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La liberaldemocrazia invidiosa

di Adriano Segatori - 01/11/2020

La liberaldemocrazia invidiosa

Fonte: Adriano Segatori

<<La perdita dell’amore [di Dio] e la catastrofica deposizione favoriscono un odio per la vita saturo di invidia, che si trasforma in identificazione con le forze che sono contro la vita stessa>>: credo che questo pensiero di Christopher Bollas, importante psicoanalista inglese, possa racchiudere il giudizio clinico sul gesto omicidario di Antonio De Marco.

Questo ventunenne, che ha inferto sessanta coltellate equamente suddivise ad una coppia di fidanzati, che conosceva perfettamente in quanto coabitanti dello stesso appartamento, necessita sicuramente di approfondimenti psicologici al fine di chiarire la struttura mentale sottostante al suo gesto, ma questo implica tempo e procedure, per cui ogni giudizio in proposito rimane solo una scadente illazione.

Quello che invece interessa, dal punto di vista psicosociale, è la motivazione dell’invidia riportata dagli organi di informazione e che diamo per acquista.

L’invidia è quello stato d’animo interiore che Elena Pulcini definisce <<passione triste>>: un sentimento di impotenza che, negando la competizione, la rivalità e la concorrenza, vive nel risentimento e nella volontà di distruggere la fonte del rancore.

Essa si autoalimenta in maniera insidiosa e astiosa, senza provare alcun piacere se non quello di tramare la rovina dell’Altro.

Quando si limita alla parola si assiste alla svalutazione della persona ritenuta fortunata, al trovare difetti e anomalie nel fisico e nell’eventuale successo, nella calunnia esplicita e nella maldicenza velata.

Quando c’è, come nel caso del duplice omicidio, il passaggio all’atto, siamo di fronte ad una rivalsa sanguinaria, peggiorata dal fatto che l’azione distruttiva intende colpire proprio l’amore, il sentimento, la felicità: evidentemente condizioni emotive mai provate o fallite, che devono essere rimosse con l’eliminazione di chi la fortuna o la capacità di provarle.

L’invidia è sicuramente prerogativa dell’uomo nella sua struttura personologica, ma dal punto di vista sociale è caratteristica delle società liberal - democratiche: <<l’invidia crea meno problemi in una società tradizionale gerarchizzata che non in una dove vige la mobilità sociale>>[1].

L’organizzazione liberal - democratica, quindi sostanzialmente meccanica perché priva del sentimento comunitario, non tollera le differenze: nega la stessa diversità di natura – bellezza, intelligenza, sessualità, prestanza fisica, per non parlare delle razze  – in nome di una similitudine indifferenziata che tutto deve livellare.

Nel singolo scatta l’identica pretesa narcisistica legata al risentimento verso chi, a torto o a ragione, viene ritenuto superiore o, comunque, fortunato. Nella logica perversa del “Diventa ciò che vuoi”, chi non ce la fa per problemi personali o esterni comincia a coltivare la <<passione introversa e risentita>> come definisce l’invidia la stessa Pulcini. Il pensiero che fertilizza questa perversa interpretazione della realtà ha due convincimenti ossessivi: “Io voglio perché è un mio diritto” e “Non è giusto”.

Ecco che, in una mente magari disfunzionale di suo, cresce il germe della vendetta verso chi testimonia con il suo successo il fallimento altrui. E questo altrui uccide il rivale – nel lavoro, negli affari, nell’amore, forse quest’ultima la motivazione più forte di vendetta – fa giustizia di un negato diritto alla felicità prescritto dalla democrazia.

L’invidia è cosa vostra, ineffabili e miserevoli liberal - democratici! Noi siamo per la lotta, la competizione e la sfida: e vinca il migliore!

 

 

 

 

 



[1] Helmut Schoeck, L’invidia e la società, trad. it., Rusconi, Milano 1974, p. 259.