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La Rinascita del Mediterraneo e la guerra per il suo controllo

di Giorgio Vitangeli - 08/03/2024

La Rinascita del Mediterraneo e la guerra per il suo controllo

Fonte: Italicum

Nel Mediterraneo Orientale s’è riaccesa all’improvviso la guerra tra Israele ed i Palestinesi di Gaza, e l’incendio – che al momento in cui scriviamo queste note dura ormai da quattro mesi, e pare destinato a durare ancora indefinitamente – rischia di allargarsi a livello regionale. Già sono entrati in guerra nello Yemen i guerriglieri filo iraniani Houthi che attaccano con missili e droni le navi dirette a Israele; gli americani e gli inglesi hanno trasferito nel Mar Rosso navi da guerra che con raid aerei e con missili attaccano le basi degli Houthi. Francia, Germania ed Italia stanno inviando anch’esse navi da guerra sul Mar Rosso per “proteggere la navigazione” diretta allo stretto di Suez. Nella Cisgiordania occupata dal 1967 la tensione tra palestinesi e gli oltre seicentomila coloni ebrei che da allora vi si sono insediati, protetti dall’esercito d’Israele, minaccia di riaccendere scontri sanguinosi; alla frontiera con il Libano l’esercito israeliano ed i guerriglieri sciiti Hezbollah, anche essi filo iraniani, a tratti si scambiano cannonate. Altri raid aerei stanno facendo gli americani, bombardando presunte basi di guerriglieri in Siria ed in Iraq, che ha avvertito: siamo sull’orlo dell’abisso. E circolano a livello di centri strategici ed ambienti militari euro-americani, rabbrividenti previsioni su una terza guerra mondiale, che potrebbe scoppiare entro la prima metà dell’anno prossimo, di cui il conflitto in Medio Oriente sarebbe un altro “ pezzo” anticipato.

Il fatto è che dopo la guerra d’Ucraina, anch’essa ancora in corso ormai da due anni, si è aperto un nuovo fronte. Questa volta, al di là del genocidio e dell’espulsione da Gaza dei palestinesi, la vera posta in gioco è un’altra, cioè per gli Stati Uniti il controllo del Mediterraneo, divenuto sempre più mare strategico per il commercio mondiale. Per Israele a sua volta la posta in gioco è la costruzione di un nuovo canale tra Mar Rosso e Mediterraneo, da lui gestito e controllato (per delega degli Stati Uniti), nonché il controllo, quanto più ampio possibile, degli enormi giacimenti di gas, e anche di petrolio, in parte già scoperti ed in larga parte ancora da scoprire, nel cosiddetto “Bacino de Levante”. Gaza palestinese rappresenta un ostacolo per questi due obbiettivi. E’ logico pensare che il riaccendersi della guerra e il sempre più evidente tentativo israeliano di radere al suolo la città e costringere i palestinesi ad abbandonare quella striscia di terra siano connessi anche al progetto del nuovo Canale ed allo sfruttamento dei giacimenti di petrolio e gas sia nella Cisgiordania occupata che nella piattaforma marina antistante la striscia di Gaza.

E’ in questo scenario che va collocata la guerra di Gaza. Non è soltanto una guerra tra Israele ed i Palestinesi; è piuttosto una guerra tra Stati Uniti e Nato da un lato ed il resto del mondo dall’altro. Una guerra in cui Israele, o meglio Netanyahu, ha il compito di fare il lavoro sporco, così come l’Ucraina ha il compito di fornire la carne da cannone contro la Russia. Ma prima di esaminare più in dettaglio quel che accade a Gaza, le origini di questa “guerra parallela” a quella di Crimea ed i fini reconditi perseguiti, qualche breve considerazione merita un altro episodio, in sé di poco rilievo, ma di forte importanza invece per il nostro Paese, cioè la rinuncia dell’Italia, ufficializzata il 3 dicembre 2023, a rinnovare con Pechino la sua adesione, alla “Belt and Road Initiative” cinese, la poderosa  nuova via commerciale, articolata in linee marittime e corridoi terrestri, che collegherà la Cina ed il Sud Est asiatico all’Europa ed all’Africa, traversando ed interessando tutti i Paesi intermedi.

 L’uscita dell’Italia dalla Via della Seta

La decisione dal governo Meloni, visto il suo orientamento supinamente atlantista, era già scontata, ma un annuncio ufficiale ancora non c’era stato. L’Italia l’ha fatto maldestramente, quasi alla chetichella, come se volesse attenuarne il significato politico. E così una scelta di potenziale grandissima importanza è stata formalizzata con una semplice lettera del ministro degli esteri Antonio Tajani all’ambasciatore cinese a Roma. Ed a renderla nota non sono stati né il ministro Tajani, né la Presidente Giorgia Meloni, ma uno “scoop” del Corriere della Sera, con un articolo apparso sul giornale il 6 dicembre 2023. Dopo la fuga di notizie, sia al ministro degli esteri che alla presidente del Consiglio, non è rimasto che confermare, e tentare di fornire una qualche motivazione.

Da parte cinese, nessun commento ufficiale alla decisione italiana, e pochi commenti da parte dei media, ma tutti, nella loro realistica brutalità, ben poco lusinghieri per l’Italia. Qualche esempio? Il direttore dell’Istituto di Ricerca sul Mediterraneo dell’Università di Zhejiang, Ma Xiaolin, intervistato dal quotidiano Zhejiang Daily, ha definito “inconsistenti” le dichiarazioni italiane sull’inefficacia dell’accordo.  “L’Italia, ha aggiunto Xiaolin, ha dimostrato di essere, semplicemente, succube di Washington”. Ed il periodico “Knew” ribadisce lo stesso concetto: “Chi si nasconde dietro questa mossa? Washington, naturalmente”. Wang Wenbin, portavoce del ministero degli esteri cinese, ha dichiarato a sua volta che “La Cina si oppone fermamente ai tentativi di infangare e sabotare la cooperazione della Belt and Road o di fomentare il confronto e la divisione tra blocchi”. Non ha mai citato l’Italia, ma a molti sia a Roma che a Washington, debbono esser fischiate le orecchie.

L’attacco a Israele dei guerriglieri di Hamas:  un nuovo 11 settembre?

E veniamo ora all’evento più rilevante esploso in questi ultimi mesi nell’area mediterranea, cioè la nuova violentissima guerra tra Israele ed i palestinesi della striscia di Gaza. Più rilevante perché è di lì che è partita la nuova crisi bellica che sta contagiando tutto il Medio Oriente.

Il 7 ottobre 2023 guerriglieri di Hamas, coadiuvati da altre organizzazioni politico-militari d’analoga ispirazione radical-religiosa (2.500 uomini in tutto, secondo alcune stime), hanno sferrato dalla striscia di Gaza un attacco che, incredibilmente, sembra aver colto di sorpresa sia l’efficientissimo Mossad, cioè il servizio segreto militare di “intelligence” israeliano, che le forze armate d’Israele. L’attacco, secondo Hamas, voleva essere la risposta alla profanazione da parte degli israeliani della moschea di Al Aqsa, all’uccisione in Cisgiordania di centinaia di palestinesi da parte dell’esercito israeliano e dei coloni ebrei, e più generalmente una reazione ai “crimini dell’occupazione” della Palestina da parte d’Israele.

Gli uomini di Hamas e le milizie alleate sono riuscite a penetrare in territorio israeliano via terra, via mare e via cielo. Via terra i guerriglieri palestinesi hanno attraversato la barriera di confine (dotata dei più moderni sistemi elettronici di allarme) con bulldozer, autocarri, camioncini, automobili, motociclette; via mare hanno traforato il blocco navale israeliano che dal 2007 isola la striscia di Gaza dal resto del mondo, usando motoscafi e gommoni e sbarcando tranquillamente nel contiguo territorio israeliano; via cielo alcuni guerriglieri sono atterrati in Israele usando piccoli deltaplani a motore (in pratica dei grandi aquiloni dotati di un motorino), che i modernissimi caccia dell’aviazione israeliana non hanno intercettato né le guardie israeliane di frontiera hanno abbattuto con una semplice scarica di fucilate.

E così i 2.500 guerriglieri nelle prime ore dell’attacco hanno potuto dilagare nel territorio d’Israele: hanno distrutto alcune torri di guardia ed aperto ben cinque falle nel muro della frontiera; hanno sequestrato veicoli militari israeliani, attaccato la stazione di polizia della vicina città di Sderot, conquistate varie  località prossime al confine, preso ostaggi anche ad Ofakim, una città che dista circa 30 chilometri dal confine, attaccato e conquistato due kibbutz, situati anch’essi non lontano dal confine; sono piombati su un “rave”, cioè una sorta di festa tra giovani, con musica e balli che doveva svolgersi in un’altra località, e che, all’ultimo momento, non si sa per quale motivo, è stata trasferita invece in prossimità della frontiera con Gaza. Ed anche lì hanno ucciso e preso ostaggi, con atti e scene di violenza senza freni. E le immagini di quegli orrori, puntualmente riprese da telefonini, hanno fatto il giro del mondo.

Ovviamente, quando Israele ha mosso il suo esercito, dichiarando guerra e richiamando alle armi anche i riservisti, ai 2.500 guerriglieri di Hamas non è rimasto che ritirarsi, trascinando con sé qualche centinaio di ostaggi.

Ma a fronte di questo primo episodio a molti, anche in Israele, è rimasta la sensazione che qualcosa non quadra e che ci troviamo di fronte ad una sorta di secondo 11 settembre, cioè una vicenda apparentemente impossibile che può diventare realtà solo perché sottende inconfessabili misteri, cioè segreti di Stato.

Giornali americani, ed anche israeliani hanno rivelato che l’esercito d’Israele era stato informato dei piani di Hamas, che i militari israeliani dislocati alla frontiera con Gaza, nell’imminenza dell’attacco avevano avvertito ripetutamente i comandi superiori che qualcosa di grosso stava per accadere, ma non erano stati ascoltati, anzi, alla loro insistenza erano stati minacciati d’esser deferiti alla Corte marziale. Semplice sottovalutazione per stupidità, gravissima negligenza, arroganza dei comandi superiori? Riesce difficile crederlo anche a quegli israeliani che si rifiutano di non ragionare e che hanno il coraggio di scrivere quel che pensano. Un esempio è un articolo a firma Amos Harel apparso sul quotidiano “Haaretz”. Dopo aver confermato, ancora una volta, che già prima del 7 ottobre l’esercito israeliano aveva informazioni sul piano d’attacco di Hamas, davanti alla “disconnessione tra le valutazioni sul campo (cioè l’allarme trasmesso ai Comandi superiori dai militari dislocati alla frontiera con Gaza n.d.r.) e le decisioni (di non intervenire n.d.r.) prese invece ai livelli più alti di comando”, l’articolista fa un esplicito paragone con gli attentati negli Stati Uniti dell’11 settembre e con le connesse tesi complottiste, osservando come“le decisioni politiche  possano influenzare le risposte a minacce alla sicurezza” e che “è plausibile che l’11 settembre l’azione sia stata favorita o certe evidenze siano state volutamente ignorate per giustificare la svolta epocale e le decisioni prese con la guerra contro il terrorismo”.

Per quanto riguarda l’attacco di Hamas del 7 ottobre l’articolista sembra propendere per la tesi che si sia trattato non di una cospirazione interna, ma solo di arroganza, stupidità e negligenza criminale. Ma si chiede anche: “E se fosse intenzionale? Itmar Ben Gvir voleva che si verificasse uno scenario del genere, una scusa per sfrattare tutti i palestinesi?”. Amos Harel non lo afferma, ma aggiunge anche: “al momento la mia mente prende in considerazione che Netanyahu ed alcuni alti ufficiali militari abbiano permesso che il 7 ottobre accadesse. Emergono sempre più informazioni su un allarme precoce da parte dello stesso popolo dell’Israel Defence Forces. Non si può capire che i livelli più alti abbiano ignorato tutto ciò. A meno che non sappiamo tutto”. Appunto: di questa vicenda non sappiamo tutto; i segreti di Stato, gli “arcana imperii”, per dirla con Tacito, non sono accessibili ai comuni mortali, anche se vivono in una cosiddetta “democrazia”.

Ma a documentarsi con pazienza, a collegare le tessere di singole notizie mettendole al loro posto, anche i disegni del mosaico, anche gli “arcana imperii” finiscono col venire alla luce, o quantomeno si intravedono le linee che fanno intuire il disegno. Il vero rapporto, per esempio, tra Netanyahu ed Hamas. Sul quotidiano israeliano Haaretz del 9 ottobre 2023, è riportata una dichiarazione del premier israeliano del marzo 2019 alla riunione dei parlamentari del Likud. In quell’occasione Netanyahu disse testualmente: “Chiunque voglia contrastare la creazione di uno Stato palestinese deve sostenere il rafforzamento di Hamas e il trasferimento di denaro ad Hamas… Questo, - aggiunse poi - fa parte della nostra strategia: isolare i palestinesi di Gaza dai palestinesi della Cisgiordania”.

E sul Times of Israel dell’8 ottobre 2023 si poteva leggere: “Hamas è stato trattato come un partner a danno dell’Autorità palestinese per impedire ad Abbas di procedere verso la creazione di uno Stato palestinese. Hamas è stato promosso da gruppo terroristico ad organizzazione con la quale (Netanyahu) ha condotto negoziati tramite l’Egitto e alla quale è stato permesso di ricevere valigie contenenti milioni di dollari dal Qatar attraverso i valichi di Gaza”.

E secondo alcune affermazioni, ovviamente non documentabili, alcuni attacchi attribuiti ad Hamas sarebbero stati architettati e condotti sotto “false flag” dal Mossad, ed all’interno di Hamas vi sarebbe una frazione di intelligence militare che collabora con l’intelligence israeliana e statunitense. Anche sotto questo aspetto il paragone con la relazione degli Stati Uniti con l’Isis, e gli attentati dell’11 settembre e con le successive rigide misure per la lotta contro il terrorismo sembra calzare perfettamente. Noi italiani abbiamo poco da stupirci o da scandalizzarci. Basta pensare agli “arcana imperii” che avvolgono gli “anni di piombo” o l’assassinio di Aldo Moro, o la devastazione politica delle cosiddette “mani pulite”.

 Per i palestinesi a Gaza Il massacro e la diaspora

La reazione israeliana all’attacco di Hamas è di una violenza senza limiti, e appare chiaramente volta ad una “soluzione finale” del problema di Gaza: il controllo cioè di quel territorio, con l’espulsione forzata di tutta la popolazione palestinese. E ciò ignorando imperturbabilmente le denunce di organizzazioni internazionali ed umanitarie, e malgrado lo scandalo e la riprovazione dell’opinione pubblica internazionale, che apprende dalla televisione o legge sui giornali notizie di bombardamenti quotidiani dell’aviazione israeliana, che radono al suolo interi quartieri, esecuzioni sommarie, sparizione di detenuti politici, restrizioni ed ostacoli all’ingresso a Gaza di aiuti umanitari (medicinali e cibo) per la popolazione civile, convogli delle Nazioni Unite o della mezzaluna rossa bombardati dall’aviazione o dai cannoni, raffiche di fucileria contro la popolazione civile, con decine di morti e di feriti. Quanto la striscia di Gaza sia divenuta un inferno indescrivibile lo ha testimoniato, tra gli altri, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, la quale ha scritto che “un mix tossico di malattia, fame, e mancanza d’igiene e di servizi igienici sta aumentando la disperazione della popolazione, e sono almeno 360.000 i casi di malattie infettive registrati tra gli sfollati, e si teme che il numero sia sottostimato e destinato ad aumentare”. Dei due milioni e trecentomila palestinesi che abitavano nella striscia di Gaza, quasi due milioni ormai o hanno la casa distrutta o son dovuti sfollare dai quartieri che l’esercito israeliano dichiara “zona di guerra”. I bombardamenti quotidiani dell’aviazione israeliana hanno fatto ormai quasi trentamila morti, di cui larga parte sono donne, ragazzi, bambini. Un numero che aumenta quotidianamente. Ed anche in seno alla società civile israeliana sono sorte voci di aspra condanna per questo massacro. Se infatti gran parte di quei partiti che sino a ieri accusavano Netanyahu di corruzione e di tentata svolta autoritaria, per il suo disegno di riforma giudiziaria, ora affermano che “in tempi come questi non c’è opposizione”, l’opposizione comincia a riemergere però nella società civile. E qualche voce coraggiosa, pur isolata, viene anche dalla classe politica. Ofer Kassiv, ad esempio, membro della Knesset, a proposito della politica del governo israeliano nei  confronti dei palestinesi, parla apertamente di “pogrom e pulizia etnica”. E l’ex premier israeliano Olmert ribadisce a sua volta: “Netanyahu e i suoi fanatici non vogliono distruggere Hamas, ma cacciare tutti i palestinesi e annettere i territori allo Stato ebraico. Rischiamo la guerra regionale per questi messianici criminali. Dobbiamo fermarli. Vanno anche contro la maggioranza dei cittadini israeliani”. Ma il premier israeliano Netanyahu va avanti per la sua strada, e non sente ragioni. “Chi pensa che ci fermeremo – ha detto -  è scollegato dalla realtà”.

Ancora più esplicite e sconcertanti le dichiarazioni di alcuni dei suoi ministri. Ben Gvir, ministro della sicurezza nazionale, in una conferenza stampa ha osservato che: “La guerra offre un’opportunità per concentrarsi sulla promozione della migrazione degli abitanti di Gaza”, definendo tale politica “una soluzione corretta, giusta, morale ed umana”. E che ne sarà poi di una striscia di Gaza rasa al suolo? Ben Gvir non nasconde quale è il programma d’Israele “Non possiamo ritirarci da nessuna area della striscia di Gaza. Non solo non escludo lì l’insediamento ebraico, ma penso che sia importante”. E Bezalel Smotrich, del partito “sionismo religioso” ministro delle finanze nel governo Netanyahu ha confermato: “Israele prevede che sarà permanente controllore del territorio della striscia di Gaza, anche attraverso la creazione di insediamenti”. “La giusta soluzione al conflitto israeliano - palestinese in corso è quella di incoraggiare la migrazione volontaria degli abitanti di Gaza verso Paesi che accettino di accogliere i rifugiati”. In parole povere: a suon di bombe, distruggendo le loro case, gli ospedali, le strutture civili e massacrando qualche decina di migliaia di persone, Israele vorrebbe costringere i palestinesi di Gaza all’esodo verso campi profughi installati in altri Paesi arabi.

Ma non sono solo alcuni fanatici religiosi “messianici criminali”, per dirla con l’ex premier israeliano Olmert, che accarezzano questi propositi. C’è un documento del ministero israeliano dell’intelligence, pubblicato dal “Local talk”, che in un suo articolo suggerisce apertamente il trasferimento forzato in Egitto di tutti gli abitanti della striscia di Gaza, sorvolando sul fatto che di accogliere quei profughi l’Egitto non ha alcuna intenzione. Ma il quotidiano Jerusalem Post del 25 dicembre 2023 insiste a proporre una tale soluzione, e definisce la penisola del Sinai “un luogo ideale per sviluppare un ampio reinsediamento per la popolazione di Gaza”. E perché l’Egitto accetti si fa intravedere una grossa carota: interventi risolutivi sul debito estero egiziano, che ammonta a ben 165 miliardi di dollari.

Vien da chiedersi: ma come è possibile che uno Stato più piccolo della Lombardia, con neppure dieci milioni di abitanti, di cui due milioni arabi, possa dichiaratamente e impunemente perseguire tali deliranti obbiettivi, rischiando di accendere una più vasta guerra regionale, che potrebbe addirittura contribuire a innescare una terza guerra mondiale? C’è una sola risposta razionale, e ne abbiamo già accennato. Quella per il controllo di Gaza non è tanto un ulteriore passo di Netanyahu per realizzare il sogno di “un grande Israele” dal Giordano al mare, ma è piuttosto la guerra degli Stati Uniti per il controllo del Mediterraneo, essenziale anche per mantenere la “testa di ponte” europea. Un nuovo canale, in alternativa ed in concorrenza con quello di Suez, che colleghi il Mediterraneo con il Mar Rosso e l’Oceano Indiano, è tornato ad essere un possibile elemento centrale per raggiungere tali obbiettivi. La striscia palestinese di Gaza rappresenta un fastidioso ostacolo alla realizzazione ottimale di un tale progetto. Dunque, va eliminata, e il lavoro sporco lo sta facendo Israele.

E poi c’è la questione dei grandi giacimenti di gas e di petrolio del Mediterraneo Orientale, che ha il suo peso. Perché, come già accennato, chi controlla quei giacimenti ha in mano un tesoro, e in prospettiva avrà un peso rilevante nell’approvvigionamento energetico dell’Europa.

 Gli enormi giacimenti di gas del Mediterraneo Orientale

 Il cosiddetto “Bacino del Levante” è (per ora) un’area marina di 83.000 chilometri quadrati che riguarda le acque territoriali e di sfruttamento economico esclusivo di Gaza, d’Israele, del Libano, della Siria, di Cipro, e su parte delle quali avanza rivendicazioni anche la Turchia, nonché i giacimenti petroliferi scoperti e da scoprire in terra di Cisgiordania. Il Dipartimento degli interni degli Stati Uniti, in una valutazione delle riserve probabili,  del “Bacino del Levante” ha scritto: “Abbiamo stimato una media di 1,7 miliardi di barili di petrolio recuperabile, e di 122 trilioni (cioè 122 mila miliardi) di piedi cubi di gas recuperabile, utilizzando una tecnologia basata sulla geologia”. E questo potrebbe essere solo un inizio. Una cosa è evidente: da un lato il Mediterraneo sta diventando sempre più strategico nel commercio mondiale, quale terminale naturale dei traffici tra Asia ed Europa, e tra Asia ed una parte dell’Africa. Un buon 20% del commercio mondiale già transita nel Mediterraneo, e la quota è destinata inevitabilmente a salire; dall’altro il Mediterraneo si sta rivelando un nuovo Eldorado per giacimenti di gas.

Chi controlla il Mediterraneo, ed in particolare il suo collegamento con il Mar Rosso e con l’Oceano Indiano, controlla la via di transito di una quota rilevante e crescente del commercio mondiale. Ed inoltre già ora chi controlla gli enormi giacimenti di gas del Mediterraneo Orientale, ha in prospettiva un potere determinante sugli approvvigionamenti energetici dell’Europa.

Ma vediamo brevemente la storia, assai significativa, di queste scoperte e dei loro sviluppi. Essa inizia circa 25 anni fa, quando l’Autorità Nazionale Palestinese concesse a British Gas Group e Consalidates Contractors, compagnia privata palestinese (rispettivamente 60% e 30% delle quote e 10% al Fondo Investimenti dell’Autorità palestinese) i permessi di esplorazione nell’area marina antistante la striscia di Gaza. Già coi primi due pozzi perforati, ad appena 19 miglia [circa 30 Km.] dalla costa) fu scoperto un giacimento di gas, che subito apparve di dimensioni enormi. “Un dono di Dio che fornirà solide basi alla nostra economia”, commentò giubilante Yasser Arafat, allora presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese. In effetti quel giacimento è ora stimato il terzo più grande del Mediterraneo, con riserve pari a circa 35 miliardi di metri cubi di gas. Ma il popolo palestinese non ne ha ancora ricavato neppure un dollaro. Subito cominciò infatti una contesa con Israele, che da un lato affermava che parte del giacimento è in acque israeliane, dall’altro, non avendo ancora risorse di gas proprie, chiedeva che una parte di quello estratto a Gaza gli fosse ceduto a prezzi di favore. Di fatto l’estrazione di gas fu bloccata. Nel 2004 muore Arafat, forse avvelenato col plutonio, e gli succede Mahmut Abbas, che accetta un patto leonino con Israele mediato dall’ex premier inglese Tony Blair. Ma a Gaza Hamas vince le elezioni, prende nel 2007 il controllo della striscia, e rigetta quell’accordo. L’allora ministro della difesa israeliano Moshe Ya’alon sentenzia: “Il gas non può essere estratto senza un’operazione militare che sradichi il controllo di Hamas a Gaza”. Ed Israele, con l’operazione “piombo fuso”, nel 2008 invade Gaza, e pone di fatto il giacimento sotto il proprio controllo. Gaza è diventa da quell’anno una prigione a cielo aperto, controllata in terra ed in mare da Israele. E l’estrazione di gas è bloccata a tempo indeterminato.

L’Autorità Nazionale Palestinese nel 2012 riprese i negoziati con Israele, per tentare di sbloccare la situazione, ma Hamas si opponeva, ed anche Israele finì coll’interrompere la trattativa. Nel 2014 c’è un altro episodio significativo: nasce a giugno il governo d’unità nazionale palestinese, e l’Autorità Nazionale Palestinese affida alla russa Gazprom lo sfruttamento di Gaza Marine e di un giacimento di petrolio in Cisgiordania. A questo punto c’è un nuovo attacco israeliano, col tacito assenso degli Stati Uniti che cominciano a temere che la Russia punti a mettere le mani sui grandi giacimenti del Mediterraneo Orientale: già nel 2013 la Siria aveva firmato un accordo venticinquennale con la Russia per esplorare oltre 2.000 chilometri quadrati al largo della sua costa. I russi avrebbero sostenuto il costo dell’operazione, recuperando il finanziamento se avessero trovato il gas o il petrolio. Il Libano a sua volta contestando già dal 2010 la mappa israeliana dei confini marittimi di sfruttamento esclusivo, aveva presentato una propria mappa all’ONU e intendeva concedere licenze di esplorazione in zone che Israele considera sue.

Insomma: come aveva detto Arafat, Allah aveva dato un gran dono ai palestinesi, ma dopo un quarto di secolo essi non sono ancora riusciti ad incassarlo. Cinque anni fa le Nazioni Unite stimavano la perdita da essi subita in vari miliardi di dollari. Un Rapporto dell’Unctad su commercio e sviluppo afferma infatti testualmente: “geologi ed economisti delle risorse naturali hanno confermato che il territorio palestinese si trova al disopra di considerevoli riserve di petrolio e di gas naturale nell’area C della Cisgiordania occupata e sulla costa mediterranea al largo di Gaza. Ma l’occupazione continua ad impedirne lo sfruttamento. Ai palestinesi sono stati negati i benefici derivanti dall’utilizzo di queste risorse naturali per finanziare lo sviluppo e soddisfare il proprio bisogno d’energia. La perdita sinora stimata è di vari miliardi di dollari. Un danno che cresce ogni anno col perdurare dell’occupazione”.

Da allora ben poco è cambiato. Sempre nel 2019 nasce l’East Med Forum: un tentativo di collaborazione tra Egitto, Grecia Italia e Cipro, cui partecipa l’Autorità Palestinese, di sbloccare la situazione nella prospettiva di un export del gas verso l’Europa. Ma nel 2021 un nuovo scontro fra l’esercito israeliano ed Hamas stoppa tutto di nuovo. A giugno 2023 sembrava finalmente si fosse giunti ad un accordo. Israele infatti annunciava che “nel quadro degli sforzi tra Israele, Egitto, ed Autorità Palestinese e per il mantenimento della sicurezza e stabilità della regione, è stato deciso di sviluppare il giacimento di gas marino di Gaza”. E invece a ottobre di quell’anno si è sviluppata la guerra.

C’è da aggiungere, a conferma di quanto il Bacino del Levante sia promettente quanto a riserve di idrocarburi, che nello stesso anno in cui è stato scoperto il giacimento di Gaza, al largo delle coste d’Israele è stato scoperto il giacimento di Tamar, con una capacità stimata di 300 miliardi di piedi cubi ed un anno dopo il giacimento di gas di Leviathan, valutato 600 miliardi di piedi cubi, che è considerato il più grande del Mediterraneo. Secondo i palestinesi peraltro una parte di quei giacimenti sarebbero su acque della Palestina. Inoltre Israele ha concesso a varie società petrolifere, tra cui l’Eni, dodici licenze di esplorazione per la ricerca di gas al largo delle sue coste.                                                                                                              

Il Canale Ben Gurion ed il controllo americano sul Mediterraneo

Per comprendere come la guerra di Gaza vada ben al di là di uno scontro tra Israele ed i Palestinesi, occorre ora esaminare più in dettaglio la questione del cosiddetto “Canale Ben Gurion”. Un vecchio progetto segreto americano che all’improvviso è tornato alla ribalta. Esso merita un esame approfondito, perché ha implicazioni economiche e strategiche di enorme impatto sull’area mediorientale, sul ruolo d’Israele, sulla funzione strategica e geopolitica del Mediterraneo, ed infine anche sui possibili rapporti futuri tra l’India e l’area euro - atlantica e sulla collocazione strategica dell’Arabia Saudita.

Un’idea antica, quella di un Canale alternativo a Suez. Quando la potenza talassocratica egemone era l’Inghilterra, ed era stata la Francia invece a prendere in mano il progetto del Canale di Suez, ideato dall’ingegnere italiano Luigi Negrelli, allora cittadino del trentino austriaco, era stato un ufficiale della Marina inglese, tale William Allen, attorno al 1850, ad avanzare l’ipotesi alternativa di un canale che congiungesse il Mar Rosso, il Mar Morto ed il Mediterraneo. Ma essa restò, appunto, solo una ipotesi: il Canale di Suez fu inaugurato nel 1869, dalla società francese Compagnie Universelle du Canal Maritime de Suez, creata da Ferdinand de Lesseps, nella quale i francesi avevano la maggioranza assoluta (51%), frazionata però tra numerosi soci privati. Ma già sette anni dopo l’inaugurazione, nel 1876, l’Inghilterra entrò nel gruppo di controllo,approfittando di una gravissima crisi finanziaria dell’Egitto per comprare gran parte delle azioni egiziane; cinque anni dopo, assunto di fatto il controllo dell’intero Egitto, comprò la residua quota di azioni egiziane, salendo al 49%. E così Inghilterra e Francia amministrarono assieme il traffico sul Canale (e i relativi introiti) per 80 anni , cioè fino al 1956, quando il leader egiziano Gamal Abdel Nasser lo nazionalizzò.

Invano Inghilterra e Francia nell’ottobre di quello stesso anno tentarono di reagire, mandando prima avanti Israele che invase la striscia di Gaza e la penisola del Sinai, e intervenendo poi militarmente anch’essi, occupando di nuovo Suez. Nasser aveva già risposto all’invasione affondando tutte le 40 navi che stavano attraversando il Canale, che rimase così ostruito sino all’inizio del 1957. Ma la disputa si era allargata pericolosamente: intervenne la Russia a sostegno di Nasser, minacciando di usare “tutti i tipi di moderne armi di distruzione di massa”, cioè anche bombe atomiche. A questo punto intervennero nella contesa gli Stati Uniti, che costrinsero Inghilterra, Francia e Israele a ritirarsi. E quella umiliazione delle ultime due “potenze” europee sancisce, per molti storici, l’avvio della fine del colonialismo europeo e l’inizio nel mondo del nuovo equilibrio bipolare di Stati Uniti ed Unione Sovietica. Ed inizia anche, dopo quasi un secolo di tranquilla gestione anglo-francese del Canale, il periodo in cui il passaggio delle navi dal Mediterraneo al Mar Rosso attraverso Suez subisce interruzioni, o non è più tanto tranquillo, come accade ai giorni nostri. Una prima interruzione è stata appunto quella del 1956-57; una seconda, ben più lunga, dal 1967 al 1975, si ebbe a seguito della guerra “dei sei giorni”, quando cioè con un attacco a sorpresa, distruggendo a terra l’intera aviazione egiziana, avendo così l’intero controllo aereo, Israele in sei giorni occupò Gerusalemme, le alture siriane del Golan, la Cisgiordania, Gaza (allora egiziana), la penisola del Sinai e, appunto, la riva orientale del Canale di Suez. E per impedire agli israeliani di utilizzarlo, l’Egitto operò un blocco della navigazione che si protrasse per otto anni. Ma già prima ancora della nuova crisi di Suez, in gran segreto gli Stati Uniti, riallacciandosi ad una vecchia idea israeliana, cominciarono a pensare al progetto di un nuovo Canale, in alternativa a quello di Suez, che era ormai in mano all’Egitto di Nasser. Un Paese che aveva il sostegno dell’Unione Sovietica.

Il progetto segretato del Lawrence Livermore National Laboratory

Abbiamo accennato ad alcune vecchie idee per un secondo Canale alternativo a Suez. Secondo l’Istituto israeliano “Arava”, per gli Studi sull’Ambiente, che ha redatto uno studio sulla vicenda, l’idea dell’ufficiale della Marina inglese della metà del 1800 era stata accarezzata  poi dal futuro “padre d’Israele” Ben Gurion, che la espose nel 1935, ed era stata ripresa nel 1947, ancor prima dunque della nascita dello Stato d’Israele, da Chaim Weizman, fondatore del partito sionista democratico e primo presidente dello Stato ebraico. Ma è dopo la crisi di Suez del 1956 che essa divenne più concreta, con un progetto di realizzazione segretamente promosso ed elaborato negli Stati Uniti d’America. A farsene carico, a seguito di un contratto col Dipartimento per l’Energia, fu il Lawerence Livermore National Laboratory, un Istituto di ricerca californiano, formalmente non pubblico, connesso con la Berkeley University, ma strettamente legato alle Istituzioni pubbliche statunitensi, che esiste ancora e da dicembre del 2023 ha annunciato d’aver raggiunto importanti progressi nel campo della fusione nucleare. Ma il campo d’interesse e d’azione di questo “Laboratorio” è in realtà molto più vasto. Come si apprende dal suo sito internet, esso infatti “fornisce capacità e soluzioni innovative per arginare la proliferazione di armi di distruzione di massa nucleari, chimiche, biologiche, per soddisfare la missione di sicurezza nazionale” (degli Stati Uniti, ovviamente) applicando “scienza e tecnologia all’avanguardia per raggiungere progressi nella deterrenza nucleare, nell’antiterrorismo, nella non proliferazione, nell’intelligence e nella sicurezza energetica nucleare”, avvalendosi di “alcuni dei supercomputer più potenti al mondo”, con i quali esegue simulazioni complesse, nonché “del sistema laser più grande e ad alta energia nel mondo per studi sulla fusione nucleare”. Inoltre “seleziona il Centro Agenti”. Che tipo di “agenti” non è esplicitato.

Il Lawrence Livermore National Laboratory è articolato in una serie di strutture, alcune riservate al personale interno, altre aperte a collaborazioni esterne. E appunto tra queste ultime esiste ancora una struttura che si occupa delle “applicazioni civili di esplosivi elevati”, pudico eufemismo che evidentemente riguarda gli esplosivi nucleari. Il progetto per la costruzione di un Canale alternativo a quello di Suez, come vedremo, prevedeva appunto l’uso di ben 520 bombe nucleari, ed a redigerlo è stato un giovanissimo ebreo americano, Howard David Maccabee, che all’epoca non aveva ancora 25 anni. Persona indubbiamente di talento, ed anche ricca di qualità umane, questo professor Maccabee. Nato nel 1940 a Springfields, nell’Illinois, da una  famiglia ebreo-americana, a ventun’anni si era laureato in ingegneria civile alla Purdue University di Lafayette (Indiana). Ma continuando la sua formazione post laurea, si trasferì all’Università di Berkeley, in California, ove nel 1964 conseguì un master in ingegneria nucleare e due anni dopo un dottorato in biofisica nucleare. Durante il master, tra i suoi professori c’era un altro famoso ebreo ungherese, naturalizzato americano, il prof. Edward Teller, che divenne poi famoso come “padre della bomba all’idrogeno”. Come abbiamo già visto, il Dipartimento per l’Energia degli Stati Uniti aveva affidato il compito di elaborare il progetto per la costruzione di un Canale alternativo a quello di Suez al Lawrence Livermore National Laboratory, e quest’ultimo affidò l’incarico a due collaboratori esterni, cioè il prof. Edward Teller, che si fece affiancare dal suo giovane allievo (e correligionario ebreo) Howard David Maccabee. Poi, non si sa per quale motivo, come autore di quel progetto figura solo Maccabee. Con un particolare curioso. E’ vero, come ricorda il necrologio apparso sul San Francisco Chronicle che Maccabee amava farsi chiamare dagli amici Mac, ma il suo nome, che pare sventolare una bandiera d’ebraismo (Maccabeo era il nome di battaglia di un leader dell’insurrezione ebraica contro un re seleucide, e i “Libri dei Maccabei” sono cinque testi sacri ebraici) nel documento del progetto per il nuovo Canale depositato al Dipartimento per l’Energia diventa Mac Cabee, e pare diventato scozzese.

Dopo quell’esperienza in materia di uso civile delle bombe atomiche, Howard David Maccabee peraltro cambiò radicalmente i suoi interessi e la sua vita. Cominciò a studiare l’effetto delle particelle subatomiche sui tessuti umani e si dedicò per tutto il resto della vita alla radioterapia oncologica. Ma, come sottolinea il suo necrologio apparso sul San Francisco Chronicle nel 2015 “è stato un sostenitore eminente del giudaismo, di Israele e delle organizzazioni ebraiche e delle cause ebraiche”. Quanto invece al suo maestro e mentore Edward Teller, nel 1991 fu insignito, per burla, del Nobel per la pace, quale primo sostenitore delle guerre stellari, e si dice  che nella cinematografia abbia ispirato vari personaggi, tra cui quello del dottor Stranamore.

Una cosa è certa: il progetto per un nuovo Canale, alternativo a quello di Suez, è nato negli Stati Uniti, per esigenze ed interessi strategici degli americani, ma sin dalla nascita è innervato di presenze ebraiche. Come è noto esso venne segretato, ma non tanto, visto che il Corriere della Sera del 27 dicembre 1966 recava un articolo dal titolo “Entusiasma Israele il progetto del secondo Canale di Suez” a firma di R.A Segre.

R.A. Segre va ricordato, perché anche lui è stato un personaggio del tutto eccezionale, dai molti volti: saggista e scrittore, diplomatico israeliano,  analista politico, accademico docente in varie università italiane e straniere, e soprattutto giornalista, collaboratore con vari pseudonimi di quotidiani italiani, israeliani, francesi, americani, britannici: su “Le Figarò” era René Bauduc, sul “Corriere della Sera” era R.A. Segre: su “La Nazione” di Firenze era Giorgio Sorgi; insegnò in Inghilterra ad Oxford, negli Stati Uniti al Mit di Boston, in Italia alla Bocconi, alle Università Statali di Milano e Torino. Nato in Piemonte, dopo le leggi razziali emigra in Palestina. Torna in Italia durante la seconda guerra mondiale, volontario nella Brigata ebraica, ma nel 1948 è di nuovo in Palestina, dove addestra un reparto di paracadutisti, poi entra in diplomazia, attaché all’ambasciata israeliana a Parigi, ma la sua attività principale, torna poi ad essere il giornalismo. Nel 1974 esce dal “Corriere della Sera”, assieme ad Indro Montanelli, ed è tra i fondatori e finanziatori del “Giornale”, cui collabora sino all’ultimo giorno.

E’ naturale pensare che un personaggio così multiforme ed avventuroso abbia avuto anche contatti coi vertici d’Israele o con l’intelligence israeliana. E che quindi lo “scoop” sul progetto di un Canale alternativo a quello di Suez sia nato da una soffiata del Mossad, o direttamente da qualche esponente del governo d’Israele, che voleva rinfocolare l’interesse internazionale dell’iniziativa, la quale oltreché segretata era ferma.

A bloccarla era stata la Cia, il cui direttore aveva messo in allarme i vertici politici statunitensi osservando che, a suo giudizio, mescolare il problema palestinese con quello del Canale avrebbe complicato ulteriormente entrambe le questioni. E così il progetto rimase, apparentemente dimenticato, chiuso in qualche cassetto, o in qualche faldone, finché nella generale indifferenza venne desegretato nel 1993.

 Cosa prevedeva il progetto americano del Canale

Ma vediamo brevemente in cosa consisteva quel documento. In realtà si tratta di un memorandum di sei paginette, con l’abbozzo, a grandi linee, del progetto di un nuovo Canale, e l’indicazione del possibile tracciato. Esso partiva dal golfo di Aqaba, sul Mar Rosso, e puntava a Nord, parallelo quasi al confine tra Israele e Giordania, lungo la valle del Wadi Araba, tra i monti del deserto del Negev. Poi, prima di arrivare al Mar Morto, puntava a ovest, quindi di nuovo a nord per aggirare la striscia di Gaza, e sboccava nel Mediterraneo. La particolarità era che prevedeva l’uso di 520 bombe atomiche per creare il fossato attraverso i monti, perché l’uso di mezzi tradizionali sarebbe stato economicamente insostenibile, e che la roccia del fondo e delle sponde avrebbe impedito gli insabbiamenti, di cui invece soffre il Canale di Suez. L’uso dell’esplosivo atomico inoltre avrebbe permesso di creare un canale più largo e più profondo di quello di Suez, consentendo il transito nei due sensi alle grandi navi. Si ipotizzava inoltre la costruzione di una deviazione fino al Mar Morto (il cui livello è 430 metri più in basso) sfruttando così l’enorme dislivello per produrre energia elettrica.

Abbiamo detto che il progetto americano, bloccato dalla Cia, dormì per oltre trent’anni, e sembrava definitivamente abbandonato. Ma in realtà non è così. Israele ha continuato a pensarci, e nello scenario geopolitico attuale esso è tornato di estrema attualità. Già nel marzo del 2015 un articolo del Jerusalem Post vi ritornava, sottolineando anche la possibilità, grazie ad esso, di riempire nuovamente il Mar Morto, e di usare l’acqua desalinizzata per nuovi insediamenti e coltivazioni nel deserto del Negev. E aggiungeva inoltre l’idea di una linea ferroviaria veloce che partendo dal Mar Rosso, cioè da Eilat, arrivasse sino a Be’er Sheba, la più importante città del Negev, a 41 chilometri da Gaza. Idea, quest’ultima, che – come ricorda un articolo apparso su Haaretz nel gennaio 2023 - era stata promossa da Netanyahu già vent’anni prima, ma il progetto era stato cancellato da Olmert quando era a capo del governo israeliano, perché giudicato economicamente insostenibile. La costruzione di questa linea ferroviaria veloce, “Med-Red”, che dovrebbe quindi, una volta completata, collegare il Mediterraneo al Mar Rosso, con treni che viaggino sino a 300 chilometri all’ora, dopo un accordo con la Cina, è stata ripresa nel 2012, ma è ferma dal 2021 per esaurimento dei fondi. Lo studio menzionato dell’Arava Institute tornava anche sull’idea di costruire condotte idroelettriche, questa volta direttamente dal Mediterraneo al Mar Morto, e osservava che l’opzione ottimale sarebbe stata quella più meridionale, partendo cioè dalla striscia di Gaza. Ma ammetteva che “Israele non metterebbe mai sotto il controllo di Hamas una risorsa importante come una condotta idrica”.

Il grande progetto d’Israeleper il  Canale Ben Gurion

Abbiamo visto come il progetto di un nuovo Canale elaborato negli Stati Uniti fosse in realtà poco più di un abbozzo, con l’indicazione del possibile tracciato. Ben altra cosa è il progetto che, gradualmente, ha ipotizzato Israele. Abbiamo accennato allo sfruttamento con centrali idroelettriche del dislivello tra Mare Mediterraneo e Mar Morto, degli impianti di dissalazione per rendere coltivabile parte del deserto del Neghev e crearvi nuovi insediamenti. Ma ora si parla anche di piccole città che dovrebbero sorgere lungo il suo percorso, e soprattutto di avveniristiche strutture di sicurezza e di controllo: si va da dispositivi di monitoraggio e controllo disposti sul fondale ad una vera e propria barriera tecnologica che le navi dovranno attraversare, in grado di evidenziare eventuale presenza di armi, fotografando le navi con un raggio laser e si sottolinea che Israele, in quanto “superpotenza della scienza e dell’ingegneria” è pienamente in grado di portare avanti questo complesso progetto infrastrutturale, traendone grandi benefici, sia sul piano economico (si calcola che all’inizio frutterebbe circa sei miliardi di dollari all’anno) che, soprattutto, su quello strategico. Grazie ad esso infatti Israele non sarà più sottoposta al ricatto della chiusura del Canale di Suez, ed inoltre le navi della Marina militare degli Stati Uniti disporranno di una via controllata e sicura per passare dall’Oceano Indiano al Mediterraneo, anche per proteggere Israele, se necessario. Ma, si sottolinea anche che “Dal punto di vista strategico la pacificazione di Gaza è fondamentale affinché il Canale raggiunga il suo potenziale. C’è un calcolo economico e strategico più profondo in gioco, di cui la comunità globale deve rendersi conto. La maggior parte dei progetti del Canale prevede una pronunciata deviazione verso Nord. Ma prendere il controllo di Gaza consentirebbe un percorso più diretto, senza le tortuose deviazioni, riducendo drasticamente la durata del transito, e portando potenzialmente ad un risparmio di miliardi. Inoltre un Canale più vicino al confine egiziano, o che lo attraversi, offrirebbe vantaggi militari senza pari, fortificando le difese di Israele e fornendo un cuscinetto contro potenziali minacce da Sud”.

L’annuncio

dell’inizio dei lavori

Il 2 aprile 2021, con Netanyahu ancora al governo, Israele annunciò che i lavori per il Canale tra il Mar Rosso ed il Mediterraneo sarebbero iniziati entro giugno di quell’anno. Un annuncio che arrivava con grande tempismo. Il mese prima infatti nel Canale di Suez si era arenata la gigantesca nave portacontainer “Eversive”, ed il Canale era rimasto bloccato per una settimana. C’è anche una versione complottistica di questa vicenda: un blogger siriano, che si nasconde dietro lo pseudonimo di Naram Sargon, sostenne che l’incidente era stato intenzionale, per evidenziare agli occhi della comunità internazionale la pressante esigenza di un altro Canale. Una versione estesa di quell’articolo del misterioso Naram Sargon fu immediatamente ripresa il giorno successivo da un sito web australiano in lingua araba, ove si precisava che Israele intendeva costruire un Canale a due corsie, e lo avrebbe chiamato “Ben Gurion”. “Fantasie di Sargon”, e “teoria del complotto”, fu la risposta  di cui si fece carico un ricercatore  del Consiglio per gli Affari Ebraici Australia - Israele, il quale ammetteva sì che di Canali alternativi a quello di Suez si discuteva da tempo, compresi quelli attraverso Israele, ma che il progetto descritto dal sedicente Sargon era inesistente.

Fu smentito, come abbiamo visto, qualche settimana dopo, dallo stesso governo d’Israele, il quale annunciò che i lavori per la costruzione del Canale Ben Gurion sarebbero iniziati entro due mesi, precisando che il Canale sarebbe stato lungo 293 chilometri (cento chilometri più di quello di Suez), avrebbe avuto due corsie, in modo che anche le grandissime navi potessero transitarvi contemporaneamente nei due sensi,  Ogni canale infatti avrebbe avuto una profondità di circa 50 metri e una larghezza di circa 200 metri (nell’un caso e nell’altro circa il doppio di quelle di Suez), che il costo avrebbe raggiunto nell’ipotesi massima 55 miliardi di dollari, e che Israele pensava di ricavarne circa 6 miliardi di dollari all’anno. Ma prima dell’inizio dei lavori, cadde il governo Netanyahu, il 13 giugno 2021, e tutto restò sospeso.

Il 22 settembre 2023, all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, Netanyahu, di nuovo al governo, nel suo intervento tornava però su quel tema: “Due settimane fa – sottolineò - abbiamo avuto un’altra benedizione: alla Conferenza G20 il presidente Biden, il primo ministro indiano Modi ed i leader europei ed arabi hanno annunciato piani per un corridoio avveniristico che attraversando la penisola araba ed Israele connetterà l’India all’Europa con linee marittime, ferroviarie, oleodotti e cavi a fibra ottica. Questo corridoio bypasserà i controlli marittimi (cioè lo stretto di Hormuz, di fronte alle coste dell’Iran, quello di Bab El Mandeb, sotto il tiro dei guerriglieri Houthi ed il Canale di Suez n.d.r.) e renderà meno costosi i trasporti di merci e di energia per oltre due miliardi di persone”.

Netanyahu ha mostrato quindi un disegno di questa progettata grande linea di commerci, cioè l’IMEC (India - Middle East- Europe Economic Corridor), che nella sua parte orientale collegherebbe l’India agli Emirati Arabi, e nella sua parte nord-occidentale gli Emirati al Mediterraneo, attraversando l’Arabia Saudita dal Sud al Nord, sboccando quindi nel Mediterraneo ad Haifa, attraverso la Giordania ed Israele. Nella cartina del Nuovo Medio Oriente mostrata da Netanyahu non c’è traccia della Palestina. (Il disegno e le parole di Netanyahu sono consultabili su youtube.com/watch?v=Atag74u01AM). Non c’è neppure il Canale Ben Gurion, ma è evidente che esso, una volta realizzato, sarebbe una seconda potenziale via di transito marittima dall’India all’Europa, che avrebbe sempre Israele come sbocco finale sul Mediterraneo. Con la costruzione del Canale Ben Gurion Israele oltreché ad aumentare la propria sicurezza, allargare i propri confini, e rafforzare il suo status di potenza regionale in Medio Oriente, aspira ad un ruolo centrale di snodo e di controllo del commercio mondiale (“Vedete come Israele è situato tra Africa, Asia ed Europa?”, ha fatto notare Netanyahu nel mostrare la sua cartina). Un interesse, quello israeliano, che coincide perfettamente con quello degli Stati Uniti, che con il corridoio IMEC mirano ad avere per le proprie navi una via sicura di rapido passaggio dall’Oceano Pacifico e dall’Indiano al Mediterraneo, ed a creare un’alternativa sia alla Via della seta cinese (riportando anche all’ovile occidentale le pecorelle dell’India e dell’Arabia Saudita, che ne sono uscite, per pascolare nel campo dei BRICS) sia al Corridoio Nord-Sud che collega Russia ed India.

L’enclave palestinese di Gaza ostacola questi disegni, che comunque non sarà facile realizzare. Annientare Hamas, obbligare i palestinesi di Gaza all’esodo, sostituirli con insediamenti di coloni ebrei, o comunque occupare, anche per mezzo secolo, Gaza, finché non sia “normalizzata”, come ha detto in un’intervista su “La Stampa” del 6 febbraio 2024 il colonnello Gabi Siboni, che coordina a Gaza tutte le operazioni militari israeliane, si sta dimostrando impresa molto ardua. E quanto all’IMEC, esso per ora è solo un disegnino su una carta. L’India non può rinunciare al gas ed al petrolio a basso costo che gli fornisce ora la Russia, visto che l’Europa non lo vuole più (e masochisticamente compra, a un prezzo enormemente più alto, il gas dagli Stati Uniti). L’Arabia Saudita a sua volta ha appena raggiunto uno storico accordo con l’Iran, nemicissimo degli Stati Uniti, grazie alla mediazione della Cina, che è tra i maggiori investitori nella modernizzazione ed espansione della rete ferroviaria saudita. Anche gli Emirati Arabi hanno ormai enormi interessi economici con la Cina. Ed a proposito di investitori resta aperta una domanda. La Via della Seta la finanzia la Cina, o comunque ne anticipa i finanziamenti, ma le fantasmagoriche strutture previste per il Corridoio India-Europa, chi le dovrà finanziare?

Conclusioni

 

Mettendo insieme solo le tessere di questo mosaico che abbiamo esaminato, a pensar male ci sarebbe da dedurne che Netanyahu, in grande difficoltà in Israele per le accuse di corruzione, e di aver tentato una involuzione autoritaria con la sua riforma giudiziaria, abbia giocato la carta della guerra, che obbliga tutte le forze politiche a silenziare le divergenze, nell’interesse supremo del Paese. Da vincitore poi, con una immagine aureolata dalla vittoria, attaccarlo sarebbe divenuto molto più difficile. Per giungere alla guerra, aveva bisogno però di una forte giustificazione: qualcosa che scuotesse profondamente l’opinione pubblica, non solo israeliana, e desse alla guerra l’immagine di una giusta, legittima difesa. E qui entra in gioco Hamas.

Che Netanyahu abbia chiuso un occhio sulle valigie di dollari che arrivavano a Gaza, lo ha ammesso lui stesso, perché la sua strategia era quella di usare Hamas per delegittimare l’Autorità palestinese, mettere i palestinesi di Gaza contro quelli della Cisgiordania, ed impedire così la nascita di uno Stato Palestinese. Ed è immaginabile che non si sia limitato a chiudere un occhio, ma che con Hamas abbia avuto contatti diretti segreti, anche finanziari, e che un ramo di intelligence di Hamas avesse contatti con il Mossad.

Una cosa ormai è accertata: da tempo Israele era a conoscenza dell’attacco che Hamas avrebbe scatenato. Ma non ha mosso un dito, nemmeno davanti agli insistenti avvertimenti che giungevano dai soldati schierati alla frontiera. Ha dato così l’idea di essersi fatta cogliere di sorpresa. Riesce difficile pensare che tutto ciò non sia stato intenzionale. Dunque: Netanyahu voleva quell’attacco, e lo voleva quanto più feroce e disumano possibile. Per aver l’alibi poi per una reazione così violenta da portare alla distruzione di Gaza ed alla diaspora dei palestinesi da quella striscia di terra.

Poi c’è la questione del Canale Ben Gurion e quella dei giacimenti di gas e petrolio del Bacino Mediorientale. E l’enorme interesse strategico che avrebbe per Israele, ma ancor più per gli Stati Uniti, la costruzione di un Canale alternativo a quello di Suez, sicuro, ben protetto, saldamente in mano all’Occidente. Si spiegherebbe così perché, davanti al massacro dei palestinesi, l’Occidente, cioè gli Stati Uniti, non muovono un dito. A parole continuano ad auspicare la nascita di due Stati, quello palestinese accanto a quello d’Israele, e a volte sembrano bacchettare Netanyahu per la violenza della sua reazione, ma intanto gli inviano migliaia di bombe di potenza dirompente che radono al suolo Gaza.

Tutte queste, naturalmente, sono illazioni, collegando i fatti, a voler pensar male. Ma inesorabilmente, a questo punto, vengono alla memoria la bocca sottile, gli occhi semichiusi da cui uscivano lampi d’ironia dissolvente, la voce mai gridata, ma poco più che sussurrata, insomma il volto di Giulio Andreotti, “il divo Giulio”, o anche “Belzebù”, che tante ne ha viste ed ancor più ne ha fatte, il quale ci mormora: “A pensar male si fa peccato, ma ci si azzecca”.