Il paradosso dell’odio: proibito a chiunque, tranne che agli ‘antifascisti immaginari’
di Alessio Mannino - 12/12/2025

Fonte: La Fionda
In un tempo in cui si vorrebbe bandire l’odio per decreto con apposite commissioni sull’hate speech, una sola forma d’odio è ammessa: quella contro i “fascisti”. Intendiamoci: sono perfettamente legittime le proteste, dentro e fuori la fiera “Più liberi più libri” conclusasi l’8 dicembre scorso, sulla scia dell’appello per cacciare la casa editrice di destra radicale “Passaggio al bosco”. Il campo a sinistra si è diviso, con voci autorevoli come Luciano Canfora e Massimo Cacciari che hanno liquidato come insensata l’iniziativa. Perfino Roberto Saviano, le cui antenne sono solitamente ipersensibili al primo accenno di “pericolo fascista”, si è dichiarato contrario alla richiesta (per altro abortita) di far la guerra ai libri. Una polemica che, fosse rimasta nell’alveo della contestazione di un editore, come “Passaggio al bosco”, dichiaratamente militante, avrebbe mantenuto i contorni di una normale dialettica politica. È stata la pretesa di espellerlo nonostante si tratti di una realtà legale, ad aver fatto uscire dai binari una prova di pura intolleranza che, per di più, ha ottenuto l’effetto di regalare pubblicità gratuita oltre che di oscurare le altre centinaia di espositori. Inclusi quelli “antifascisti”.
Chiusosi il caso mediatico, resta una questione più profonda. Sintetizzabile nella domanda: che senso politico ha, oggi, l’antifascismo? Sul piano storico, non possono esserci dubbi: la coalizione di cattolici, comunisti, socialisti, liberali e monarchici che diedero vita alla Resistenza fu il germe da cui nacque il compromesso costituente a cui dobbiamo, piaccia o no ai nostalgici del Mascellone, ottant’anni di Repubblica. Il fascismo, in un bilancio complessivo, rappresentò un’esperienza non solo fallimentare rispetto ai suoi intenti, non solo disastrosa nel suo esito finale, ma per sua essenza fondata sulla repressione del presupposto stesso di una vita socialmente libera (e non soltanto di una società “liberale”): la libertà d’espressione del pensiero.
Leggere e studiare autori che in quella fase del Novecento aderirono o propagandarono idee fasciste, per non parlare di giganti non assimilabili a tale etichetta (come, per citarne uno, Ernst Jünger, da cui proviene il nome dell’editore sotto bersaglio), equivale esattamente a custodire il bene del libero pensiero. Se va compulsato il Mein Kampf per toccare con mano la megalomania hitleriana, non si vede perché non possano circolare i testi del rumeno Codreanu o i romanzi di quel genio di Céline, che pure era un antisemita viscerale.
Se l’antifascismo oggi ha un valore, non è di essere un fascismo di segno contrario, che comprime la libertà (e il reato di apologia non c’entra niente, ricollegandosi alla disposizione transitoria della Carta che vieta la ricostituzione di organizzazioni recanti il marchio di fabbrica del partito fascista: la violenza paramilitare). L’antifascismo è coerente con il significato etimologico quando invece è il contrario del fascismo. Quando cioè accetta l’altro e il diverso fino all’opposto da sé, almeno fintantoché non metta concretamente a rischio proprio questo diritto-dovere all’alterità. Se in Italia fosse individuabile un’obiettiva minaccia al dispiegarsi di opinioni e visioni alternative, allora sì che si dovrebbe invocare non la censura, ma la magistratura.
Tutto il resto è strumentalizzare l’opposizione storica al fascismo da parte di coloro, per citare l’ultimo libro di Antonio Padellaro, che gesticolano da “antifascisti immaginari”, in un abisso con quelli veri ben esemplificato nell’incipit: “Se mi chiedete cosa sia per me l’antifascismo rispondo: la cella del colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo in via Tasso”. Non il salottino di Corrado Augias.
Con la spauracchio del fascismo eternamente alle porte, insomma, siamo di fronte a un antifascismo “archeologico”, “ingenuo e stupido”, “di tutto comodo e di tutto riposo”, come diagnosticava Pier Paolo Pasolini già nel 1974 in un’intervista a Massimo Fini sull’Europeo. Ed è nella misura in cui lo spettro delle camicie nere (o brune) è assurto a simbolo del Male, che è diventata un’ossessione su cui è lecito esternare il sentimento più di tutti oggi proibito: l’odio. Ma un odio privo di contenuto attuale corrisponde a quel banale meccanismo inconscio noto come proiezione della propria Ombra: chi si detesta viene accusato di ciò che non si tollera e si nega in sé stessi. Vale a dire: essere succubi di un molto poco democratico riflesso liberticida.

