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L’uomo senz’ombra è chi perde i legami col passato

di Francesco Lamendola - 11/12/2019

L’uomo senz’ombra è chi perde i legami col passato

Fonte: Accademia nuova Italia

Non sono molti i romanzieri americani che hanno trattato il tema dei reduci della Prima guerra mondiale; il che non è poi tanto strano, considerato che, per la società americana, la partecipazione a quel conflitto è stata un’esperienza assai meno coinvolgente e drammatica di quanto lo è stata per i popoli europei, e considerato che perfino in Europa essa non ha prodotto un solo autentico capolavoro letterario, meno ancora riguardo al tema specifico dei reduci e del loro reinserimento nella società civile. Fa eccezione un romanzo “minore” di uno scrittore statunitense molto popolare, tanto amato dal pubblico quanto snobbato dalla critica: Zane Grey (Zanesville, Ohio, 31 gennaio 1872-Altadena presso Los Angeles, 23 ottobre 1939), un nome che susciterà forse, fra le persone meno giovani anche del pubblico italiano, simpatici ricordi dell’adolescenza, poiché dalla sua penna instancabile sono usciti più di cento romanzi e racconti avventurosi, quasi tutti ambientati nel Far West al tempo delle carovane dei pionieri, dei banditi che assaltano le banche e degli indiani che danno la caccia alle grandi mandrie di bisonti, il più famoso dei quali, e il più rappresentativo, è senza dubbio Betty Zane, del 1903, che apre la serie, proseguita per decenni, a ritmi impressionanti, anche dopo la scomparsa dell’Autore, con la pubblicazione di numerose opere postume, proseguita fin verso la fine degli anni ’90 del secolo scorso.

Il romanzo di Zane Grey dedicato al dramma dei reduci dalla Prima guerra mondiale è Il pastore di Gadaloupe e appartiene alla maturità dello scrittore, anzi quasi alla sua vecchiaia, poiché è del 1930, sicché reca le tracce di una maniera più pacata e riflessiva di trattare la materia e tratteggia un’atmosfera più pensosa, in un West che non è più quello della frontiera, ma che ormai è stato in gran parte domato, da quando lo hanno raggiunto la ferrovia, il telegrafo e le altre caratteristiche della civiltà moderna. Il protagonista del romanzo è il giovane Clifton Forrest, che torna in patria dopo la terribile esperienza della guerra di trincea sul fronte francese, minato nell’anima e nel corpo dalle sofferenze patite. Tutto ciò che gli resta da desiderare è di rivedere l’amato paesaggio del Nuovo Messico e riabbracciare la sua famiglia, in attesa di morire sotto il sole della sua infanzia. Anche per lui, però, come per tanti altri reduci di guerra, specialmente europei, il ritorno porta un’amarissima delusione: invece di trovare un po’ di pace e di serenità in attesa della fine, trova la sua famiglia ridotta quasi alla disperazione a causa delle speculazioni di un vicino spietato, Lundeen, il quale, insieme al suo socio messicano Malpass, dopo aver rovinato i Forrest vorrebbe impadronirsi della loro fattoria e della loro terra. Ecco allora che il giovane Clifton si vede letteralmente costretto a riscuotersi e a reagire, tanto più che una luce si accende improvvisa in quello che egli credeva il suo inevitabile tramonto: l’amore di una dolcissima figura femminile, Virginia, proprio la figlia di Lundeen, la quale riuscirà a interporsi nell’urto fra le due famiglie che un odio mortale aveva diviso. Con la sua bontà e con la sua generosità, la ragazza riuscirà non solo ad aiutare i Forrest a uscire dalla loro difficilissima situazione, ma anche a far tornare in Clifton la voglia di vivere, cosa che lo metterà sulla via di un’insperata guarigione. Questa, per sommi capi, la trama del libro.

Nella prima pagina ci siamo imbattuti in una bella descrizione di quel valore, oggi costantemente minacciato, negato, ridicolizzato e demonizzato, senza il quale non crediamo sia possibile condurre una vita degna di uomini: ossia il legame con il proprio passato, con i luoghi, le cose e le persone della propria infanzia e tutto ciò che contribuisce a dare alle persone un’identità e quindi una profonda ragione di vita. Infatti senza il legame col passato non c’è identità, e senza identità non ci sono più le persone, ma solo un gregge anonimo e indistinto di individui atomizzati e sradicati, dei mercenari disposti a trasferirsi e a lavorare in qualsiasi posto, sotto qualsiasi padrone, perché non hanno più un ancoraggio affettivo e ideale con la propria storia e con le proprie radici. Ne avevamo già parlato in un paio di articoli, ”Un paese ci vuole; un paese vuol dire non essere soli” (Cesare Pavese), ed Esistere è “metter radici, farsi terra e paese”, pubblicati sul sito dell’Accademia Nuova Italia rispettivamente il 20/11/17 e il 22/05/19); vogliamo adesso riprendere il discorso. Ed ecco la pagina di Zane Grey alla quale avevamo accennato (da: Il pastore di Gadaloupe; titolo originale The Shepherd of Gudaloupe, 1930; traduzione dall’inglese di Laura Reanda, Milano, Casa Editrice Sonzogno, 1967, pp. 9-10):

 

Tutt’attorno a Forrest il mare, scuro e tempestoso, in qualche modo gli ricordava le ondulate praterie del suo amato West, che egli sperava ardentemente di vedere ancora una volta, prima di soccombere alle ferite che la guerra aveva lasciato nel suo corpo e nella sua anima.

Egli stava appoggiato alla battagliola della grande nave, in un punto oscuro verso poppa, nell’ombra delle lance di salvataggio. Era la seconda notte di navigazione da Cherbourg, ed era la prima volta che si trovava sul ponte. L’Atlantico, mosso e ondulato, assomigliava, a parte il suo incessante movimento, allo sconfinato deserto. Il ruggito del vento nelle sartie gli ricordava vagamente il rumore del vento tra le fronde dei pioppi a casa, un suono che egli aveva ben ricordato per tutti i lunghi anni della sua assenza. Nei neri incavi delle onde c’era lo stesso mistero  che, fin dalla sua giovinezza, egli aveva visto e temuto negli oscuri anfratti delle colline.

Eppure egli odiava quel mare irrequieto, instabile e traditore, che sembrava parte anch’esso del turbine in cui egli si era trovato. Forrest desiderava le montagne, il deserto, le valli folte di pioppi della sua terra natia, che era a un tempo, per lui, casa e madre, laggiù, lontano, oltre quella distesa d’acque; anelava a quei cari legami del passato che egli ricordava così bene, e che ancora sopravvivevano. Gli unici momenti in cui si sentiva emozionato erano quelli in cui, ignorando la sua debolezza e il suo dolore, egli si aggrappava  alla murata, scrutando sullo sconfinato oceano  la pallida oscurità della notte, conscio che il suo sogno di nove mesi su un lettuccio d’ospedale stava finalmente diventando una realtà.  Stava andando a casa, stava tornando a Cottonwoods!

Vide nella sua mente la valle che si snodava lungo le colline argentee, rivestite di bei pioppi verde-dorati che davano il nome al luogo; il torrente che scendeva  a valle tra le rocce, fiancheggiato da salici e cespugli di salvia, portando la gelida acqua azzurra che veniva dalle nevi delle montagne; la vecchia casa di campagna, di stile spagnolo, con i suoi muri bianchi e le viti che si arrampicavano fino alle tegole rosse.

Questi ricordi sembrarono strapparlo dalla morsa degli orrori della guerra, in cui si era trovato stretto. Sarebbe stato meglio, ora che stava tornando a casa, vivere col pensiero del breve futuro che gli rimaneva; e la sua mente si aggrappò alle memorie vivificanti.

 

In questa pagina di prosa, il concetto-chiave è il seguente: anelava a quei cari legami del passato che egli ricordava così bene, e che ancora sopravvivevano. Che cosa saremmo noi, senza i nostri ricordi? E che cosa sarebbero i ricordi, se non fossero tutt’uno col nostro presente, e se non contribuissero a fare di noi esattamente ciò che siamo, e pertanto a darci un’identità? Sbaglia, pertanto, chi pensa che i ricordi abbiano a che fare colo col passato e quindi con un tempo che non c’è più; i ricordi sono parte di noi, definiscono il nostro essere, rafforzano la consapevolezza che abbiamo di noi stessi, offrendoci un solido ancoraggio nella mutevolezza del mondo e della nostra stessa vita. Si noti, peraltro, che lo scrittore americano non scrive: anelava a quei legami del passato che egli ricordava così bene, bensì: anelava a quei cari legami del passato che egli ricordava così bene; dove quell’aggettivo, “cari”, sta a indicare l’affetto che lega il suo personaggio ai propri ricordi, e che è un riflesso dell’armonia che esiste in lui fra il passato e il presente. Chi non sa guardare con dolcezza ai propri ricordi, fino a considerarli con tenerezza e benevolenza, anche se, ovviamente, non possono essere tutti belli, non ha raggiunto la pace che viene dall’equilibrio interiore. Detestare i propri ricordi equivale a essere in guerra con se stessi, ossia non aver accettato quello che è stato e nutrire amarezza e risentimento perché le cose sono andate in un modo diverso da come si sperava. Anzi, non solo con i fatti del proprio passato è necessario riconciliarsi, ma perfino con i luoghi che ad essi fecero da cornice. Se, per esempio, nutriamo del rancore verso la città, o l’ospedale, in cui una persona cara ci ha lasciati, ciò significa che noi non abbiamo accettato quell’evento e non lo abbiano accolto come parte del nostro passato: è chiaro, infatti, che i luoghi sono “incolpevoli” e che noi li odiamo perché odiamo ciò che in essi è accaduto. Ma anche di ciò abbiamo già parlato a suo tempo, per cui non insisteremo oltre su questo punto e passeremo a sviluppare un altro aspetto (cfr. l’articolo: Riconciliarsi con un luogo è più facile che riconciliarsi con una persona?, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 18/08/2008 e ripubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 16/08/17).

La successiva considerazione che vogliamo svolgere riguarda il fatto che perdere il proprio passato equivale a perdere la propria identità; pertanto, se nel mondo contemporaneo ci sono delle forze potentissime, di natura finanziaria, le quali si propongono l’obiettivo di sradicare i popoli dalle loro sedi, di renderli dei perenni migranti, e di costringere anche i singoli individui, all’interno del proprio territorio, a diventare dei pendolari che passano la maggior parte della giornata sui mezzi di trasporto e nei luoghi di lavoro situati lontano da casa, allora si può concludere, con ragionevole verosimiglianza, che il vero e ultimo obiettivo di tali forze, oltre a quelli più immediati e concreti, come l’abbattimento del costo del lavoro e quindi uno sfruttamento sempre più capillare e inesorabile del lavoro umano è quello di sottrarre agli uomini, sia singolarmente sia collettivamente, la loro identità. A che scopo? Allo scopo di trasformare tutti quanti in poveri vagabondi senza ancoraggio e senza stabilità affettiva, sordi al richiamo della terra natia e insensibili alla voce dei ricordi, impegnati unicamente in una durissima lotta per la vita, dove la posta in gioco è non solo la conquista o la difesa di un ultimo posto di lavoro, sempre più precario, sempre più malsano e sempre peggio retribuito, ma la conservazione o la perdita della propria anima. Chi non ha più un legame forte con il mondo dei ricordi e con la terra dell’infanzia, è come una nave senza alberi e senza vele, trasportata a casaccio dai venti e dalle correnti, e inevitabilmente destinata a naufragare, prima o dopo, contro qualche ostacolo che l’equipaggio non sarà in alcun modo capace di evitare. Se poi a ciò si aggiunge il disagio interiore, lo squallore e la solitudine dello sradicamento, l’aggressività latente in chi è stato indotto a spogliarsi della cosa più cara e necessaria, la propria identità, insieme alla quale se ne vanno, come inesorabile conseguenza, anche la fierezza, l’amor proprio, il senso di essere utili a se stessi e agli altri, si avrà un quadro abbastanza veritiero della condizione spirituale dell’uomo moderno, trasformato dai feroci meccanismi finanziari dell’usura mondiale in un povero essere senza casa, senza ideali, senza richiami affettivi, senza punti di riferimento, e costretto a vivere come una bestia che bada a soddisfare le necessità materiali più urgenti, e non ha tempo, né voglia, di occuparsi d’altro. E non è ancora tutto: manca l’ultimo anello della strategia di distruzione del passato e dell’identità, ossia la promozione culturale, politica, sociale della condizione di migrante dal proprio sesso, con l’esaltazione e la piena legittimazione giuridica non solo della omosessualità, ma del diritto alla transessualità. In altre parole, questo individuo moderno, frastornato, disorientato, spossessato della parte migliore di sé, non solo deve dubitare della propria condizione di maschio o di femmina; deve essere indotto a desiderare di poter cambiare sesso, o anche solo identità (ad esempio, costringendo gli altri, per legge, a chiamarlo “lei” o “lui” a seconda del suo capriccio), con la riserva mentale che potrebbe effettuare anche più in un “cambio”, visto che sia la tecnica chirurgica, sia il codice civile gliene danno l’opportunità. E tale idea aberrante deve essergli sussurrata e instillata sin dalla più tenera età, cioè dagli anni dell’asilo, quando effettivamente la coscienza della propria identità sessuale è ancora in fase di formazione e le sue facoltà critiche sono inesistenti. Nel romanzo di Adelbert von Chamisso (1781-1838), Storia straordinaria di Peter Schlemihl, si narra di un uomo che accettò di vendere la propria ombra, in cambio di una borsa d’oro dal contenuto inesauribile, ad un personaggio misterioso che, alla fine, si rivelerà essere il diavolo. Privo della sua ombra, anche se ricco, Peter va incontro a una serie di difficoltà sempre più gravi: gli altri uomini inorridiscono alla sua presenza, il matrimonio con la donna amata diviene impossibile, e solo allora si rende conto di aver ceduto per avidità non una cosa secondaria, ma la cosa essenziale per condurre una vita degna d’una creatura umana. Ecco: noi tutti, cittadini della modernità, siamo simili a quel Peter Schlemihl; siamo tutti in procinto di vendere o comunque di perdere la nostra ombra, ossia il legame col passato e la nostra essenza più vera e profonda. Se ciò dovesse avvenire, decadremmo dalla condizione umana ad una sub-umana...