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La nostra disfatta ha avuto inizio quando ci siamo affidati alle macchine

di Francesco Lamendola - 20/07/2017

La nostra disfatta ha avuto inizio quando ci siamo affidati alle macchine

Fonte: Accademia nuova Italia

 

 

Non ce ne siamo resi conto, anzi, semmai abbiamo creduto di essere molto furbi: che bello, le macchine facevano sempre più cose in vece nostra, ci sollevavano dalla fatica, prima quella manuale, poi perfino quella di pensare… e alla fine hanno cominciato a fare ogni cosa, a occupare tutti gli spazi, e da divenire sempre più esigenti, sempre più invasive, sempre più tiranniche. Oh, ma per il nostro bene, si capisce: per semplificarci tutto, per rendere il lavoro più razionale, per agevolare perfino il divertimento e il tempo libero. Dall’acquisto di un oggetto qualsiasi, alla prenotazione di un volo o di un albergo; dalla scelta di un servizio di telefonia mobile, alla gestione dei servizi amministrativi, aziendali, bancari, tutto è passato nelle “mani” della macchine,  nulla è rimasto sotto il nostro diretto controllo; e ora manca poco che, per respirare, dobbiamo chiedere loro il permesso. Siamo controllati, limitati, ingabbiati: per ogni spazio di libertà che le macchine ci concedono, dobbiamo rinunciare ad un altro, assai più ampio, quale tributo al servizio che ci rendono. Sono aiutanti indispensabili, ma terribilmente esigenti: non ammettono deroghe, non concedono rinvii: e chi non è d’accordo, tanto peggio, esse procedono comunque. Così, ciascuno di noi ha sempre più a che fare con le macchine, e sempre meno con le persone, perfino in ambito affettivo (come si vede nel film Her, di Spike Jonze). Per pagare il casello autostradale, o una visita in ospedale, abbiamo a che fare con le macchine. Se la raccomandata che avete spedito non è arrivata al destinatario, non serve a niente chiedere di parlare con il direttore dell’ufficio postale: vi daranno un numero verde e ve la sbrigherete con una voce al telefono, non si sa di chi. 

Un esempio banale, ma se ne potrebbero fare mille: voi avete un certo gestore per il telefonino, e avete sottoscritto un contratto a certe condizioni. Poi quel gestore vi propone dei cambiamenti, delle modifiche al servizio che vi rende, e quindi anche al contratto: per informarvi, vi manda dei messaggi. Mettiamo che voi non li leggiate, che non abbiate tempo, né voglia, di farlo: ebbene, il vostro silenzio diventa un silenzi-assenso: a un certo punto, senza che voi lo sappiate, e senza che abbiate parlato con nessuno (neanche per telefono), né firmato alcun foglio di carta, ecco che la nuova tariffa vi fa capire che qualcosa è cambiato, che pagate di più per certi servizi, di meno, forse, per altri; ma non è detto che le cose siamo cambiate a vostro vantaggio. Per esserne certi, avreste dovuto leggere le offerte contenute nei messaggi; anzi, dovreste passare buona parte del vostro tempo ad informarvi, a confrontare orari, prezzi di diversi gestori telefonici. E quel che abbiamo detto per i telefonini, trappole infernali cui nessuno può più fare a meno, neanche i bambini, e in nessun momento della giornata, neanche a tavola, o a letto, o in bagno, quel che abbiamo detto di loro, vale pure per tutto il resto, a cominciare dalla banca, cui avete affidato i vostri risparmi. In teoria, dovreste passare buona parte della giornata a leggere tutte le carte che vi mandano, e a tener d’occhio l’andamento della borsa, per sapere a che punto sono i vostri fondi d’investimento, e a che livello è l’inflazione, per giudicare se il tasso d’interesse per il vostro conto corrente è accettabile, o no. In pratica, per quel genere di cose è necessario non solo avere parecchio tempo a disposizione, ma anche una certa predisposizione. Ci sono persone che vi sono portate; i giovani, poi, imparano subito. Ma gli altri, gli anziani, le persone poco portate? Peggio per loro. Si troveranno in balia di un meccanismo più grande di loro, di cui non comprendono nulla: i loro risparmi verranno utilizzati disinvoltamente dalle banche; il loro gestore telefonico applicherà loro il tipo di contratto che sarà più conveniente non per loro, ma per l’ipotetico cliente standard: giovane, dinamico, che fa molte telefonate e che manda o riceve messaggi tutto il giorno.

Tuttavia, non bisogna dedurne che questo è un mondo a misura di giovani: è un mondo a misura delle macchine; e anche i giovani sono al loro servizio, come tutti quanti: solo che servono le nostre padrone con più solerzia e con maggiore buona volontà. Sono loro che le invocano, fin dall’età in cui non possono disporre né di denaro, né di una capacità di pensiero autonomo: bambini di quattro, cinque anni, pretendono il telefonino multifunzionale, i giochi elettronici, il computer. Ci sentivamo i padroni, e crediamo ancora di esserlo, ma la verità è che i rapporti si sono rovesciati e noi siamo diventati gli schiavi, mentre le macchine comandano. Se una macchina si guasta, l’ufficio si ferma, un’operazione chirurgia diventa impossibile, un contratto notarile salta e deve esse rinviato; se una macchina “impazzisce”, se non vi riconosce, cioè se  non riconosce la vostra carta di credito, o qualunque altro documento magnetico, voi sparite, diventate invisibili, e dovrete affannarvi a spiegare, a giustificare, a discolparvi. Se alla macchina risulta che voi siete morti (magari si tratta di un vostro omonimo, deceduto la settimana scorsa), allora non c’è niente da fare, voi siete morti, e dovrete fare i salti mortali per far risultare che siete, invece, vivi e vegeti. Ora, proprio per scongiurare simili “inconvenienti”, le macchine chiedono ancora maggior potere, ancora maggior controllo sui di noi: ci dicono che, in questo modo, i disguidi saranno ridotti a zero, e tutto filerà a meraviglia, basterà che noi concediamo loro un altro pezzo della nostra intimità, della nostra vita, del controllo che abbiamo su noi stessi, per affidarlo a loro. Tutto quel che ci riguarda, globuli rossi, risparmi, stipendio o pensione, età, indirizzo, stato civile, professione, malattie pregresse, la nostra posta (elettronica), i siti che frequentiamo, il nostro telefono (e le nostre conversazioni): tutto sarà sotto la lente d’ingrandimento delle macchine, e, anzi, in gran parte lo è fin d’ora.

E il bello è che delle nostre padrone, delle nostre tiranne, delle nostre onnipresenti sorveglianti, noi non vogliamo, non possiamo più fare a meno; semmai, ci sforziamo di acquistare macchine sempre più perfezionate, cioè sempre più invasive, nella illusione di recuperare spazi di autonomia, di identità. Ma quanti di noi, anche se lo potessero (nel tempo libero, per esempio; perché ormai al lavoro, in qualsiasi settore lavorativo, è divenuto impossibile), rinuncerebbero alla televisione, o al telefonino, o al computer, per non parlare dell’automobile? Ci siamo assuefatti, come dei drogati: sappiamo che è una droga, e, negli sprazzi di lucidità, proviamo disgusto sia di lei che di noi stessi, però non siamo più capaci di farne a meno, il che ci fa sentire anche in colpa, sia pure oscuramente e semi-coscientemente.  E intanto le macchine cominciano ad aggredirci, a invadere i nostri spazi: il telefono squilla solo per perseguitarci con offerte commerciali e con pretesi sondaggi d’opinione; l’automobile nuova si guasta, evidenzia dei difetti strutturali, dobbiamo metter  già mano al portafogli per provvedere, ci coglie lo spiacevole sospetto che tutto ciò sia voluto, che sia una maniera per carpirci del denaro aggiuntivo, una specie di tassa sulla nostra ingenuità, il che ci fa sentire furiosi, ma anche depressi; e se accendiamo la televisione per rilassarci guardando un vecchio film, le decine di pubblicità che lo interrompono per dei quarti d’ora, non solo ci irritano, ma ci causano frustrazione e amarezza, confermando la nostra intuizione che il vero programma è la pubblicità, e gli altri programmi sono solo i riempitivi che servono per catturare i telespettatori, come dei pesci presi all’amo.

Ma la nostra cattiva coscienza, il nostro senso di colpa e il nostro auto-disprezzo hanno radici ancor più profonde. Non stratta solo del fatto che siamo drogati dalla tecnologia e che non riusciamo assolutamente a farne a meno, pur vedendo e comprendendo a quale stadio di degradazione essa ci stia portando sotto il profilo spirituale, e, per molti aspetti, anche sotto quello meramente pratico ed esistenziale. È qualcosa di ancor più profondo, e che rende ancora più sconfortante la nostra frustrazione. Si tratta del fatto che non è nemmeno vero che noi abbiamo scelto di affidarci alle macchine: perché scegliere indica un’azione troppo netta e decisa, rispetto al semplice adagiarsi che ha caratterizzato il nostro atteggiamento. In realtà, noi non abbiamo scelto e non abbiamo deciso un bel nulla: ci siamo trovati immersi in una certa situazione, abbiamo visto ch’era comoda, e abbiamo acconsentito ad essa, non con un atto della volontà, ma con un atto mancato di essa: non abbiamo detto di sì, ma non ci siamo opposti. Ci siamo lasciati tentare, sedurre, irretire; siamo scivolati nelle braccia della tecnologia, come in quelle di una donna-vampiro; e, a partire da quel momento, abbiamo incominciato ad abdicare a noi stessi, a rinunciare alla nostra anima.

In una società liquida, come la nostra, anche le scelte diventano liquide, le decisioni svaporano, si disperdono come fumo al vento: impossibile dire dove cominciano e dove finiscono, impossibile dire se e fino a che punto siano libere, e, soprattutto, consapevoli. Si sceglie e non si sceglie; si acconsente, perché la cosa pare ovvia, naturale, inevitabile: del resto, come non acconsentire? Per farlo, bisognerebbe scegliere, nel senso classico della parola: ma ciò è impossibile in un contesto liquido. Sarebbe come voler dare calci a un pallone fatto di aria. E poi, a non acconsentire, le cose diventerebbe subito difficili, enormemente difficili: è difficile persino trovare, in un negozio, un modello di una qualsiasi macchina dell’anno prima; dopo due o tre anni, l’impresa diventa impossibile. Il mondo corre in avanti, chi si ferma è perduto. Chi si ferma, e non si tiene informato, di fatto si consegna, inerme, al tappeto mobile del progresso, che lo porterà dove vorrà lui. La società tecnologica non prevede eccezioni: può pazientare per un poco, ma, presto o tardi, tutto e tutti  devono piegarsi ai suoi voleri. Se anche una minima superficie del globo terrestre resistesse al modello da essa rappresentato, se anche una sola persona su mille non volesse lasciarsi irreggimentare, il sistema verrebbe messo in crisi, e ciò non è previsto. La società tecnologica è la società totalitaria per vocazione e per eccellenza: fin dalla sua nascita, essa è letteralmente condannata ad espandersi, sempre, senza pace, illimitatamente, insaziabilmente, inesorabilmente, Non potrebbe fermarsi nemmeno se lo volesse. Nessuno potrà mai dire “basta” di qualcosa; semplicemente, ciò equivarrebbe ad un ostacolo al progresso, e sarebbe necessario rimuoverlo. Senza rancore, nulla di personale: ma quell’ostacolo andrebbe rimosso, quel sassolino andrebbe tolto, altrimenti tutta la mega-macchina potrebbe incepparsi.

E c’è ancora un altro aspetto di cui bisogna tener conto. Tutto il fascino che la tecnologia esercita sugli uomini moderni, assume sempre più chiaramente la connotazione di una ipnosi collettiva. Le persone sono come stregate, ipnotizzate, davanti alle macchine: il loro sguardo diventa vacuo, i loro riflessi si allentano, tutta l’attenzione è rivola verso un qualcosa che non si trova qui, al presente, ma altrove, nell’iperspazio virtuale. Quanto più la macchina è tecnologicamente sofisticata, tanto più forte è il potere ipnotico che esercita sull’uomo. Il volante d’una fuoriserie incanta, ma lo schermo d’uno smartphone ultimissima generazione rapisce addirittura. La sera, quando le città si svuotano (tranne che di balordi e di stranieri), una pallida luce intermittente alle finestre fa capire dove siano finiti tutti quanti: ipnotizzati davanti agli schermi televisivi. Restano così alcune ore, fin quando le luci si spengono e la città si addormenta. Meglio non indagare troppo a fondo da qual genere di sogni siano popolati i sonni di questi uomini ipnotizzati dalla tecnica: certo non da sogni a misura d’uomo. Ma c’è un’altra parola per esprimere in maniera più adeguata, forse, il concetto dell’ipnosi collettiva: quello della possessione. Gli uomini dominati dalla tecnica sono nelle mani di un potere più grande di loro, amorale, spietato, imperscrutabile. E siccome, in base a tali caratteristiche, non è possibile ipnotizzare che venga dall’alto, non resta altra ipotesi che salga dal basso. Il potere che la tecnica esercita sugli uomini moderni non è altro che una forma di possessione demoniaca.

Stupiti? Si rifletta che il diavolo, da che esiste l’umanità, studia il modo in cui può allontanarla da Dio, mettendola, allo stesso tempo, in conflitto con se stessa. A lui non basta perdere le singole anime; è troppo poco: il diavolo pensa in grande e fa le cose in grande. Il suo scopo è la perdizione dell’umanità intera, niente di più, niente di meno; pertanto, è divenuto uno specialista di tutto ciò che è suscettibile d’esercitare una seduzione sull’umanità nel suo complesso. Nel XVIII secolo erano i salotti illuministi nei quali si progettava una civiltà emancipata dal soprannaturale e tutta impegnata a realizzare, con le sue sole forze, il paradiso in terra: ma era pur sempre uno sforzo di tipo artigianale, che non gli consentiva di attirare a sé se non un numero limitato di anime. No, lui cerca, da sempre, un’unica, immensa rete da pesca, per catturare in una volta sola l’intero genere umano. La tecnica moderna, da quando è diventata una presenza  fissa, e sempre più invasiva, nella vita di tutte le persone,  a cominciare dai bambini, gli ha offerto l’occasione lungamente cercata. Per mezzo di essa, egli si è insinuato nell’intimità domestica, ha dominato i pensieri degli uomini per ventiquattro ore al giorno, e, soprattutto, li ha disabituati a sentire da esseri umani. Via la coscienza del bene e del male, via il pentimento o il rimorso dopo una cattiva azione, solo la tecnica pura, il rapporto redditizio fra guadagni e perdite: quale inferno migliore di questo? E l’abbiamo fatto noi…