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In Occidente, dopo il successo dell’ AfD, il fronte populista si rafforza?

di Marco Tarchi - 29/09/2017

In Occidente, dopo il successo dell’ AfD, il fronte populista si rafforza?

Fonte: L'Indro


L' intervista al Professor Marco Tarchi, politologo della Facoltà di Scienze Politiche Cesare Alfieri dell'Università di Firenze
DI EMANUELE CUDA 

Non è passato in secondo piano, neanche a distanza di qualche giorno, l’ esito delle elezioni federali tedesche. Profonde riflessioni ha suscitato il risultato che ha visto, considerando i partiti maggiori, la CDU-CSU aggiudicarsi il 33%, perdendo ben 8 punti dalle ultime elezioni; la Spd il 20,5%, con un calo del 5,2%. Il boom è stato registrato dalla Afd (Alternative Für Deutschland) che ha conquistato, guadagnando il 7,9%, il 12,6%, con cui è riuscita ad entrare per la prima volta in Parlamento.

 «Non ci gireremo attorno, avremmo voluto naturalmente un risultato migliore. Siamo però la forza maggiore del Paese, e contro di noi non può essere formato alcun governo. Non era scontato rimanere primo partito dopo 12 anni di responsabilità. Formeremo un nuovo esecutivo», ha detto fin dal primo mento Angel Markel. «Abbiamo lasciato la questione rifugiati e immigrazione alla destra. E ora dobbiamo cambiare. Ci impegneremo contro l’estremismo affinché la Germania rimanga Germania» ha sostenuto il leader della CSU, Horst Seehofer.

Che sia stata la sola questione immigrazione a garantire il successo dell’ AfD non sembra corretto. A contribuire vi sono stati diversi altri elementi. Non secondaria è stata la debolezza del candidato socialdemocratico Martin Shulz incapace di presentare un programma convincente e di affermarsi in discontinuità rispetto a quanto era avvenuto nell’ ultima legislatura, durante la quale l’ SPD aveva governato, nella Grande Coalizione, con la CDU-CSU.  Di sicuro, i partiti tradizionali hanno subito un’emorragia di consensi, grazie a cui l’ AfD ha avuto una buona riuscita.

La clamorosa ascesa dell’ AfD arriva a quasi un anno dall’ elezione alla Casa Bianca di Donald Trump, che si era proposto ai cittadini americani come l’ anti-establishment, come l’unico in grado di fronteggiare l’ elite il cui simbolo era Hillary Clinton; ma avviene a pochi mesi dall’ arresto che le forze populiste avevano subìto in primavera, in Olanda e in Francia, sebbene avessero raggiunto .

Pochi mesi di Amministrazione sono bastati al Presidente americano per defenestrare Steven Bannon, coordinatore della sua campagna elettorale poi divenuto membro del  Consiglio per la Sicurezza Nazionale, inseguendo, forse, un tentativo di “normalizzazione” a cui tendere anche mediante una modifica delle posizioni prese in campagna elettorale. Quale prospettiva attende i populisti europei?

Una volta conosciuto il risultato, «combatteremo per le nostre nazioni e per i nostri popoli» ha twittato  il leader olandese Geert Wilders mentre Marine Lepen «complimenti ai nostri alleati dell’ Afd per questo risultato storico! » . «Elezioni in Germania, la voglia di cambiamento cresce!» è stata la constatazione di Matteo Salvini. Giorgia Meloni ha poi precisato che l’ «affermazione di Afd rappresenta un voto contro la deriva mondialista e filo immigrazionista e contro il processo di islamizzazione della Germania».

«Noi siamo l’unico argine a quelli che sono gli estremismi in Europa, fermo restando che poi il voto mostra anche che i partiti tradizionali sono in declino» sono state le parole del Vicepresidente della Camera dei Deputati Luigi Di Maio, alla sua prima uscita dopo essere stato designato candidato Premier del Movimento 5 Stelle.

«Ieri una nuova America, oggi Coblenza, domani una nuova Europa» era stato lo slogan dei populisti europei riunitisi a fine gennaio. Dopo le elezioni tedesche, qual è lo stato di salute del populismo in Occidente? Come possono i partiti tradizionali affrontare le forze populiste? Lo abbiamo chiesto al Professor Marco Tarchi, politologo della Facoltà di Scienze Politiche Cesare Alfieri dell’Università di Firenze dove insegna Scienza Politica e Teoria politica.

L’ AfD, Alternative für Deutschland, ha superato il 12% dei voti ed è in procinto di fare il suo ingresso nel Parlamento, la prima volta in Germania. Più di 90 i seggi conquistati. «Abbiamo lasciato la questione rifugiati e immigrazione alla destra. E ora dobbiamo cambiare. Ci impegneremo contro l’estremismo affinché la Germania rimanga Germania» ha constatato Horst Seehofer, leader della CSU. E’ stata la questione migratoria il punto di forza dell’ AfD?

È stato certamente uno dei temi cruciali che hanno contribuito al suo successo, inserito però in una cornice più ampia che ha avuto come asse fondamentale il richiamo all’identità del popolo tedesco, una questione che per decenni ha costituito un vero e proprio tabù ed è stata accuratamente esclusa dal dibattito pubblico, ma da tempo covava sotterraneamente in larghi strati dell’opinione pubblica, certamente preoccupati del costante afflusso di elementi stranieri, portatori di codici culturali e modelli di comportamento estranei alle tradizioni e alle abitudini locali. Non è un caso che questa rapida risalita dell’AfD, solo pochi mesi fa data da sondaggi e osservatori in flessione, si sia accompagnata alla decisione dei nuovi vertici del partito di mettere la sordina alla polemica anti-euro e promuovere questa svolta “patriottica”.

Che tipo di populismo è l’AfD?

Un nazional-populismo, che certamente non ha nulla a che vedere con quel nazionalsocialismo a cui in queste ore, polemicamente, tanta parte della stampa e del ceto politico lo vorrebbe accostare. Pur con caratteristiche proprie che lo differenziano per taluni aspetti – ad esempio, sul terreno della politica economica è più liberale e conservatore del Front national di Marine Le Pen –, lo si può considerare parte integrante di quella famiglia di partito in fieri che si è raccolta nel gruppo Europa delle nazioni e delle libertà al Parlamento europeo (anche se uno solo dei deputati eletti in quella sede nel 2014 vi aderisce, essendo gli altri confluiti, a seguito di una scissione dell’ala liberale, confluiti tra i Conservatori e riformisti).

«Siamo nel parlamento tedesco e cambieremo questo paese. Combatteremo contro Merkel o chiunque sarà alla guida del governo» sono state le parole di Alexander Gauland, uno dei leader dell’AfD. Che tipo di opposizione sarà quella dell’ Alternative Für Deutschland? Ne risentirà anche l’UE?

Non sono in grado di prevedere le scelte future del partito, ma mi sento di escludere che assumerà atteggiamenti antisistemici, perché i suoi dirigenti sanno bene quali sospetti li circondano e credo che si sforzeranno di integrarsi alle prassi istituzionali, pur sostenendo posizioni di forte dissenso nei confronti delle scelte politiche dei concorrenti. Se terranno fede ai programmi elettorali, non faranno sconti all’Unione europea e calcheranno i toni del loro “Prima la Germania”, come del resto fanno tutte le formazioni sovraniste.

«L’ingresso dell’Afd nel Bundestag può essere minacciosa, può rappresentare un pericolo. Nessun democratico può guardare altrove di fronte a una cosa del genere nel nostro Paese» ha affermato Schulz. Tra l’altro, vi sono state tensioni nei pressi della sede dell’ AfD ad Alexanderplatz a Berlino. Quale pericolo si cela dietro il successo dell’AfD?

Per la democrazia, nessuno. La demonizzazione dell’AfD da parte degli avversari è una costante sin dalla sua nascita, ed era scontato che sarebbe stata accentuata con il crescere dei consensi raccolti. Si pensa che delegittimandola agitando gli spettri di un ritorno del passato si potranno indurre i suoi elettori a fare un passo indietro, ma ho i miei dubbi che questa sia la via migliore per riuscire a ridimensionarlo. Sarebbe molto più efficace un’azione volta a fargli concorrenza sul suo stesso terreno, come pare voglia fare Angela Merkel, varando qualche provvedimento, magari di natura puramente simbolica, gradito all’elettorato che le ha voltato le spalle giudicandola troppo disposta a cedere alle posizioni progressiste su questioni come i flussi migratori.

Una volta conosciuto il risultato, una leader dell’AfD, Frauk Petry, ha fatto sapere che non entrerà a far parte del gruppo a causa di divergenze circa la linea che il partito sta adottando in alcuni ambiti. Già si parla di scissione. Quale significato ha questa frattura?

Esprime un dilemma che è caratteristico di tutti i partiti populisti e si è ripresentato più volte nella loro storia recente – in Austria con la Fpö, in Olanda con la Lista Pim Fortuyn, in Francia con il Front national in ben due occasioni (scissioni di Mégret nel 1998 e di Philippot pochi giorni fa), in Italia con la Lega Nord –, tanto da apparirne come un tratto strutturale: ogni volta che una di queste formazioni sfonda i limiti della pura sopravvivenza marginale nel sistema politico, i suoi dirigenti si trovano di fronte a un bivio: insistere sulla linea della protesta e puntare a catturare ulteriori consensi tenendosi a distanza dall’establishment e continuando ad assumere posizioni intransigenti, oppure normalizzarsi, istituzionalizzarsi, abbandonare una parte delle istanze precedentemente difese e tentare di inserirsi nel gioco delle coalizioni di governo? Le opinioni si dividono, e arrivano le rotture. Che in genere danneggiano gli “ortodossi” ma spazzano dalla scena i “possibilisti”.

Con l’AfD, abbiamo l’ ennesimo esempio di populismo che entra nel Parlamento, si “normalizza”. Donald Trump, ad oggi, è ai minimi storici di consenso. In generale, la forza anti-sistema, una volta entrata nella stanza dei bottoni, si rafforza o si indebolisce?

Si indebolisce, perché la forza propulsiva delle istanze populiste è legata al diffondersi di uno stato d’animo di indignazione, di sfiducia, di diffidenza, di rigetto nei confronti della classe politica e, più in generale, di tutte le “oligarchie”. Se chi ne trae sostegno dà l’impressione di venire a patti con questa detestata categoria, e quindi di tradire il popolo, la sua stella può declinare rapidamente. Occorre quindi fare attenzione alla propria immagine e mantenere atteggiamenti e toni in linea con i principi che si sono proclamati. Trump è peraltro attento a muoversi su questa linea, ma non gli è facile averla vinta, in primo luogo con quell’ampia componente del partito repubblicano che si guarda bene dal voler rompere i ponti con quell’establishment in cui si è accomodata. Vedremo come, alla lunga, andrà questa partita.

Cosa ci dice il boom dell’AfD sullo stato del populismo in Occidente?

Che le ragioni che ne hanno decretato la crescita negli ultimi due decenni sono tutt’altro che venute meno, perché le classi politiche di governo continuano a dimostrarsi carenti nell’offrire risposte ad alcuni dei problemi fondamentali della nostra epoca. Come ha efficacemente sostenuto il politologo francese Dominique Reynié, il populismo europeo oggi ha successo perché si propone di difendere contemporaneamente due patrimoni storici che settori consistenti delle popolazioni – specialmente negli strati più disagiati – vedono minacciati: lo stile di vita messo a repentaglio da una immigrazione massiccia di estranei e il livello di vita minacciato dalle conseguenze negative della globalizzazione, prima fra tutte la delocalizzazione degli impianti produttive, focolaio di disoccupazione. Va detto però che, finora, tutte le formazioni populiste hanno attraversato, sul piano elettorale, alterne fortune, con un andamento abitualmente ciclico: alti e bassi, per loro, sono una costante. Ed è possibile che anche l’AfD soggiaccia alla norma.

Venendo all’ Italia, «noi siamo l’unico argine a quelli che sono gli estremismi in Europa, fermo restando che poi il voto mostra anche che i partiti tradizionali sono in declino» ha dichiarato Di Maio alla sua prima uscita da candidato Premier del Movimento 5 Stelle. È d’ accordo con quanto detto dal Vicepresidente della Camera e come si sta evolvendo il M5S?

Anche il Movimento Cinque Stelle, che pure io non considero un fenomeno integralmente populista (mentre tale è, senza dubbio, il discorso politico di Beppe Grillo, che non sempre i suoi allievi seguono), si trova oggi dinanzi al dilemma di cui accennavo prima: tenere alta la bandiera della protesta anti-establishment o smussare molti degli angoli dalla predicazione degli scorsi anni per mostrare un volto più moderato e “ragionevole”? La prima ipotesi è la più adatta a conservare i favori di quella parte di elettorato che ha già votato M5S, ma può rendere ardua la conquista di nuovi sostenitori. La seconda, però, a mio parere, presenta molti più rischi che vantaggi: mettere fra parentesi le argomentazioni e lo stile che hanno fatto di Grillo un formidabile catalizzatore di consensi può costituire una palla al piede. Non credo ci sia chi è disponibile ad orientare le proprie preferenze sulle liste pentastellate solo perché Di Maio si propone come argine all’estremismo…

A primavera 2018 dovrebbero tenersi le elezioni politiche in Italia. Ancora non si sa quale sarà la legge elettorale, ma certamente la prospettiva proporzionale non sembra peregrina. Il M5S, che i sondaggi danno al quasi 30% e che si dice pronto a governare, sarà costretto a trovare compromessi con le altre forze politiche. Ci riuscirà?

Non so se ci riuscirà, ma dubito che, se sceglierà quella via, gli converrà. L’ipotesi di una “grande coalizione” postelettorale fra Pd e Forza Italia rafforzerebbe l’immagine del ceto politico italiano come una casta preoccupata solo di spartirsi poltrone e privilegi, e darebbe vita a un governo debole e destinato o a spaccarsi periodicamente al momento di affrontare scelte cruciali o a ridurre la propria azione alla mera normale amministrazione, evitando di prendere di petto problemi di grande impatto per evitare frizioni o risse intestine. Per un M5S in veste di unica opposizione di peso, sarebbe uno scenario ideale per crescere ulteriormente.

E da questo punto di vista, come si preparano al prossimo appuntamento elettorale la Lega Nord di  Matteo Salvini e Fratelli d’ Italia di Giorgia Meloni?

Puntando entrambi sul repertorio sovranista, identitario e populista, nella convinzione che oggi sia gradita a una frangia cospicua dell’elettorato. Se i Cinque Stelle decidessero di disertare questo terreno per indossare l’abito della moderazione, farebbero a queste due formazioni un notevole regalo. Non è fuor di luogo ricordare che da una recentissima ricerca dell’Istituto Cattaneo, basata su un sondaggio a campione, emerge la disponibilità del 17% degli elettori del M5S a prendere in considerazione l’ipotesi di votare per Fratelli d’Italia, e di un altro 15% a premiare nelle urne la Lega Nord. Un sonoro campanello d’allarme…

Come è stato confermato dalle ultime elezioni tedesche, a votare la forza populista sono gli elettori più disagiati, che si sentono più esclusi, perlopiù ex elettori di sinistra. I partiti socialdemocratici europei hanno registrato un forte calo del proprio consenso. In che modo i partiti tradizionali possono far fronte a questa emorragia?

Non certo ricorrendo agli anatemi, come invece stanno facendo i partiti di centrosinistra e di sinistra. Quell’elettorato può essere convinto a cambiare voto o da errori grossolani dei partiti populisti – non nuovi a scagliarsi addosso dei boomerangs – o da proposte politiche di forze concorrenti che vadano incontro alle loro preoccupazioni. Fin qui, segnali in questo senso sono stati lanciati da partiti di centrodestra – i Conservatori britannici, l’Ump francese ai tempi in cui la guidava Sarkozy, altre formazioni analoghe in altri paesi –, che però, vinte le elezioni e recuperate un certo numero di pecorelle smarrite, hanno rapidamente fatto inversione di rotta, riprendendo la linea precedente e anzi accentuandone lo spostamento verso posizioni progressiste, schierandosi a favore dell’Unione europea, della globalizzazione e di tutte le cosiddette “aperture societarie” (sui matrimoni e le adozioni omosessuali, sulla procreazione assistita, sul fine vita ecc.). E così hanno ridato fiato ai concorrenti.