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La guerra civile è la madre di tutte le cose

di Stenio Solinas - 26/02/2021

La guerra civile è la madre di tutte le cose

Fonte: Il Giornale

Da trent'anni a questa parte, si sono succedute nel mondo una serie impressionante di guerre civili, dalla Jugoslavia, all'indomani della caduta del Muro di Berlino, alla Somalia e più in generale all'Africa occidentale, dal Medio Oriente all'Ucraina. Il primo paradosso legato a questo fenomeno, nota Alessandro Colombo nel suo Guerra civile e ordine politico (Laterza, 310 pagine, 25 euro) è che la riflessione storica che lo accompagna è di matrice occidentale (un concetto dell'immaginario greco, la stasis della Repubblica di Platone, a cui il mondo romano mette il suo sigillo nominale, il bellum civile), ma se si scorre l'elenco fatto all'inizio si vedrà che, nella stragrande maggioranza, con l'Occidente non ha nulla a che vedere.

Questo, scrive Colombo, «pone un enorme problema di traduzione. In quale misura l'immaginario, l'iconografia e la comprensione della guerra civile maturati in duemila anni di storia occidentale possono essere trapiantati senza forzature nei contesti culturali e istituzionali non occidentali? È sufficiente l'universalizzazione, spesso superficiale, della forma-Stato per universalizzare anche l'esperienza e il concetto della guerra civile? Oppure è meglio chiedersi se, dietro la facciata di questa omogeneità non sia proprio il permanere di imponenti eterogeneità storiche, culturali e istituzionali a spiegare la presunta novità delle nuove guerre civili?». Detto in altri termini, non è proprio la pretesa occidentale, con i suoi imperativi di Stato-nazione a fare da detonatore delle resistenze altrui, a cui vengono in sostanze date delle logiche e delle spiegazioni che rispetto alla realtà risultano illogiche e non spiegano nulla? In quest'ottica si capisce anche come, nel tentativo di applicare un paradigma antico, si finisca per appiccicargli forzatamente l'aggettivo nuovo davanti: nuove guerre civili, nuovo terrorismo, nuova guerra eccetera...

Un'impostazione di questo genere si porta dietro una sorta di marginalizzazione del problema. In sostanza, le guerre civili si situerebbero ormai al di fuori degli spazi centrali del sistema internazionale, avrebbero cioè a che fare, osserva l'autore, con «qualche forma di arretratezza economica, politica o persino culturale». Si nasconde qui un secondo paradosso, perché si considera un residuo passivo, per dirla in termini paretiani, ciò che costituisce un'esperienza centrale della storia europea, della nostra stessa storia nazionale. Attorno a essa «ruotano alcune delle determinanti fondamentali dell'ordine politico: l'edificazione e la successiva implosione della distinzione tra noi e gli altri; la conseguente separazione tra ciò che è dentro e ciò che è fuori dall'unità politica e quindi tra politica interna e politica estera; la distinzione ancora più capitale tra violenza buona e violenza cattiva, legittima e illegittima, legale e criminale».

Alessandro Colombo è uno dei pensatori più interessanti nell'attuale panorama politologico italiano; suo è anche La guerra ineguale (il Mulino), un classico sul tramonto della cosiddetta società internazionale rispetto alla sua capacità di tenere distinte la pace dalla guerra, l'uso della forza e la sua legittimità.

Tornando al tema guerra civile e venendo al nostro mondo occidentale, per capire quanto sia importante rifletterci sopra, basteranno due riferimenti alla contemporaneità. Il primo ha a che fare con il fenomeno basco e catalano, il cosiddetto separatismo all'interno di un unico, supposto, tessuto nazionale. Il secondo, recentissimo, il profilarsi di due Americhe, all'indomani della sconfitta del presidente Trump, reso ancor più tangibile dall'assalto-occupazione del Parlamento In entrambi i casi, il riferimento più corretto è quello alla stasis greca, ovvero la sedizione: «Non ancora o non necessariamente una guerra civile, ma qualcosa che può sempre diventarlo» e che nel frattempo «indica solo uno stato radicale di discordia -tanto radicale da lasciare intravedere dietro l'unità apparente della polis l'esistenza o, almeno, l'incombere di due poleis diverse (i ricchi e i poveri, i pochi e i molti, gli oligarchici e i democratici)».

Se si guarda alla storia europea, si vedrà del resto che, a partire dal XVIII secolo, il concetto di guerra civile è per molti versi riletto e/o nobilitato nel suo coniugarla come rivoluzione, ovvero «la forma stilizzata di un pendant concettuale, e come tale «caricata o sovraccaricata di un significato positivo». In quest'ottica, da quella francese a quella russa, passando per la quasi totalità delle esperienze rivoluzionarie dell'Otto-Novecento, dalla Comune di Parigi allo spartachismo tedesco, la sua nobilitazione ha come contrappasso l'esclusione «in partenza di qualunque traccia di eguaglianza politica o persino morale tra le parti in conflitto. Non casualmente, al polo positivo della rivoluzione viene contrapposto il polo negativo della controrivoluzione o, più tardi, della reazione». Naturalmente, e Colombo lo sottolinea in maniera ampia, in questo passaggio nominale c'è anche lo scarto legato a una «temporalità lineare e progressiva del Moderno». In sostanza, il revolvere ovvero il tornare alle origini, si trasforma nell' «idea inaudita che il corso della storia potesse ricominciare dal principio per dischiudere un mondo interamente nuovo, un mondo mai vissuto né narrato prima».

L'eclissi del termine guerra civile rispetto al termine rivoluzione, la celebrazione della seconda a danno dell'esecrazione della prima e della sua dissoluzione, se da un lato spiega «la mancanza di una teoria della guerra civile sino alla fine del Novecento», dall'altro non riesce però a nascondere quanto, oggi come oggi, anche il termine rivoluzione appaia anacronistico. Sia perché travolto dal fallimento storico delle rivoluzioni del XX secolo, sia, e più radicalmente, ci dice Colombo, «per il riflusso della fiducia moderna nella capacità di orientare la realtà e subordinare la violenza all'intelligenza politica. Non è un caso che, per esprimere l'aspettativa o il timore del mutamento, il lessico contemporaneo ricorra sempre più spesso al termine crisi invece che al termine rivoluzione». È insomma scomparso quel senso di speranza e di «deontologia politico-professionale del risanamento», e sempre più forte, al suo posto, lo spettro dell'insicurezza, della paura e dell'incertezza.

Tutto questo aiuta a capire la cortina fumogena che continua ad aleggiare intorno al concetto di guerra civile. Proprio perché scaturisce dal collasso di un ordine politico e rimanda alla fondazione di quello successivo, esso rappresenta «la più radicale di tutte le guerre» e questo suo «stare alla radice» la rende irriducibile alle categorie abituali del pensiero politico e giuridico. Queto spiega anche perché sia «la più vera» di tutte le guerre, stante l'assunto di von Klausewitz, della «guerra in sé», il cui obiettivo è «costringere l'avversario a piegarsi alle proprie volontà». Per inciso, ciò carica il monito gramsciano «Io odio gli indifferenti», ovvero il disprezzo per gli scettici, i non impegnati, i tiepidi, oggi spacciato per una sorta di preghierina laico-umanitaria, in un vero e proprio breviario, per il suo tempo, della guerra civile: «Vivere vuol dire essere partigiani. Indifferenza è abulia, è parassitismo. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti».

Si arriva così all'ultimo, estremo paradosso, portato finale del Novecento che ci siamo lasciati alle spalle, la delegittimazione, in tono umanitario, della guerra esterna interstatale, la glorificazione di quella interna, ribattezzata come guerra di liberazione, Resistenza eccetera, trasformata in grande epopea patriottica. Non a caso Colombo riprende le riflessioni del Montherlant di La guerra civile: «Io rigenero e ritempro un popolo: ci sono popoli che sono scomparsi nella guerra nazionale; non ce ne sono che siano scomparsi in una guerra civile». Solo che alla lucidità dello scrittore francese, il pensiero politico egemone preferisce oggi un chiacchiericcio pacifista che la nega proprio dopo averla esaltata in quanto «guerra giusta»... «Il fatto che gli Stati appaiano sempre meno in grado di chiedere ai propri cittadini di morire e uccidere in proprio nome», osserva Colombo, alla fine del suo excursus, «non prelude necessariamente a qualche pacificazione universale. Perché gli Stati stessi possono trovare, come sta già avvenendo, qualcun altro a combattere al posto dei propri cittadini», mercenari, milizie alleate, droni, ma soprattutto «perché qualche altro soggetto può arrivare a scalzare gli Stati prendendo nuovamente possesso dell'ostilità politica e della guerra».