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La scoperta del nulla e il senso della vita

di Marcello Veneziani - 16/07/2020

La scoperta del nulla e il senso della vita

Fonte: Marcello Veneziani

Duecento anni fa, proprio di luglio, nasceva un grande filosofo, anche se già celebre come poeta. E con lui nasceva il nichilismo, la scoperta del Nulla. Il giovane fu massimo nel pensiero come nella poesia. Dico di Giacomo Leopardi. Nello Zibaldone dei primi di luglio del 1820 è lo stesso Leopardi ad annunciare la nascita del filosofo dal grembo del poeta, dopo nove mesi di gravidanza nella cecità infelice: la poesia, scrive, si addice agli antichi e ai fanciulli, o i giovanetti, mentre i moderni e gli adulti sono filosofi. “Perduta la fantasia divenni insensibile alla natura, e tutto dedito alla ragione e al vero, in somma filosofo”. Il neonato filosofo aveva ventidue anni e alle spalle già grandi poesie: basterebbe citare solo l’Infinito per rendersi conto.

Ma Leopardi è anche filologo è dicendo ‘moderni’ sa di riferirsi a ciò che è del momento, or ora, e in un suo famoso dialogo la Moda è apparentata alla Morte. Perché la moda, come il moderno che ne deriva, perde il respiro dell’eterno, si situa sull’orlo provvisorio del presente e si affaccia con la sua caducità sul nero orizzonte del Nulla. Modernità è disillusione, disincanto, coscienza del Nulla. Il filosofo Leopardi si confronta col Nulla e può dirsi il fondatore di un pensiero che dopo troverà il suo nome: Nichilismo. Leopardi scopre il nulla, almeno nella modernità. A rinsaldare la sua opera di pensatore con quella di poeta, diremo che Leopardi è un nichilista lirico; il primo ad addentrarsi nelle voragini del nulla è lui. Prima di Nietzsche, di Turgenev e Dostoevskij. Al Nulla in verità si era accostato Schopenhauer due anni prima col Mondo come Volontà e Rappresentazione, situandolo tra la noia e il dolore; ma l’esplicitazione lucida e irreparabile del Nulla è in Leopardi. Nel filosofo polacco-tedesco il Nulla finirà in Oriente e assumerà il significato ulteriore di Nirvana; quello stato di beatitudine e abbandono, vagheggiato pure da Leopardi, nel “naufragar m’è dolce in questo mare…”

Qual è invece la lanterna di Leopardi accesa nel buio del Nulla? L’illusione, “il piacer vano dell’illusioni…senza cui la nostra vita sarebbe la più misera e barbara delle cose”. In forma d’illusione trovano riparo le fedi, le speranze, i miti, i conforti, negati dall’implacabile ragione. Le illusioni come rifugio dall’infinita vanità del tutto, come la definisce Leopardi. Basterebbe ridefinire l’illusione in altro modo, intenderla come un forse, una scommessa sulla vita e sull’essere, per uscire dal pensiero tragico ed entrare nella sfera dell’avventura spirituale. Scommessa ardita che presuppone un cuore ardente…

Allontaniamoci da Leopardi e addentriamoci oltre quella soglia disperata per cercare il senso della vita. Di noi, viventi, contemporanei, anno di (dis)grazia 2020. Partiamo dalla pandemia notando che il contrario della speranza non è la disperazione ma la paura. La disperazione è il venir meno della speranza; la paura è invece l’esatto contrario della speranza. Nei mesi scorsi la Paura ha governato il mondo, producendo un effetto perverso che solo un poeta come Giovenale poteva ben sintetizzare. La frase è nota: Propter vitam vivendi perdere causas, per preservare la propria vita si perdono le ragioni per vivere. Ovvero, pur di sopravvivere si smette di vivere, si perde il senso della vita, o come un tempo si diceva, i motivi che la rendono degna di essere vissuta. È il ripiegamento sanitario a cui siamo stati costretti ha prodotto un paradosso: abbiamo rinunciato a vivere, a lavorare, a essere in rapporto agli altri, pur di preservarci dal virus.

Dopo mesi di prigionia domestico-sanitaria e annunci di recidiva uniti da crisi sociale-economica, chiediamoci allora del senso della vita. C’è chi risponde che è una domanda oziosa perché la vita non ha un senso, va solo vissuta. Chi cerca un senso è ancora orfano di Dio, dei suoi genitori, delle ancore di salvezza, delle geometrie rassicuranti. Il secondo livello di risposta invece dice che il senso alla vita lo diamo noi, e si risolve nel nostro fare, senza soffermarsi a pensare. Tutto è nella nostra volontà, nei nostri desideri.

Ma se la vita ha senso, il senso la oltrepassa: non decidemmo noi di nascere, non decidiamo noi di morire, non decidemmo noi di nascere in quel tempo, in quel luogo, in quella famiglia. La vita è ricevuta, non dirò che è un dono, perché Leopardi e molti infelici ci direbbero che è piuttosto una condanna. Limitiamoci dunque a dire che riceviamo la vita, dono e/o condanna.

Per difenderci dai quattro mali inesorabili della vita – la morte, il dolore, la vecchiaia e la solitudine – rispetto a cui sono inermi le scienze, le ideologie e le tecnologie, dobbiamo cercare un quadrifarmaco, come lo chiamava Epicuro, che possa dare un senso alla nostra vita. Mi sono cimentato nella ricerca di quei quattro rimedi in un libro “meta-leopardiano”, intitolato non a caso Dispera Bene, uscito alla vigilia della pandemia. A dirla in breve i quattro rimedi sono: Amor fati, accettare il proprio destino, anzi amarlo, amando la propria origine, la propria condizione e i propri limiti. Senso dei confini, capire che ogni bene è limitato, come limitati siamo noi; ci perdiamo nel nulla se desideriamo l’infinito, l’illimitato. Oltrepassare l’ego, ovvero non vedere il mondo chiusi nel proprio io, assoluto, prioritario, centrale, ma sentirsi parte di un tutto, mettersi dal punto di vista dell’albero e non delle singole foglie caduche. Infine, viaggiare sui tappeti volanti, ossia dotarsi di risorse naturali e culturali, mitiche e spirituali per abitare più mondi oltre il presente, il passato e il futuro, l’eterno e il favoloso.

La vita non va solo vissuta ma va dedicata a qualcosa di più della vita, a qualcuno, a Qualcuno; a una missione, un compito, una proiezione, abbracciando il destino. In quel quadrivio forse troveremo il senso della vita e apriremo uno spiraglio nella notte leopardiana.