebianco per descrivere le conseguenze dell’istituzionalizzazione dei partiti.
Immaginare che la grande maggioranza di questi neoprofessionisti della politica sia disposta a riconvertirsi al militantismo delle idee – quello dei “banchetti”, per dirla con il Pannella dei tempi ( oggi si parlerebbe di gazebo), rischia di essere una scommessa azzardata.

MANCA IL LEADER
In secondo luogo, il partito Radicale era contraddistinto sin dall’inizio, e nel suo carismatico leader più che mai, da una visione del mondo, della società e dell’uomo ben caratterizzata e coerente: se non una vera e propria ideologia organica, qualcosa che le si avvicinava fortemente.
Il messaggio era quello di una cultura liberal-libertaria (e libertina) che abbracciava pressoché ogni campo dell’agire umano e di cui l’onnipresenza e l’onnipotenza del concetto dei diritti individuali, e della loro rivendicazione costante, era il cardine.
Nel suo pur esuberante ed esteso inventario di opinioni ed esternazioni, tendenzialmente enciclopedico, Beppe Grillo non è mai arrivato a produrre qualcosa di analogo. Di conseguenza, il militante grillino non si è mai impregnato fino in fondo di un catechismo (laico) che gli fornisse risposte ad ogni quesito, inclusi quelli esistenziali, come accadeva (e tuttora accade) ai seguaci del partito Radicale.
Il Movimento non ha reclutato nelle élite i suoi attivisti, ma in un popolo variegato e variopinto, che esprimeva adesione su alcune istanze puntuali e specifiche (lotta alla corruzione, revoca della delega a una classe politica inadeguata, lotta alle oligarchie della finanza e del circuito mediatico, insofferenza per le lungaggini delle mediazioni istituzionali) ma su molte altre questioni aveva punti di vista estremamente eterogenei. Il che ha fatto la fortuna dei Cinque stelle  sul piano elettorale, consentendogli di incamerare voti da destra e da sinistra, ma non gli ha consentito di “formattare” ideologicamente i suoi sostenitori, e neppure i suoi dirigenti.
Attenuando progressivamente, fino quasi a cancellarla, l’originaria immagine di trasversalità, e soprattutto concedendosi alla logica delle alleanze – prima con una formazione anti-establishment e poi con quella che all’establishment è più affine –, il Movmento Cinque stelle si è precluso la prospettiva di agire come un soggetto “pirata” su punti diversi dello scacchiere e si è avviato sul crinale suicida della subordinazione allo schema bipolare e ai suoi protagonisti.
Chi pare essersene reso conto, come Alessandro Di Battista, può forse raggiungere un ampio consenso di base ma dovrà affrontare l’ostacolo di una dura resistenza dei gruppi parlamentari, che in sede di Stati generali – il congresso del Movimento – potrebbero fare causa comune contro il ritorno del populismo in una delle sedi che ne hanno decretato i passati trionfi.